domenica 30 settembre 2007

30/09/2007


TANTI AUGURI LORI!!!!!
BUON COMPLEANNO!!!!!!!!!!!!!!!!
(E IMPARA DAGLI AUSSI A LEGARE LA BICI IN QUELLA MEDIOLANO DA BERE!!!)


giovedì 27 settembre 2007

A present

Lei non ti dice mai da dove è saltata fuori.

È solo ieri, non importa se è passato,

mentre il sole brilla

e nella notte buia

nessuno lo sa, lei viene e va…

Arrivederci Ruby Tuesday

Chi ti po’ catturare in un nome

se muti con ogni nuovo giorno?

Finché mi mancherai.

Non ci si chiede perché voglia essere così libera.

Lei ti dirà:-è l’unico modo per vivere.

Non puoi metterla in catene

dentro una vita che sai vuota.

E nulla vale un tale prezzo.

“Non c’è tempo da perdere” ha sussurrato,

“piglia i tuoi sogni prima che scivolino via

morendo ogni volta,

perdi i tuoi sogni e perderai il senno

è ingiusta la vita, vero?”.

Arrivederci Ruby Tuesday

Chi ti può cristallizzare in parole

se muti con il corso d’Apollo?”

Finché indulgerò nel ricordo.

Liberissima traduzione del capolavoro dei Rolling Stones, Ruby Tuesday: ho pigliato anch'io il soprannome usato da Jagger e Richards e dedico canzone e testo ad una fanciulla in partenza. Perchè Ruby le si addice? Lei lo sa. Perchè martedì? Sa pure questo.
Buon viaggio Stefy, che Apollo ti benedica.

mercoledì 26 settembre 2007

Aperitivo

Non ci volevo andare, cazzo! No! Non ci volevo andare! Teste David cum Sibilla, o Majin Bù, o… Odino, qualcuno che testimoni che io non ci volevo andare ci sarà, epperdio! Che se poi non mi volete credere, allora andate a farvi fottere, o non leggete, dato che della vostra comprensione, o pietà, o… o critica, m’importa ‘na sega elettrica. Ma ci sono andato: tutti a dirmi: -e sei un misantropo –e morirai nella tua polvere –e non sai vivere – e non sai che ti perdi… e cagate così che ben conoscete, miei tre-quattro lettori, miei cagacazzi soliti, trinciagiudizi da botteghino del salame d’asino, con rispetto per l’orecchiuto sodale, germano, esempio di lungimiranza imbecille e stoica. E ci sono andato: che ci devo fare? Me ne sto lì davanti al quindicipollici aziendale per otto ore a menare il can per l’aia, a spulciare quattro bolle di a da in per con su tra fra… a cercare donnine prone nella rete e scaricarmele sulla chiavetta onde sognar di chiavar colle medesime, mentre, seduto nella mia tana, brandisco il fratello di nessuna battaglia, di nessuna presa della Bastiglia, a pagamento o per volontario spalanco di cosce olezzose e ingannatrici. Otto ore di scaricamento merda giù per la discesa della Santa Madre Azienda e pause e pranzo e banana e brioches, sempre nelle tasche della Piovra Tentacolare Economica. Ma a voi ikkè ve frega? Ecco, sì, li vedevo ciacolare come sempre, levando la mia pelata sopra lo schermo cosicché i lumi facessero il loro servizio, dico, li guatavo fare un cazzo pure loro, ma lavorare di lingua, saliva, denti, mani, sudore e mentula ritta e subina grondante… alquanto, tutti lì alla scrivania della Vippi che se la chiamassi io così me menerebbe il pippo per ore denunziandomi al capo, al capo del capo, alla Santa Inquisizione, agli amici suoi guaglioni. La passeraccia se ne stava di tre quarti sulla sua sua cadrega rossa ottenuta con fellazioni straordinarie, il gomito sulla nivea scrivania, il biondo crine gemmato scarmigliato ad hoc, la camicetta aperta giusto per mostrar la valle tra le due poppe della Mesopotamia che vide alle sue falde più di un Isacco di Ninive… rossa, ‘a camiscetta soa, la microgonna nera sulle cosce diafane e li tacchi da zoccola de ‘a Mandolosa… tutto bene in vista, merce alla mercè de li colleghi libidinosi ma privi di possibilitate armeno fin quanno la barbella c’avrà l’età e la pelle per li yacht, poi però, si nun l’arà truat er gonzo ricco da spellà, mo je toccherà er colleghino, o er spazzino per scovolognà ‘a subina e mantener la sua tracotanza. Insomma la Vippi teneva banco sbavazzando attorno e i lapilli di bava li coglievan felici i dù zozzoni der marchetingo aziendale, il Vanni e il Poppi, la valchiria della valle raminga, la Giuni, e il nano puzzolente e gaio, il Bucio. Id est: tutto l’offizio braveggiava al table della Vippi, tranne me, pelato, occhialuto, mezzosegaiolo. Raggiunsi la picture d’una slava impallinata da un verro e ghignando serafico risollevai i lumi verso la Vippi iusto in time per vedere l’assenza delle mutandine e udire un gridolino di piacere dacché il nano puzzone s’era preso la briga di estrarre qualcosa di prezioso dal suo giocondo taschino, frate del gonnellino di Eta Beta, ma ferente sole minchiate. Giudicai la Vippi passabile anche dal verro… ma solo perché sono foioso, invidioso, sfigato, boaro, e finito, valligiano. Loro, cittadini, la crema della società, del consorzio umano, del monno impiegatizio e vattelapesca. Pure la Giuni, solita a dirmi oltre il ciao ordinario anche frasi come: -ekke cazzo fai?... pure lei gridolinava in preda ad un orgasmo tantrico che nun saccio che vor dì. Bah, salvata la foto, me ne stiracchiai la schiena, facendo cric-croc… e sentii la profferta del Vanni: -Aperitivo? No, minchia, no, l’aperitivo, no! Tutto, gas nervino, napalm nel culo, ma no l’aperitivo, no! Cominciai ad occultarmi, a sparire: bastardi, lo sapevano che odio l’aperitivo, ma son di strada, pezzi di merda, mi invitano per ridermi in faccia, per soffocarmi nel loro verbo mostruoso, per spingermi al suicidio. Ogni volta mi invitano, balocco da sbaloccarsi prima di ire nelle villule loro, nei pubi, nelle palestre, o dove vanno a passare la serata loro must, very, very must. E ogni volta: ho il cagotto, ho fretta, ho un impegno, è tardi… e sfottono di più. Ma l’ultima, giusto due sere fa, m’ero ingabbiato da solo, avevo detto: la prossima volta vengo, ma cristo, perdonatemi, pensavo di morire ieri, o che morissero tutti loro. E Ei loro.biato da solo, avevo detto: la prossima volta vengo, ma cristo, perdonatemi, pensavo di morire ieri, o che morissero tu invece no. Eccoli: -sì, dai, ape, ci si vede là, okkei, poi si va… . No, non guardatemi, non guardatemi, bastardi… sempre più giù, avevo visto uno scarafaggio sotto il case… e invece: - ehi, A., stasse vieni anche tu! Ricordi? La Giuni, troia fottuta di ganna: - ah, eh, ecco ho un impegno… . –eh, no, caro, stasse vieni pure tu. Il Poppi, mefistofelico fijo de ‘na mignotta. Così, cari vicini e lontani, levai il mio bolso cadavere e sull’attenti dissi che sì, ci sarei andato, parola è parola. –Evviva! Chiosò la Vippi già ghignando, lurida spompa gessati aziendali. E ci andai, come vi dissi. Trillò il campanello e tutti uscimmo, io ultimo, lontano, appestato, testa china. Loro davanti a berciare sempre e comunque, ad imperlinarsi scambievolmente, a tessersi elogi e progettare inculate scambievoli, schiavi ipocriti merdosi. Il bar era poco lungi, grandio, almeno quello: io sempre dietro, cane bastonato, seguivo il lezzo delle barbelle e la bauscia dei paini, liete loro carole, alti loro cachinni. E bestemmiavo in me, iddio, li santi quattro evangelisti, angeli, arcangeli, troni, potestà, virtù e dominazioni, e quanno ‘a Candida s’era impaurita… giungemmo al loco d’ogne intelletto muto: il Bar Strogolo, pullulante di impiegati allo sbando, e tintinnante come una legione di cristalli di Boemia, il ritrovo prima delle missioni uterine e cardiovascolari di quei cittadini principi dell’umana spezzie. E c’era un table libero, porcogiuda, manco a farlo apposta: via di filato verso le sedie, giù i culoni, ecco il vespillone col farfallino verde, ecco le ordinazioni, carte per la conversazione per tutti, e bacardiaperolgingercrodinocolbianco e patatine e olive e vaffanculo. Gighe e sarabande, sudore e ghigni, poppe che sobbalzavano, scroti che sgrondanavano, saliva a flutti, esse sbiascicate a vanvera, passere deflorate e pippi spippottati, senza sosta, senza ritegno, senza sacramento. E io lì, solo nella pazza folla di coglioni, scoglionato e represso, fumiginante sulla cabezza e loro giù di macchine, palestre, night, yacht, tennis, uccigucci, coccoscianel, mascara, pizzi merletti e tanto, tanto sperma profuso a profusione, che nun je manca ‘a fame a ‘sti zozzoni. Ecco, c’ero andato perché dovessi sentirmi inferiore, indegno, inetto. Fuggii. Pagai tutto io. Nessun grazie. Tutto dovuto. Prosit. Merda a gogo.

domenica 23 settembre 2007

Inside

Sono un autodidatta. In qualunque cosa è molto di più quello che ho imparato da solo che ciò che invece m’è stato insegnato; non c’è alcun compiacimento, solo la riflessione che l’innata tendenza alla solitudine s’è portata appresso questo onanismo multiforme e sfrenato. Non che io abbia mai negato al verbo o all’azione altrui di giovarmi o almeno condizionarmi: nelle basi, nella costruzione della struttura influisce molto, troppo, il lavorio di fattori esterni che, se tali restassero, esterni, tanto male non riuscirebbero a farlo: ma quando s’impongono come interni, il danno è già fatto. A tal proposito mi ha sempre incupito il senso di impotenza nemmeno percepito: quando si è bambini, si è pasta inconsapevole nelle mani altrui senza poter opporre niente, ma senza nemmeno sapere che si dovrebbe fare una qualche opposizione; si è in balia degli eventi, della struttura sottostante gli educatori, oramai esseri non più consapevoli delle loro fratture interne, ovvero consci, ma capaci solo di bendaggi persino più dannosi della ferita stessa. In effetti io non ho mai aderito al cerchio della vita, al ripetersi delle stesse cose: solo perché mi sembra banale: delicta maiorumque immeritus lues, è già tutto lì, nella sapienza latina che scopiazzava la greca che scopiazzava l’orientale e così via. Ma al semplice tapino che importa tutto ciò? Non ci si può curare di ogni pettirosso caduto, finisce che ci si cura o ci si potrebbe curare solo di sé, pettirossone caduto e splattato sulla via di una vita qualunque. Quali danni sono stati fatti in me? È possibile distinguere il danno provocato dall’esterno dalla qualità innata? Penso di no, sarebbe un vantaggio eccessivo per quei bighelloni di psicologi intenti a dipanare la matassa dell’es-ego-superego, conditi dai vari complessi con un pizzico di vanità nel transfert. Gli anni da chierichetto, il catechismo m’hanno forse impedito di riuscire a vedere oltre la farsa, oltre lo sfarzo, oltre il superficiale e vederci niente? O la scuola stessa: piena di nefandezze e purulenta di ignoranza; quali vie m’ha sbarrato? Un professore alle medie disse ai miei che io ero diffidente: quindi non mi fidavo… i miei se la presero, al contrario già allora a me sembrò giusto: proprio così, non mi fidavo di principio di nessuno, di nessuna verità, di nessuna opinione… senza averla sviscerata, ora direi destrutturizzata, ma da piccolo che ne sapevo? Conoscevo solo un’impressione: l’incomprensione; non degli altri verso me, ma mia verso gli altri: non mi era chiaro il perché sbatacchiassero per alcune questioni, perché si facessero certe domande, perché non vedessero oltre… oltre cosa, non sapevo spiegarmelo. Imparai a leggere, a scrivere ma non capivo perché si desse così tanta importanza a cose che mi parevano naturali. Ho il sospetto che le continue malattie m’avessero educato più di persone in carne ed ossa: ha ragione Fante, in merito a se stesso e a Dostoevskji: la malattia ti pone in un certo qual modo in stretta parentela con la sofferenza, tua ma anche altrui, e in definitiva ti affianca anche al sentimento della caducità del tempo, della precarietà dell’esistenza, al sentimento della morte. Io non saprei dire chi altri sennon le malattie, m’abbian potuto inculcare nel cervello che niente dura, niente è così importante… tutto muore, perché altrimenti non sarebbe nemmeno vivo. Per questi pensieri non ravviso cause esterne, fatta eccezione per i libri: ma quelli vengono più tardi, dopo i pensieri di un bambino, in realtà solo abbozzi, niente di formulato ed elaborato, ma sensazioni, forti ma non decifrabili. La fragilità: sono sempre stato e lo sono tuttora, un essere fragile: eppure non si spiegherebbe il perché io non abbia mai rinunciato a quello che mi si chiedeva di fare o che per un attimo volevo fare; non si può scavalcare la questione che da qualche parte sono andato e sono arrivato. Ho sempre fatto tutto senza sentirlo veramente, senza crederlo essenziale, fondamentale, importante, ma solo così, perché andava fatto: tanto poi tornavo nel mio mondo che per tanto tempo è stato pieno di ninnoli, almeno finché anche questo universo consolatorio s’è svelato per quel che è: nulla. Quindi, da una parte la capacità di fare quello che serve, dall’altra l’incapacità di credere: la prima sì, mi sembra frutto di mani altrui che han agito sulla mia pasta, o dell’ambiente stesso, delle circostanze. Ma la seconda: nichilismo di fondo, interiore; relativismo innato; l’Assurdo: sfiduciato ma non disperato; negatore ma non rinunciatario; insoddisfatto cosciente. Marinaio di un vascello alla deriva. Oh, non naufragare.

mercoledì 19 settembre 2007

18 settembre 2007

Seduti sui gradini dentro al Duomo Vecchio guardavamo il dipinto di un’altra età: nell’aria la gregoriana melodia che non riuscivo a non pensarla frutto di un mezzo fuori luogo, uno stereo inappropriato. Ti chiesi: cosa viene a cercare la gente qui dentro? Un'altra avrebbe risposto: la fede, senza sapere di che si tratta. Tu mi dicesti: vogliono solo dirsi di esserci entrati, di averlo visto. Hai ragione: quante persone fanno una cosa solo così, per dirsi ecco l'ho fatta. Mi piacciono i contrasti: io, non certo il principe dei fedeli, incapace di abbrancarne anche una a caso, di fede, dentro le chiese mi sento sempre a mio agio, non sento alcunché di diverso dall’aria fredda e dall’odore di cera o di incenso, non vedo altro che dipinti, sculture, e, se ci rifletto, bugie. Ma mi trogolo ove è richiesto il vuoto, per riempirlo d’assenso. Attraverso il profilo dei tuoi ricci, il crocifisso: quello lì, esemplifica la vita, che non è solo un correre verso la morte, ma un salire il Golgota, con la propria croce sulle spalle: non ti ho aggiunto che solitamente di Simoni di Cirene non ce ne sono, perché forse tu ne troverai. Con una persona intelligente anche quattro chiacchiere sono interessanti, anche in un Duomo, anche in una cripta che sempre mi narrerà del tuo volto. C’è uno stacco tra la realtà e il sogno? Il varco è qui? Camminavo con te sentendomi come sempre avanti di dieci anni, quando tutto è ricordo sbiadito, i volti ombre, gli odori impossibili da richiamare. Non recidere forbice quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non fare del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre. Eppure va così, nonostante l’opposizione: col tempo l’acqua scava buchi nella roccia; ma il tempo non è che un filo che sfugge via tra le dita sempre meno precise. Il silenzio, la pausa bianca tra le parole: ricorderai il berciare pseudopolitico di quel predicatore in piazza? Anche lui troppe pause: ci deve pensare su. Ed intanto lassù lo sfottono. Come la vita, che ghigna mane e sera, alle spalle di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ancora Montale, sempre le stesse cose. Bisogna saper ascoltare: i genitori, gli insegnanti, il guaito del cane, il sussurro dei vecchi, il fischio del vento, il richiamo della natura; c’è però di più nel non detto che nel detto; o nel dimenticato, perché forse ci si ricorda solamente di quel che fa più comodo, o meno male. Non lo so, io non so niente. Una panchina: ricordi la vecchia davanti a noi? Ha ragione Svevo, il tempo si cristallizza e non vivono più giorni campali; ma non serve essere vecchi, basta guardarlo il tempo, la freccia che dall’arco scocca, e frettolosa fugge verso il bersaglio, non è che la stessa freccia che, se se ne chiedesse il senso, cadrebbe a terra inerme. I tori? I luoghi comuni, per esserlo, comuni, devon corrispondere alla verità. La cognizione del dolore: volevo scriverci la data, come ricordo di un dì, o di una estate intera, stand by me. Per chiudere, la scacchiera: ricordatene, è lì, e lì resterà dopo di noi, sempre che un qualche accidente non le capiti; a quel livello del terreno, un’altra vita, ma gli stessi problemi legati al tempo, al da farsi, al da dirsi, alle pause senza senso. Ci giocavano col legno, credo anch’io, e forse han levato al testa e sopra loro sono apparsi due volti sognanti, uno sotto la pelata, l’altro sotto i ricci rossi. Il tempo: nient’altro che illusione; e la corriera blu, e il bus arancio eccetera eccetera. Come un santino, protettore solo supposto: nella terra dei cazzi e dei tori ci vengo come pensiero, finché evaporerò come l’acqua sull’asfalto dopo la tempesta. (A Stefy)

lunedì 17 settembre 2007

Centro Commerciale (bozza)

In una giornata qualunque d’una vita qualunque, entro nel Centro Commerciale, paradiso del travaso di euri dalle tasche alle casse o da carte di… discredito alle banche prodighe di prestiti favorevoli per il contribuente – elettore che abbiamo in mente noi e che, sicuramente, avete in mente anche voi; dico, entro nel limbo alle quindici precise, o tre pomeridiane, e già il passaggio al primo girone dopo l’atrio comprendente Bar, Spizzico ed Edicola, mi fa brancolare come corpo in rivolta brancola. Gigi mi guarda perplesso, lo rassicuro nella mia moribondità dovuta al nuovo locale pieno di gente, gli faccio un gesto d’assenso e lui si volta.

Nel limbo trogolano esseri purulenti e già s’accapigliano al banco del Bar per avere quella brioche foruncolosa di crema giallognola; guardo una signorina a fiori brandire lo scontrino sbavando che il numero dice chiaramente lei essere l’eletta e l’altro, un bambino cresciuto a crema di cioccolato dacché il culone lo tiene un po’ troppo indietro, paventa diritti sociali ed etici. Volgo i miei tristi lumi ed ad un tavolo una mammina è intenta ad infilare un cucchiaino pieno di gelato nella boccuccia d’un neonato che presto dilagherà cacca molle nel pannolone, il papi non li osserva ma è invece intento a guardare qualcosa nell’Edicola: cerco di seguire il raggio della sua vista ed incoccio un calendario del duemilatre dove una barbellona ammicca intelligenza e profondità salubre: beh, mio caro, pulisciti la bavetta, il tuo di danno l’hai fatto, facci una croce sopra e corri a casa per controllare al televideo la Borsa dove sicuramente avrai perso qualche identità pecuniaria. Ma nel limbo poi male non si sta, in fondo anch’io apprezzo molto un caffè ed in Edicola qualche libro dormirà saporitamente il sonno di chi sa che non gli romperanno i marroni, a differenza dell’inserto contenente la duecentottesima parte del galeone della flotta dell’illustrissimo re di Pomponia.

Gigi è già più avanti e mi faccio lesto per raggiungerlo nel primo girone che celebra l’acquisto di ciò che il caro amico cerca: le Scarpe. Mostruose quantità di colori, odori, stringhe e strap, cuoio, pelle e tessuto con gomma e… e che ne so io ancora… camminiamo rasentando pile di scatole ed il volto di Gigi mi chiarisce che nulla lo chiama per davvero, e mi spiace, giacché io di voci ne sento tante, ingannatrici, di scarpe che promettono comodità, velocità e grande durata; peccato che a queste mirabilie io faccia attenzione come alle profezie dei vegetariani… troppa grazia mi stordisce, ce ne fossero di meno potrei valutare, giudicare, ma così… che ci capisci? Ne prendo una, destra, e quella sorride: -ehi, m’hai scelta!-, ma che dici, facevo così per darmi un tono, pussa via, torna al tuo posto megera! Gigi è sempre più sconsolato, sicché mi faccio avanti e suggerisco di proseguire il viaggio visto che poi potremo tornare indietro, noi sì, non come Dante in ben più fatal andare!

Baldanzosi avanziamo nel girone dei Vestiti di varie fogge: fa sbalordire la bella divisione tra quelli per ricchi, quelli per gente “di un certo livello” e i restanti, per gli straccioni. Trasecolo ma l’amico mi conduce nei mediani e scodinzolo dietro a lui; non appena osservo delle magliette con malcelata attenzione una forte sirena trapassa l’aere e i timpani degli astanti: due checche mi si fanno appresso: -lei! Lei non è alla moda! Si vergogni! Favorisca uscire e si rechi immantinente al reparto straccioni di sinistra!-, balbetto che quelle cose lì mica mi parevano così belle, ma di fronte ad un cazzotto promesso sbaracco via e mi accuccio nel posto assegnatomi dalla sorte ria e vessatrice. Tutti tirano un sospiro di sollievo pari al mio quando vinsi una battaglia contro un virus nel mio computer ed applaudono ai cerberi fricchettoni; Gigi solidale mi raggiunge impettito vibrando il pugno in alto in segno di vendetta: lui ci poteva stare in quanto individuo visto spesso in locali alla moda, io no, merdina cogli occhiali e vestiti frusti e rifrusti. Eppure le cose nel reparto straccioni tanto brutte non sembrano e neppure i prezzi paiono bassi, ma tant’è che non ce ne frega un cippirimerlo e saltiamo nel nuovo girone.

Subito mi sento più a mio agio, covando in me il caro fanciullino di sempre, attorniato da giochi di ogni risma percepisco maggiore affinità spirituale; purtroppo questi posti danno il meglio di loro solo negli angoli nascosti dove i ludi elettronici e le bambole robot non ci possono stare sennò chi le vede! Guai a trovare in evidenza ancora qualcosa di semplice e di sentimentale, che ecceda i microchip ed i personaggi dei manga; ma almeno nel bailamme delle jeep miniaturizzate a reazione e ai cani semi automatici con piscia incorporata e pronta ad innaffiare i finti stipiti… ci si può illudere e fantasticare un po’. Spero che i bimbi li lascino ancora arrivare al di là delle immagini della tivvù, dei monitor lcd, oltre la fisicità in plastica di un super Sayan in dimensioni reali (?), per scoprire dietro le tende della imposta pseudo-ragione, le distese senza confini del sogno, della fantasia personale, dell’illusione prospettica e delle dolci nenie.

Mi riscuote Gigi dal mio torpore davanti ad alcune macchinine di metallo, noi si cercava una scacchiera… ed è una piccola sorpresa trovarla… ma, poi, gli scacchi sono un gioco? Bramerei esserne un sufficiente, almeno, praticante, ma troppa matematica, calcolo… e perdo, perdo. Ma sì, andiamo oltre, altri inganni ci attendono sornioni: no, qui no! Non ci voglio entrare! Mi sento male solo ad avvicinarmi al girone dei Profumi… e che colori strafottenti ed infingardi! Guardo candele bizzarre e ricordo il Priapo ma nessun sorriso sale sul mio volto, troppo molesta l’aria violentata da invisibili mostri con nomi francesi adducenti ad alcove di eunuchi, o alle tane delle madame Dorè. Ficco lo spaventato naso all’interno della mia maglietta, meglio l’odore del mio sudore che un lezzo di barbellona immersa in fragole e viole e rosmarino e andiamocene, perdio, che qui si schiatta!

Passiamo dinnanzi ad una vetrina: spiaggia assolata… come potrebbe essere diversamente? Palma perfettamente inclinata, un uccellaccio osserva l’infinita ilarità di tre disadattati in pedalò, “Vai in pedalò alle Bahamas!”, bello slogan, accattivante e malato di epatite nel cielo blu pre-buco nell’ozono, “Con Carontour!” e nessuno che li batta con occhi di bragia, ‘sti tangheri. Siamo nel settore Viaggi e là un cartellone ceruleo promette certo sentiero per Shangri-là, certo nel senso di sicuro, eh, beh, basterebbe tirarsi un colpo e ci vai di sicuro, proprio! … qua, qua, che c’è? Un mese a Vimini e Piccione, eh che bello, a trecentoeurivittoealloggio, ullallà! Ma che vedono i miei miopi lumi? Entriamo scodinzolando curiosi e chiediamo illuminazioni all’addetta tettuta niente male, -veh, todo bien… - ehi cara, non siamo mica cazzi e tori no’altri! Ah, sì, perdonata… chissà perché c’avea parlato in ispanico? –Interessati all’offerta Vimini?- Direi cara, le risponde il Gigi; lei sbatte le cigliette e frulla il culetto: -sì, trecentoeurituttocompreso!- Ooohhh di stupooore… -ma… - eccolo il ma! - …le righette piccine, le avete lette?- Nooo… , usciamo lesti come ghiaccio secco sulla superficie e leggiamo: “Obbligo di entrata tutte le sere nelle trentacinque discoteche del gruppo Tenkule” a trentaeurisineconsumasiù, ah, là, la fregatura. Rientro, signorina, la mi scusi ma, trentacinque disco in un mese? –Beh, voi siete veloci, si vede dal profilo…- squittisce, ah, eiaculatio precox! Ma subitamente due mastini giungono alle spalle indispettiti dalle parole barbare, noi si esce agili e presti molto e mandiamo a cagare la Tenkule e le sue fabbriche tuonanti falsa musica e ripiene di polvere… .

Il percorso si fa lungo nel tempo e nello spazio; come si possano contenere tante primizie in una sola costruzione è davvero una curiosa questione: un tempo per un prodotto un posto, almeno per un genere, dico, un luogo ove gente specializzata, artigiana, erede magari dell’antico mestiere, t’accoglieva e forse ti spennava di più, ma con strana soddisfazione reciproca, ora tutto in un medesimo locale, microuniverso con un suo raziocinio, certo, ma forse un po’ troppo con evidente intento succhia soldi e pazienza e rodi-bile di poveri padri di famiglia intenti anche a far quadrare i conti.

I passi miei si fanno meno sicuri e meno vogliosi, il nuovo girone è meno interessante per me, ma lo spettacolo umano mi riconcilia col pessimismo cosmico; veloce un’adolescente vestita come il suo idolo berciante Pritney Stiars, id est con baghetta culminante in un finto gioiellino da ovo de Pasqua, occhiali fascianti e trucco da battona, ciabatte e quant’altro, veloce come un bradipo fradicio pigola alla cassa recando nelle manine laccate un sacco traboccante dolci, pesato pochi istanti prima da un intontito saccarosio con grembiule bianco. Mi stupiscono sempre i croccantini, tanto ini da essere un metro per due, ed anche le mandorle che mi pare non abbian tempo, cioè non si capisce quando possano essere state prodotte; pochi mesi or sono mi dissero che rosse van bene per la laurea… forse meglio si confarebbero per un donatore o per una nel suo ciclo, bah, e bianche per il matrimonio, eh già, la verginità, la purezza, certo e azzurre per che so… , il battesimo e nere per il trapasso. Mah. Qua i Dolci trionfano in legioni schierate per la battaglia, in ammassi di orde di liquirizia, bailamme di cioccolata al latte e diabete e colesterolo cattivo e liposuzione… ah, il gelato, c’è anche quello oltre una fila di culi torturati dai tanga in corda di lino e ciabatte anche qui… odio la gente in ciabatte, soprattutto i maschi must… colle infradito attentatrici della salute del pollicione. Una volta io e Mick incontrammo un o di questi eroi moderni con simili calzature e canotta cinghialesca in università: dico, io tollero di tutto, ammetto persino che uno o una si becchi la merda in faccia per quattro stacchetti in tivvù, ma, perdio, nel luogo dove si dovrebbe bere la cultura… in ciabatte, un maschio per di più, coi piedacci pelosi ed il sodale mi disse che quello aveva fatto un esame poco prima… che insulto infame. Fame? Questi qui nel girone Dolci mica sono affamati, questi son tossici e non c’entra la serotonina ed il desiderio di felicità, loro trogolano e sbafano per abitudine, vizio per dipendenza, senza gusto e discernimento; purché sia dolce e sballi il fegato… ingoiano zuccheri ed ogni tanto li ridonano al mondo esterno tramite culo brufoloso e via water… ma poche volte, dati gli zainetti incorporati nei fianchi e attorno le cosce.

Andiamo, andiamo, passiamo in un altro gironcello và… ma di questo non vorrei parlare, m’offende… offendendo il gusto oggettivo della bellezza, soprattutto quando la carne naturale è diafanamente eccelsa… beh, parlo delle mefistofeliche Lampade abbronzanti o riducenti a color mogano, poi a giallognolo epatite, quando i sapientoni che se le fanno lasciano passare troppo tempo tra un omicidio di pigmenti ed un altro. La luce azzurra trapela dalla porta del Paradiso del Sole, pare di sentir odore di carne abbrustolita e salsicce mal cotte e riscaldate poi nel microonde; vedo oltre la vetrata, volti assenti di prezzemolini delle disco e merce da yacht; le mie braccia ed il mio volto urlano pallore contro di loro e mi sovviene come d’incanto e per delizia il volto della Beart… queste lampadate, poarine, non capiscono un fico secco di estetica e manco di salute, ma tant’è che la fiera delle vanità trionfa smargiassando sirene e rumbe ed io e Gigi caracolliamo nell’ottavo girone.

A dir lo vero questo ed il nono andrebbero fusi, almeno lo son sempre stati, fin tanto che l’oggetto venduto nell’ultimo non s’è preso un posto al sole e da grande dominatore della quotidiana gazzarra, s’è impossessato di un girone intero. L’ottavo celebra la vendita dell’iddio Computer e di altre corbellerie elettroniche: s’entra e si osserva i nuovi prodotti che già che son lì, sono vecchi; la nuova velocità che è lenta per il Gioco venduto su quegli scaffali… vedo una banda di pixel attraversare il girone minacciando uno Stereo, subito dei decibel accorrono preoccupati e la rissa che ne consegue è sedata da un paziente Decoder Digitale Terrestre. Mi volto sperando di trovare qualcosa del canadese errante ma il grugno di un tizio che dice di cantare in un gruppo… avverbiale mi smorza il coraggio e la voglia di andare bighellonando tra Cd disgustosi. Non c’è patria in questi posti, non c’è pace ma solo transazioni, carte di credito e di debito, sogni virtuali pessimi anche quelli perché provenienti da subconsci prefabbricati, da strutture in plexiglas e cacca.

Chiamo Gigi, dico, per me è ok, è tempo di offrire omaggi al grande divo dei centri commerciali e a capo chino, umili e contriti passiamo il varco e strisciamo devoti davanti al dio Cellulare; s’intona alto un Guglielmo Tell con campanelli tailandesi ed un eunuco mi fa certo che si tratta dell’ultimo must nelle suonerie, ma va solo nel Minkja 2457bis turbo in lega lamellare, con tasti in pelle di zulù adolescente; qualcosa non mi quadra ma quel culo squadra troppo noi altri, così, tanto per fare qualcosa, mi sposto verso una vetrina e vedo il modello che spedisce i fax, fa le fotocopie, lava e stira e nel modello rosa, se le resta del tempo libero, si diletta in fellationes… impallidisco e guardo quello con rivoltella opzionale, oppure con obice; rimembro il coltellino di Paperino che tutto aveva tranne una lama, sorrido e profano la sacralità… l’eunuco corre verso noi con un Uzi puntato sui nostri zebedei, rantolo un’ultima domanda… -ma l’Uzi è irakeno o iraniano? E poi, grondante di sudore per la veloce fuga a gambe levate, ho la fortuna di riprendermi nel garage, accanto all’auto di Gigi che, sbalestrato come me, mi ricorda che le scarpe per le nozze del suo collega di lavoro non le ha prese e così ci tocca un altro Centro Commerciale.

lunedì 10 settembre 2007

Un ospite

Mi sorprese che leggevo Topolino, testa appoggiata al del resto inutile cuscino, dato che io dormo piatto come una sogliola, sulla soglia della morte attesa ogni notte. C’era Paperoga che disastrava la vita di Paolino Paperino indicandogli un nuovo lavoro e la mia bocca tirava un sorriso, quando sopra gli occhi mi colpì il nero pastrano: seduto dinnanzi al mio piccì, gomito appoggiato sulla lignea protuberanza che regge la tastiera, come un atro messo infernale, mi guardava attraverso occhi che non saprei dire qual colore mai avessero: un naso adunco e una bocca sghemba in un sofferente silenzio; artigli tra i capelli e altri sul pomolo della sedia, l’indice alzato come se richiamasse la mia attenzione. Non mi prese il panico seppur il cuore mi palpitasse giambico; in effetti la bocca prese a seccarsi nella dimenticanza di deglutire: ancora l’atavica sensazione di inevitabilità. Attraverso secondi come secoli battei le palpebre e in piena comprensione principiai a considerare quale borsa usare per il viaggio: quello percepì il mio pensiero e scosse le ossa in diniego: -sono di passaggio. Uh, pensavo fosse rauco, colpa dei Monty Python. Invece pare vento di settembre, come le impressioni: a dirla tutta, non ricorda alcuna inflessione, alcun tono, alcunché. Beh, quindi, che cacchio voleva? Un sorriso, mi parve. –Sono stanco. Ti guardo e sono stanco. Sai oggi ho preso un pezzo grosso, m’è toccato andarci io, nessun messo minore ci voleva andare; come con quell’altro, quello che tu chiami Balena Bianca, due, tre, nove volte m’avevan scomodato… e non voleva venire. Sono stanco. Lascia che stia qui un secondo ad osservarti, tu che non sei un cazzo, non hai e non avrai scuse per evitarmi. Mi parve volgare ‘sta cosa, eppure aveva ragione. Lo fissavo rapito da una stanchezza che comprendevo. Mi dicevo: senza lui nessun senso; eppure quant’odio. –Sì, mi odiano. Non si può prescindere da me, e mi odiano. Sbatacchiano come ossessi quando mi presento, o quanto tocca ai miei bravi: ormai resto spesso a casa, delego. In tempi mediocri come questi, non c’è sugo, non ci si sente apprezzati, non ci si diverte. Nessuno capisce che se io non arrivo nulla prima sarebbe. Si voltò alzando un poco il bavero, svelando nessun corpo: lesto cercai i calzari che sempre m’hanno incuriosito: logori sandali, forse quelli che calcarono il Golgotha dietro a Colui. Guardava l’Urlo. –Mi ricorda la mia giovinezza. Non ridere, fui giovine. Colui? Uno straccione, piena la testa di vecchie favole, e tu che credi a quel discorso sulla montagna… illuso coglione. Non c’è che dire: volgaruccio. –Pensa per te che alle volti assembri uno scaricatore di porto, e berci di poppe, culi, fiche, merda… e non sai un cazzo di niente. Già. –Ascolti sempre musica… Cerco te, o il senso di te. –Sono davanti all’alba, dietro l’imbrunire, nella pioggia, o nel sole ardente… sono il Senso e sono stanco… di esserlo e di non essere capito. Ora vado, ci si vede. Sicuro, sicuro come che un uovo è un uovo. Paperoga ha vinto, Paperino ha nuovi debiti da saldare. Via il cuscino, ci devo pensare. ( A Lori, che ci pensa.)

domenica 9 settembre 2007

Trip

In un giorno d’estate

raggiunsi la vetta di un monte.

Stanco affaticato e felice.

Per caso notai un vecchio,

seduto accumulava piccole pietre.

Lo chiamai ma non rispose.

Chiamai più e più volte

mai rispose.

Avvicinatomi gli parlai:

-Ehi vecchio, chi aspetti?-

Quello guardò in alto

e non sorrise.

Guardai anch’io in alto

e non sorrisi.

-Forse, forse non passeranno più –

Così disse come un sibilo di vento.

Davanti a lui cresceva il cumulo di pietre.

Mi sedetti e cominciai il mio.

Sentendomi vecchio in eterno

(In effetti se dovessi pensare all’inizio del mio travaglio… le parole sopra son quelle che ricordo più… vere. Era il 1997.)

Lo spumeggiante gorgoglìo

dell’indaffarato fiume

s’agita nella mia testa

e non trova uscita.

Qual mastino nel serraglio

scuote la catena arrugginita

e latra al suo dio,

qual giallo canarino

sullo stecchetto abbandonato

sbircia la marcia verzura

io pure non so se devo

(o posso) rassegnarmi.

(Al Mella e a me seduto alla mia scrivania intento a studiare.)

Appare tumultuosamente bestiale

il desiderio

quale fiera dietro le frasche

aspetta la preda

tale il mio corpo desia

l’azione

e brama il bottino sol come

fin dell’arrembaggio

(Waitin’ for E. Pensavo a come descrivere l’eccitazione… rampante, ma pure il vuoto dopo la venuta. )

Quando cade una stilla

nell’acquaio riempito

veloce traspare il volto

che la mente ancor più presta

cancella, sì che io

non lo vedo mai.

(Pensando a C. Ma in effetti è il tentativo di richiamare volti, recisi dalle forbici)

Quando guardo il cielo

non vedo l’azzurro: vedo lei.

Quando guardo le montagne

non vedo le rocce: vedo lei.

Quando guardo un prato

non vedo l’erba: vedo lei.

Quando guardo il mare

non vedo l’acqua: vedo lei.

Quando guardo lei vedo il mondo

e mi volto dall’altra parte.

(Periodo stilnovistico; Masem ricorderà; 1993. Ho sempre voluto bene a quest’accozzaglia di parole, dato che ho sempre fatto così: mi son voltato dall’altra parte)

Amo passeggiare per i prati mentre

nubi benevole solcano l’orizzonte

dei miei pensieri e

ricordare che sono come

erba bagnata da

acqua celeste.

(Giocando col mio nome)

Il dissidio delle emozioni:

onde flagellate dal vento

urlano contro le carene

le vele strappate accusano

l’incauto marinaio morituro.

Cozzano tra loro le nubi

orride crepe straziano la notte

li diresti tutti infuriati

gli inquilini dell’Olimpo.

Sogna, marinaio, il porto

la bettola e il boccale pieno

l’orrendo lezzo delle banchine

il profumo delle cosce a pagamento.

Inutilmente alzi gli occhi

ed elemosini la salvezza

paga il prezzo dell’ardire

cola a picco col tuo legno

Proserpina forse per te riderà.

(Ero a lezione; ricordo solo questo)

Capitavano all’imbrunire

trotterellando bizzose

sulla rena fradicia.

Nascosto dietro le barche

ne osservavo stupito

…le danze.

Sciabordavano le onde

cancellando i segni

mentre le creature

scomparivano lievi.

Tornavo a letto

almeno più felice.

(Omaggio alle carpet Crawlers)

Verrò a prenderti colla cinghia

e legherò il tuo cuore al palo

dove le cagne bramose

lo sbraneranno finché i tuoi

singulti non svaniranno in una

orribile pozza di silenzio.

(Ultimi rantoli… )

Guarda com’entra se ti fidi

guarda i neri infidi capelli

tra i fermagli abbinati con cura

ai zingari colori delle vesti, guarda

le labbra carnalmente rosse tra

le bianche coorti, guarda

gli occhi scrutatori accorti

e giù il gioiello sulla caviglia

guardala mentre danza, mentre

ride, ascoltala mentre parla

ché te tu non la rivedrai mai più,

canaglia.

(Ah, porcogiuda, come era bella!)

Rotola l’asfalto sotto le gomme

fendendo l’orribile lezzo

delle marmitte delle ciminiere delle sigarette

rapide luci lasciano aloni

il cervello registra per il prossimo incubo

scoppi di clacson appresso al verde

strisciate di freni avanti al rosso

-… il cielo domani sarà azzurro

le nuvole bianche e il mare

amareggiato amoreggerà colla spiaggia…

… il nuovo singolo del Burlador… -

cartelli arancio ed ostacoli bicolori

Giano bifronte spaletta ai due serpi

contrari ed affiancati per divergere e

incontrarsi ancora ove s’infiora il rondò

nessun silenzio seppure serpeggi la solitudine

ammantata di lamiere e plastica

-… il killer ha portato il cadavere

in sacchetti per la spesa e distribuiti

in vari cassonetti senza avvisare…

… il nuovo mascara per il futuro… -

occhi puntati avanti a non perdere l’attimo

il varco ed essere più rapidi alla volta

mani e piedi mossi dall’abitudine

la mente sorpresa d’essere lì ma

giunti da dove? attraverso quali strade?

(Un esperimento; ma Giano bifronte detto di un vigile mi piace, così come “si infiora il rondò”: a dirla tutta, io amo le frasi, Lori, le frasi son tutto; Stefy, le trame non importano una sega, contano le parole, i detti, la scarna struttura: che m’importa cosa effettivamente uno vuole dire? Ci si cela dietro le immagini: quelli bravi stanno accucciati dietro le loro frasi e ghignano dei critici, caro Misha, scrittori falliti, i critici: io continuo a funzionare come una pentola a pressione, o come un brufolo da schiacciare, come una masturbazione da fare. Prima o poi la mente finirà di caricarsi, come la pelle invecchia, la pignatta arrugginisce, il pisello non tira più: Questa è la vita.)

sabato 1 settembre 2007

Per Lori: un pensiero

Non è molto facile parlati del mio rapporto con Meyrink. È parlare di un giovane liceale e brufoloso che cercava di buscare il levante verso il ponente, che imbrattava la giovinezza con letturacce kinghiane e che pigliava sollievo con Poe. E che un giorno si imbatte nei Racconti agghiaccianti, nelle 100paginemillelire. Non fu illuminazione, ma riconoscimento di fratellanza ed ispirazione di… vita, almeno nel racconto dell’asceta che stringe forte nel pugno la sfera di ferro e prova un forte dolore… finché uno gli dice che se avesse aperto la mano la sofferenza sarebbe passata. Provai una tale simpatia anni più tardi con la Bibbia di Rajneesh (non ricordo come si scrive). Su una bancarella mi imbattei pure nel Cardinale Napellus, altri racconti, ma era già amore. Dovrei parlarti di un ragazzo militare che giunge a Bolzano e non sa come fregare il tempo: i Pascoli del cielo di Johnny Steinbeck… mi ridiedero la gioia interiore e volevo leggere solo Furore. Poi mi feci ordinare il Golem… ma arrivò la Notte di Valpurga e non ti dico l’emozione: mai una scopata mi ha reso felice come quando la lessi per la prima volta. E fu il destino giocondo a regalarmi in piazza Walter il Golem: mi aspettava timido, timido, in mezzo a scarti mentali di oscuri pippoidi. Li ho letti tre volte entrambi e che dirti: quello che amo… è l’ambiente, l’atmosfera lugubre, cupa, sinistra, magica, semita, di Praga, la Golemstadt. E quel cappello pieno della storia di Pernath. E Meyrink dedito alla Cabala che l’ha salvato dal suicidio e la creatura del rabbino in giro per Praga e io, pieno del sogno di morire in quelle strade, fottuto tra i capelli rossi di una leggiadra fanciulla. Ma nella mia vita conta di più la Notte: troppo del mio cuore batte su quel tamburo, o nella Daliborka, con Ottokar e Polixena, ma non posso raccontare di più. Sì, i Demoni, i Fratelli, l’Idiota, l’Uomo ridicolo… ma anche l’austriaco di Praga: cosa sarei io senza il Dosto, senza Steinbeck, Camus, Meyrink, appunto, e Dante, Montale, Cervantes, Turgenev, Gogol, Svevo, diomio, Carloemiliogaddus! Non sarei… tutto qui. Leggi la Notte, quando la trovi. Chi non è come Zrcadlo, in questa vita, o in altre. È tutto così ineluttabile, e decadente, e finito.