lunedì 30 luglio 2007

Ipotesi

Se n’era ito: il granne prinzipe dei pannoloni per cariatidi, poi re, rendendo grazie a fiumi di piscio di sorore in menopausa, ricco il dorato effluvio d’una sustantia atta a render fertile l’arido ventre di povere damine borghesi sive proletarie; infine caudillo di retro al voto in gabbiette di lamiera messe su in quattroequattrotto da zelanti emissari del Bene presunto dentro scuole, ospedali e casermoni. Ei fu, ciononostante il battage pubblicitario che c’intortiva colla storia della sua certa immortalitade, del petto suo diamantino, del seme suo vincastro. Se n’era ito con granne funerale sparato in diretta reti unificate e ripetuto quarantadue volte dopo ogne tiggì sempre poco prima di Biutiful. E siccome già si preventivava negli ambienti alti, in palazzi bianchi di coca e privi di aroma di sudore dato il poco sgobbo solito, fatta esclusione per il viejo vàevieni di biblica memoria, consumato e circostanziato su tavoli di cedro del Libano, ovvero nei cessi marmorei con lapislazzuli e striature di platino, ché l’aurum l’era poco disponibile… , dico, già si favellaa che la di lui prole nun la sarebbe ita innanzi collo scavo, anzi, le botti richiuse dal ducetto con mille chiavi, laggiù nelle segrete fredde e medievali del sù palazzotto, le sarebbero state deflorate presto, presto, e il vino prezioso altro che pavimenti arebbe tinto di ross’aroma e perdizione. Inzomma, dicea la Giola, tutt’annaa a farse fotter in un battibaleno. Ora: lo popolo basso della nostra terra natale, sempre propenso l’era a saltar di carro in carro purché lo fosse vincitore: se li ricordan ancora i pochi superstiti quei due tre istanti in cui, morto il Fava del Ventennio, tutti li neri cangiaron in bianca veste, urlando: el disiee mé! Quinni tutti li azzurri, volato il loro gran pecorone lassù, tra il terzo e il quarto cielo, attendevan novelle: e pure li altri, che di tante idee non prillavano, sennon di rabberciati e raffazzonati concetti da comizio rubicondo, perzino loro, fuito il granne avversario, più non sapean contra chi inveire, o chi mai accusare per lo portafoglio loro, minacciato d’esiguità; e pure per l’esofago, l’intestino, e le democratiche cagate a cui ci si attaccava per dimostrare che mai l’era stata dittatura: ché se il male nun lo nomini nun c’è. Se n’era ito: e due tre bighellonauti già si domandavan tra loro, in intimi ritrovi da massoni della Bellezza non ancora stuprata, chi, quando e come ce l’arebbe fatto rimpiangere. Dato che lo mos maiorum ci funestava il gulliver da anni e anneti, e pineti, e querceti: lo sapevam bene che siccome venne il tempo che rimpianzer ci fece la balena bianca, la voce di Liocoen e le natiche di Zara, mai bastevolmente cantate dai caconcellos nostri, che invece ne mertaan di dimetri giambici scazonti ed esametri d’epica cavalcata, quei splendidi clivi diafani, ove la mente perdea il senno e giocondo il Priapo s’ergea rubinazzo e rodomonte; ah, altri tempi, altri orgasmi! Dico: lo sapevam bene ch’aremmo preferito il gran tappo: ma di fronte a chi? Quando? Come? Fu ai primi comizi che prinzipiai a isperar vedere lo cielo ben prima del tempo destinatomi dalla Tyche perversa: già il popolo giovine e potenziale brandiva nuovi manganelli e nuove camicie e lassù sur palco, microfono di sbieco nella destra, berrettazzo nero, seppur ci fossero trenta gradi, calato sui lumi, catenacci aurei, anellazzi diamantati, panza da vermo grandissima… anfibi corvini slacciati e finto logori… il nuovo granne Rapper rappeggiava ‘o sù programma elettorale, svincolando tra il dover fare, il farò, e tutti li ricchi del vecchio regime la pagheran cara, perché noi semo il novo ch’avanza! Ahinoi! Che il Vello d’oro c’aiuti.

domenica 29 luglio 2007

Un attimo nella fucina

Avevo pensato di scrivere qualcosa lasciando il comando al mio vero Io, di aprire il gabbio, scuotere il tizio meditabondo che lì dentro conta i denti ai francobolli e vedere se aveva voglia di essere sincero, vero… avrei potuto copiare il Dosto e iniziare con: io sono un uomo ridicolo… oppure Camus: l’uomo assurdo… e parlarvi del significato della vita e del senso della stessa, del collasso della ragione, del cul de sac, del cane che si morde la coda, del corto circuito; senza immagini, metafore, similitudini, barocchi artifizi atti a covrir lo senso grezzo, lo scudo di Teseo. Ma Johnny Cash m’ha convinto, e non ci voleva molto sforzo, a desistere: sarebbe farvi un torto, o farlo a me stesso, in fondo meglio darvi le mascherate, l’attore Zrcadlo, evitando il crepuscolo degli dei, il possibile asceta, il misantropo, tanto sarò quel che sono: un uomo solitario. Io parlo per immagini: me lo disse chiaro e tondo un assistente che mi interrogava in storia contemporanea; e come si divertiva… sì, parlo e scrivo per immagini, forse per autodifesa, forse per rispetto delle cose e delle persone, forse perché voglio essere libero… e per farlo ostento le catene. Oh, ma a me stesso non uso gentilezze, e non scelgo immagini… vò ritto al cuore delle faccende; ma con voi, con altri… con tutto quello che sta fuori dal gabbio… . Stamani ricordavo un mio errore interpretativo allorquando da chierchetto sentivo ‘sta frase del buon nazareno: siete tutti mondi… e io fermo con la cotta bianca sulla veste nera, mi figuravo che dicesse: siete tutti mondi, piccoli pianeti a sé stanti, coi vostri problemi, sogni, speranze, dolori, illusioni… e gli altri ci entrano, sì, ma di sbieco, da porte di servizio, perché padroni dei vostri mondi siete voi, e lo dovete essere, dato che ne renderete conto voi e non altri. Invece il prete parlava diversamente, ma io restavo lì con le primigenie idee di individualità, strutture, ego, es… vabbè. E principiavo a sentire i mondi altrui, a tendere verso il sospetto che tutti recitino, perché nel segreto delle loro vite non fanno entrare nessuno, ma che tanti, tanti, si illudano di essere finanche sinceri. Furono forse i fumetti o le prime letture a condizionarmi e a darmi il vizio di lasciar perdere la via dritta per preferire sempre quelle di sbieco anche con chi credo sia degno di sinceri conversari… poi ho capito che in molti non vogliono che si parli per davvero, cuore aperto, senza vie traverse, forse per paura, forse perché la Medusa pietrifica, forse perché… sì, il velo di Maja è meglio che copra… . Divago. Quindi no, non vi parlerò direttamente, è meglio così. Ma farò lo stesso qualcosa contro natura… aprirò la fucina e vi mostrerò cosa c’è sotto Brandelli anche se qualcuno di voi già lo sa per conto suo. Il branetto precedente nasce in cinque minuti, su un foglietto di carta mentre faccio gli addominali: poi copiandolo sul pc, ci aggiungo una, due parole, e lo posto. Quindi ora lo smonto dalle immagini e se non ve ne frega un cazzo non leggete più innanzi e tornate ai vostri impegni. Dunque, il tonfo: camminavo verso l’ingresso della Cattolica e vidi la bellissima C. che stava per entrare; aveva una lunga gonna a colori e fui fulminato da un pensiero: oh, se non fossi… così, se non brancolassi nel Nulla e ne fossi capace, questa è la ragazza il cui nome scriverei sul mio scudo col sangue… la donna che in tutto e per tutto vorrei. E furono i particolari, la gonna, gli occhi marroni… a dirmelo, come spesso accade nella vita: i particolari parlan ben più del tutto. Ma appunto in me la lotta tra la volontà e la nullificazione già volgeva verso il trionfo di quest’ultima, e poi fu davvero solo terra desolata, morte e degenerazione. I ragnateli richiaman Montale, certo, Il sogno del prigioniero, e le iridi che pure io suscito su questo orizzonte, solo così, per non sentirmi del tutto finito. Il re birbaccione fui io… e quella relazione così dominante, nel mio maniero. Ma già l’età dei progetti andava a farsi benedire, col tramonto dell’università, dei barlumi di idee nel buio ormai dominante: così con Melbourne e l’auto da fè di tutti i miei innamoramenti. Ma gonzo non sono: lo so pure io che finché non si muore non solo s’ha da vivve… ma la vita dietro i cantoni ti sbeffeggia con prillii di vecchio stampo, contornato di novità: il sasso che cade nella pozza scura è il ripetersi di simpatiche sensazioni ma che non mi minchionano più, eppure mi attraggono, come segnali di una natura non del tutto assopitasi. Incontro ancora persone che mi piacciono e, prima che lo strutturalismo e la nullificazione sbaracchino il sentimento, faccio ancora a tempo a capire… che potrebbero piacermi se… se tante cose fossero diverse. Così non è, e pace. Così incontro gli occhi di qualcuno/a (la fonte ove qualcuno prima o poi berrà e si perderà, buon per lui/lei. Non che alla fonte Bandusia ci si perda... eh, ma mi ricorda un'altra fonte, chiedere all'Ariosto per delucidazioni) e rivedo lungi le fiammelle d’un tempo. Poi tutto s’annacqua, ma è ancora interessante la cosa… l’appigliarsi della mente all’innato desiderio di ingannarsi e di credere a quel che al mondo pare altro, invece che un breve sogno. Uff… fa caldo e avrò già rotto i coglioni… beh, ciao.

domenica 22 luglio 2007

Brandello

Non saprei dire se il tonfo nelle segrete di mille anni fa, seguì l’adocchiare il mogano mascarato ovvero la sottana svolazzante alla brezza dell’urbe. Non si sanno mai queste cose. Né si capisce mai perché particolari come inezie feriscano e lacerino quanto più della daga d’un centurione qualunque. È che laggiù la tenzone si strascicava lenta e putrescente con esito ormai certo e più nulla poté la novitade d’un pensiero. Poi furono solo passi nella nebbia padana senza coltello per fenderla a pezzetti, tra ragnateli e cadaveri marcescenti e ruine di manieri ove più non solean re birbaccioni tracannare coppe di Falerno e trapassare, fatti certi dallo ius primae noctis, povere appena maritate. Non l’è più stata la stagione dei progetti e né fiaccole, né lucciole… sulle strade neppure cartelli, insegne, così da sapere o dove si va a parare, per dire. Ma un totale oblio l’è concesso solo dietro ad Abadonna, sicché finché si è sul palco basta anche un piccolo monolito nell’oscura pozza per far nascere cerchi concentrici in fuga dal centro, per sparire sotto l’occhio del ramingo rapito ed incuriosito che il rigor mortis non sia ancora. Ci si sente così buoni davanti a lucidi lumi com’aigua di fonte Bandusia e persino il Nulla sorride d’ebete bontà; o il suono di innocente risata contornato di riccioli ramati e d’efelidi: il bischero demonietto la sa lunga su questi trucchi, ma molto cinebrivido. Ci si sente più buoni, come se si potesse sedersi sereni di fronte al tramonto.

giovedì 19 luglio 2007

Estate o del Tapino

L’asfalto ribolliva davvero, signori miei! Altro che palle da cine americano: seduto all’ombra della pompa sputa benza, guardavo l’autostrada sudare rigata in continuazione dalle gomme delle carrozze in corsa. Colava anche lungo la mia fronte, l’intruglio salato e la bottiglietta nella ritta non prometteva alcun refrigerio per le viscere. Fottutissimi camion sferragliavano strombazzandosi tra loro come bambocci giganteschi, mi figuravo nerboruti panzoni villosi, unti di strutto e locchianti le poppe d’una barbellona a stelle e strisce. Pà stava finendo di rimpinguare la station, mà cercava un’albicocca a testa: il carrello attaccato dietro tirava un sospiro gonfiando il telone marrone. E vaffanculo se si era partiti sotto un acquazzone che manco Noè aveva visto: incredibile a dirsi sotto il sole giaguaro, ma, nemmeno fatti dieci chilometri, il pà aveva dovuto interrompere il viaggio dacché non ci si vedeva un cazzo, tant’aigua piombava giù dalla grigia volta: l’era stata veloce la buriana, ma grandio, se non c’eravamo cacati sotto. Ed ora si evaporava la cervice in un amen: metà viaggio verso le piagge isolane, vacation meritata, se si misura il merto col desiderio. Io allora non potevo ancora condurre il carro motorizzato come Fetonte… ma l’idea di girare il volante sapendo di trascinarti dietro un carrello tenda, non l’era cosa che m’aggradava, e neppure oggi. Troppo blu il cielo, troppa luce, troppi stronzi sulla via, verso due settimane da lucertole. Dall’altro lato della strada tapini come noi già riedevano verso il dovere, sotto lo stesso sole, attraverso la stessa aria densa: se una cosa s’ha da finire così in fretta, o perché mai principiarla? Riposo: beh, rientrando nella station, riposo non mi sembrava poi vero; certo io non guidavo, ma il culo mi s’accalorava, le gambe diventavano insensibili, le palle si schiacciavano e la testa pulsava: pà e mà la vedevan più serenamente, credo, ma a me, tutto ‘sto travaglio per pillole di tranquillità, mi pareva troppo. Forse perché non ci coglievo il sugo, forse perché già mi sapevo all’ombra dell’ombrellone a leggere King, forse perché ero già perduto: risalivo in macchina trattenendo il fiato.

Non lo so quali fossero le canzoni di quell’estate: i soliti jingle, le solite storielline facili facili… so che già allora non ascoltavo la musica… contemporanea; ci saranno state le fregnacce da disco, buone per schiappettare e sudacchiare nelle balere, poi le allarga cosce che avrebbero lasciato indietro il solito codazzo di cuori infranti e di feti un giorno tristi fanciulli non desiderati, o gettati nei cassonetti. Ho sempre guardato lungo le autostrade cercando di buscare i figli della noia, i lancia massi, oppure qualche botolo ramingo, lasciato indietro, giocattolo cresciuto con la pretesa di mangiare, cacare e voler bene alla creatura d’un dio mattacchione. Io non li ho mai visti, ma non occorre vedere per credere, talvolta, anche se Tommaso lo capisco. L’estate pigliava le promesse della primavera e le edulcorava: facevo fatica a non credere alle illusioni del solleone, della rena, delle onde, delle tedesche nude, dei canticchiavi sempre rararairarà. Il vostro re Tapino d’estate restava persino basito, ma avevo già ragione, tutta morte e degenerazione.

lunedì 16 luglio 2007

Incontri nella città cangura

I

E allora cammino in una delle solite vie dove tutto è alla moda semmai si sapesse di quale moda si sta parlando, non certo di quel fiato di vento che or vien quinci or vien quindi e muta nome perché muta lato, come appunto qui giri il cantone e ritrovi le baracconate dell’altra via ma di altri commerci… d’altre importazioni. Comunque cammino in ‘sta via, pian pianino ché il mio ginocchio fa le bizze e passo tra la folla poco attento al cicalare in mille favelle, quand’ecco che da man manca mi passano due tette gaudenti e io indugio subito colla mia urgenza di vedere qualcosa di bello. Il sorpasso prosegue ed il mio occhio birichino scende lungo le finalmente sinuose forme della fanciulla, bloccandosi fulminato sulle chiappette, belle tonde e liuteggianti. Poi torno verso l’alto pronto a carpire il gesto vezzoso della callipigia che vuol raccogliere la chioma come ramata cascata in una crocchia in alto, ma il gesto, ancheggiando, l’è arduo e la spuma rossa riscende e lei ritenta, il tutto scoprendo il collo, a lo ver dire troppo abbronzato, ma come vischio mortale per l’incauto uccellino occhialuto. E ritorno in basso, gigione, vedendo la spina dorsale e i fianchi che si restringono in una testimonianza non alcolica, una volta tanto. Il costume è bianco, in due minuscoli pezzi, e l’inferiore è velato da un pareo rosa trasparente. Gran dio che impertinente quel sottile tessuto che non vuol stare a sentire ragioni ed entra birichino tra chiappa e chiappa, mentre la sinfonia si fa martellante, più giù le gambe paiono consone al gioioso posteriore e da bravo discipulo di russi, occhieggio le caviglie filiformi e sorrido ad un degno invecchiamento se corredato da oculata alimentazione. Poi torno sulle chiappe che il buon Gesù non mi rifarà vedere facilmente giusto in tempo per vedere che l’amica, e chi l’avea vista?, ha notato lo sbirciare del poarello e si fan vicine alla vetrina ed io passo col mio lento caracollare, per qualche secondo grato alla via modaiola. E mi figuro l’approccio e la richiesta di appuntamento successiva e rido di me… poi considero Franceschino e rido di loro che al bel paino non saprebbero dir di no, anzi non parrebbe vero d’aver cotanto onore, ma il fratello è lungi ed io porto la mia faccetta calva in altro loco ché c’è da spedire cartoline.

II

La Bellezza salverà il mondo. Usi ed abusi di questa frase; mi ricordo della mia arrabbiatura quando lessi della figura del principe Myskin affiancata a quella di Gesù, senza poi alcun dubbio! Ma non di questo voglio scrivere. La Bellezza salverà il mondo? No, certo che no, rantolerà verso la fine senza giudizio, poi sarà un nuovo inizio; ma una piccola bellezza salva una giornata, sì. Così stamani mi trovavo nella City coll’incombente dovere di comprare souvenir, ché non è possibile redire in Ausonia senza; e giravo ramingo e bastonato tra negozietti dove non sapevo se arrabbiarmi o no, per la stessa sterile ripetizione, su tutti gli scaffali, degli stessi malnatissimi oggetti per giunta tutti con etichetta certificante la provenienza cinese. Entravo ed uscivo sentendomi sempre più mogio e cariche le spalle d’un pondo simile a quando scarrozzavo lo zaino alpino. Poi, spronandomi come davanti al cancelletto per le gare di sci, mi son preso il cuore nelle mani… ed in apnea ho concluso trattative ed acquistato ricordi per i genitori e per quanti altri mi son venuti alla mente non abbastanza narcotizzata. Subiti i mille sorrisi delle cassiere, col loro farfugliante mercì, me ne son tornato a casa reso iracondo anche dal ginocchio nuovamente cigolante. Quindi nel pomeriggio, serio o faceto, decidevo di recarmi in un loco ove sapevo di trovar un raro dvd d’un vecchio film con il mio idolo Emmanuelle Beart, già volenteroso di rifarmi dello scorno mattutino vedendo la dea nell’etade fanciulla e ristorando così la frustrata psiche alla fonte di tanta grazia. Ma la tristezza m’era così abbrancata, che non sapevo decidermi all’acquisto, preso a ponderare i soldi ch’abbandonavano le mie bisacce.

D’un tratto, come all’inizio della Fuga, vengo stordito dall’ingresso nel piccolo negozio, d’un lacerto di bellezza che con immensa sua generosità vaga per questo mondo donando serenità, e momentanea emozione ai miseri tapini, cerchia di cui io faccio da tempo parte. Mi scivola alle spalle e repente parla al commesso con l’odiata lingua della perfida Albione, che deve pagare per i suoi delitti, ma con un tono che rende armonica anche quella che troppo spesso mi par cacofonia. Non visto, la guardo: capelli corvini raccolti in un travolgente disordine, pelle leggermente abbronzata e attraversata da delicate efelidi, labbra carnose, ricorda la principessina del paradiso fiscale, ma più matura e con sprazzi d’Angelina la bella. Secche le fauci, piglio il dvd, appena la piccola venere cangura s’è allontanata, pago e le passo io dietro stavolta, odorando il sole e l’aria marina e notando che sotto i gitani vestiti par tutto al proprio posto e cum gratia! Poi esco e, profittando del lento apparire dell’omino verde per attraversare, attendo e me la trovo dietro con l’amica che forse era pur lei nel negozio ed ad alta voce latro –mioddio ma quanto sei bella!- tanto non mi capiscono e, mentre attraverso, lei parte per la direzione opposta scomparendo nel suo futuro, che la vedrà tramontare e purtroppo perdere la tessera… d’emissaria della Bellezza e subito riabbraccio il mio fratello Munch…

Tornato nell’ombra non posso che constatare quanto sia ampio il divario tra la consuetudine, triste e laconica, e il caso particolare capace di farti suscitare davvero arcobaleni su orizzonti di ragnateli e petali sui tralicci delle inferriate.

Ad essere Montale, però.

domenica 15 luglio 2007

Primavera (a spasso senza costrutto)

La primavera.

Credo di essere sempre stato allergico. Anzi ne sono sicuro. Ricordo che mia mà mi indicava come “fridür permanente” e di fazzoletti ne smosegnavo tanti. Pure il rosso mi colava spesso: ne ricordo a scuola… a sciare, a casa, dalla zia… che mi metteva un dindo sulla fronte e mi faceva reclinare il capo all’indietro, rischiando di soffocarmi col mio stesso sangue: poi ho preso a ragionar col cerebro mio, a soffiarmi fuori tutto l’intruso e il flusso cessava prima. Sì, ero sicuramente allergico e la primavera già l’era nefasta. Eppure la si aspettava volentieri: si appropinquava la fine della scuola, e l’inevitabile periodo dei giochi in terrazza colla pallina da tennis presa a calci, dietro al morbo dell’onanismo ludico, non biblico. Per quello il tempo sarebbe venuto, ed in abbondanza. Eh, già, le influenze, dacché si sudava sempre, presi chissà da quali impellenti impegni… ma a ben pensarci, io mi ammalavo in tutto l’anno. Finivano i pomeriggi in Pezzeda: allora nevicava alquanto; finivano le garette, e già si parlava, a casa, di mare. Non era già la mia stagione, eppure i colori e la temperatura non mi rompevano i coglioni con strafottenza:la moderazione andava bene a tutti, grandi, piccini, vecchi e lavoratori, e forse questo lo sentivo, o forse no. Penso solamente che si declinava verso la fine delle sedute in aula… ricordo questo; aprile bagnava ancora troppo l’intuita libertà e maggio… maggio, cribbio, ci portava i maggiolini… le sanforgne! Dove cacchio saranno finite? Ne ricordo a mucchi, giù, al santuario, le prendevamo per farle combattere, prigioniere in aula, dentro posticci ring; le facevamo volare dalla finestra e ci stupivamo che parecchie si facessero beccare attaccate a coppie, un po’ come quei tizi sui giornaletti celati in buche, su, al salto in lungo: ma che fosse naturale, l’era cosa chiara anche a dei piccoli stronzetti, ignoranti del bene e del male. Beh, del male mica poi tanto. Il fatto è che i maggiolini imperversavano… anche vicino casa, sopra la fontana, coorti, legioni di carri armati in miniatura volanti. Ah, sì, la campestre, i giochi atletici… Sparta in Valletronfia. Tutto morte e degenerazione. Poi si andava per i sentieri, in Calchere con l’amato Gim, ciondolavamo in Caregno a fare i cretini gettando acqua sulle poppe delle coetanee, stupendoci anche lì che si intravedessero seni veri. Ci si stupiva di tutto, a primavera. Ma delle rondini non me n’è mai fregato granché, nemmeno mi son mai curato dei nidi, non ci si può curare di ogni pettirosso caduto, vero Cohen? Ora che ci penso… ero al liceo, guardavo la finestra, e vidi su una grondaia un fratellino volante: è veramente dura, volare; forse allora ci credevo ancora, ai sogni, ai progetti, alle fole, alle strolaghe. Sì, c’è una primavera nella vita di tutti, e gli odori non sono molesti e ogni cosa è potenziale; ma non è mai stata la mia stagione. Anche in seguito, schiacciata dagli esami… non ho mai fatto granché, fuori, al sole tiepido. Dalla terrazza del Blachì potevo saltare alla noia d’agosto, tanto un appello qui, un altro lì, giugno e luglio si fottevano, e i mesi precedenti… pure parentesi. Ma la città un fascino l’aveva, quello dell’asfalto non ancora bollente, quello dei primi gelati all’ombra davanti alla Feltrinozzi, quello delle sottanine svolazzanti: e si poteva camminare e camminare, in pia processione verso niente. La primavera ti fregava con le sue promesse, con cestini, gerle di promesse, mai mantenute. La primavera: liete carole di fanciulle di fiori vestite e Pachelbel gigioneggia… inseguono teorie di farfalle moriture, svolazzi colorati sopra petali fragili come la brezza e si sparpaglia il polline molesto per eternare la specie, almeno finché la creatura a sua immagine e somiglianza non pigli falce, falcetto, decespugliatore e bomba H. O napalm. In primavera tutto sembra bello e possibile.

domenica 8 luglio 2007

A tavola

Deve essere sorto in me all’epoca del primo corso di storia del cristianesimo allorquando tenevo la mente sveglia visualizzando fantasiosamente, e nemmeno di molto lungi dalla realtà, quel che la buonanima del professore spiegava. Del resto eravamo soli, io e la sorora panzuta, nella piccola aula, e non soccombere alla stanchezza di due ore filate, l’era impresa mica da poco. Un po’ come Alex bello in Arancia Meccanica, cominciai ad immaginarmi compagno di tavola di Martino Lutero, intento agli intingoli, al beveraggio e alle poppe di Caterina: il frà magnava a quattro palmenti e noi si aspettava l’effetto del vino per udirlo predicare. Questi particolari, della taciturnità di Martino e della successiva loquacità sua ebbra, mi si inchiodarono al cervello come le natiche di Zara. Aggiungiamoci che a quel tempo noi bighelloni si mangiava spesso insieme e, collo stomaco pieno, si berciava molto cinebrivido. Quindi, vuoi i discorsi a tavola del Lutero, vuoi i nostri berci al desco, vuoi il Convivio del Durante, vuoi una centomila o no?, vuoi quel che vuoi… partorii la teoria del compagno di tavola: cari i miei otto lettori, in definitiva mi chiesi: è possibile misurare il gradimento verso una persona, viva o morta, chiedendosi solamente: -ma ci mangerei insieme volentieri o no?- e –quanto volentieri- ?

Parliamo un secondo dei piaceri della vita: il sesso, ammesse le orge, che il misero tapino vide, e vede solo sul video, l’è roba a due e mica dura tanto, e poi ci sarebbe il discorso onanistico; la cacca, eminentemente piacere solitario, riflessivo, introspettiva seduta del gaudente, con strombettamenti e morbidi effluvi; solamente il cibo è condivisibile, piacere anche di gruppo, con conti sodali e buoni. Ma qui casca il fratello somaro: o qual tortura peggiore v’è del mangiare con individui molesti, non graditi, tritacazzi e spaccacoglioni? Subentra la fretta, la difficoltà digestiva, la facoltà gustativa azzerata, la disattenzione, finanche il vomito; e i discorsi di convenienza, la paura di sporcarsi e non pulirsi rattamente, il filo verde tra i dentoni, il rutto (non nel caso del vostro qui presente) soffocato all’altare di madonna Ipocrisia. Ma quando invece si magna tra amici, sodali, compagni di merende, paisà, lurchi nell’animo, e liberi di berciare e usar mani e vocaboli come fabbri ferrai! E volar d’opinione in opinione, di racconto in fabula, di teoria in fresconata, siccome li voli del grande Pindaro. Tutto il cibo si spezia e si gusta e si digerisce meglio, si trogola giù che l’è ‘n piasèr! Quindi, lettore amato, piglia o chi tu vuoi, che la sia persona reale, viva, tizio storico positivo ovvero presunto negativo, e chiediti: ci mangerei assieme volentieri o no? E se sì, ma quanto volentieri? Così per far graduatoria con scudetto e retrocessioni. Vedrai quante scoperte che tu fai. Dico: l’infame Ipocrisia male s’accoppia con la tavola. A letto, nei fienili, membro in mano o penetrato, in chiesa, nei municipi, al lavoro, a scuola… si può essere, purtroppo spesso si deve essere, ipocriti: ma a tavola, qual differenza tra la conviviale libertà e gusto, e la forzata sopportazione della contingenza! Buon appetito cari drughi o soma che voi siate.