Tante volte, lungo il sentiero che m’ha condotto dall’utero materno all’oggi, ho preso tra le dita la penna intenzionato a descrivere la Bellezza, ed altrettante ho abbandonato l’impresa sopraffatto dall’inaccessibilità d’una pura e semplice chiave di scrittura: come racchiudere la forza d’uno straripante senso di inferiorità nel breve volgere di qualche periodo, sul niveo candore d’un foglio o saltarellando su una tastiera fissando il virtuale e fitto bosco bianco di pixel, ove imperioso lampeggia un segmento nero in attesa di lasciare dietro sé parole? Né con l’inchiostro, né con i polpastrelli mi riusciva di veicolare il sentimento, cristallizzarlo, e strapparlo all’informe per dargli una definizione scritta. Né mai ci sono state le domande giuste a cui abbozzare risposte o replicare silenzi di sconforto: neppure davanti allo specchio si riesce ad ingannare la realtà, a porre a se stessi questioni che altri non sanno, o non vogliono affrontare. Ma neppure c’è mai stato il giusto panico, grazie al quale, almeno per istinto di sopravvivenza, uno potrebbe reagire e strappare dalla mente la cagione di tale annientamento, di indefinito senso di impotenza verso qualcosa percepito come immenso e allo stesso tempo, inafferrabile ed inevitabile. Come il senso stesso dell’arrabattarsi quotidiano, di quella lotta per la vita, la battaglia che cela, dentro le spire dell’inganno, il nulla essenziale, ed esiziale.
Perché è un dato oramai assodato: la Bellezza s’accompagna al Nulla, e l’uno non prescinde dall’altra. Ed eccola qui, una frase di quelle a cui segue un attonito: -e allora? Eppure il tapino che dentro al cervello riconosce le inaspettate epifanie e il subitaneo collassare di quel sentimento, intuisce la stucchevole, per altri, pregnanza d’una simile affermazione. Passi già compiuti da individui ben più importanti ed abili ad arraffare l’istante e congelarlo nell’illusione dell’opera artistica: ma, in definitiva, disadattati pure loro, consapevoli che il segreto ben sfugge tre le maglie dell’ipotetica rete tesa come trappola; eppure ciò che resta reca in sé le stimmate del tormento generatore, in modo tale che, il simile per destino, potrà stanarle e vivere dentro se stesso qualcosa di affine. Non identico: la Bellezza stordirà l’individuo e questi, avendone l’abilità, ne produrrà un surrogato, sapendolo però pallida ombra della forza creatrice, la quale sarà scomparsa appena dopo l’apparizione, lasciando dietro un doloroso riecheggiare… ma il risultato rimarrà come teste, come barlume del dissidio tra immensità e annichilimento che l’ha generato, e questo ad uso e consumo di coloro che hanno gli strumenti per decrittarne il linguaggio.
Ma chi non ha l’abilità per catturarne l’imago, vive un dissidio ben peggiore allorquando la Bellezza appare mostrandosi immensa e crudelmente implode in sé, lasciandosi indefinibile, sennon per balbettii o per silenzi: c’è chi cattura brandelli e crea almeno arte e chi non afferra un bel niente e partorisce altrettanto. Si ha l’impressione di poter abbracciare il Tutto e, siccome Dante nel Purgatorio con le anime, le mani si trovano a circondare l’aria, s’annaspa senza l’equilibrio supposto, senza l’appoggio che ci si illudeva di cogliere corporeo. In un attimo si ha cognizione del segreto e intuizione dell’inutilità dello sforzo: così ricerca, approdo e disinganno diventano un tutt’uno. Dicevo dell’eco: segue l’epifania della Bellezza e resta a trapanare la mente quando Questa se n’è fuggita; eppure, proprio in funzione di questo riecheggiare, che altro non fa che ripetere quanto si è inutili, piccoli, deficienti ed inetti, proprio nell’inseguire tale sofferenza risiede il senso, per altro inesplicabile, della Ricerca, della vita stessa. Quando ci si sente nulla, quando il Significato implode nel Nulla, quando la mente si sa schiacciata, allora si sale su un’onda lunga, che si allontana sì dall’epicentro, dalla Bellezza che l’ha originata, ma che ne reca i segni e in definitiva, permette di rivivere, almeno in piccolo, altre mini-epifanie, di perpetuare l’illusione, finché non resta che l’amaro vuoto. Quindi nasce il Cul-de-sac, la trappola che si sa tale, il cane che si morde la coda, il pensiero dominante: ogni cosa, intesa come viva, non è che morte e degenerazione, Bellezza e Nulla insieme; diviene necessario chiedersi: ma cosa è veramente vivo? Ove risiede il sentimento da cui vale la pena farsi annientare?