giovedì 6 novembre 2008

sabato 18 ottobre 2008

Morì il vecchio Blue,
e morì così forte
che in casa mia
sbatterono le porte.
Gli scavai una buca con una vanga dorata
lo calai con una catena argentata;
ad ogni anello gridai:
-Ehi, Blue, amato cane,
ehi tu!

(Canzone folk)

Io che ne ho sempre troppe di parole, questa volta ne son carente.
Ciao Silla, grazie di tutto il tuo amore, ci si vede...
... e il travaglio è sempre più duro.

Lucio Cornelio SILLA Felice
N. Parte 21/03/1999 +Calchere 17/10/2008

giovedì 16 ottobre 2008

continuazione del brogliaccio Turibio

Quanno ‘l treno prinzipiò a sferragliare e, pria lento, poi sempre più presto, se ne uscì dall’urbe, e il cemento lasciò spazio al verde e la campagna s’accompagnò al cielo del tutto azzurro, siccome nei dì di festa, quanno ormai i tetti e i giganti vitrei e grigi da lungi non sapean certo atterrire le menti bimbe, quanno il serpente a vagoni avea raggiunto la velocità da viaggio… Turibio chiuse gli occhi e soffiò dalle nari. Nello scompartimento l’era riuscito a trovar posto accanto al finestrino: tre sciure insciallate ciacolavano sui sedili attorno a lui, sui restanti due, un tizio con ventiquattrore pitonata locchiava nel corridoio le chiappette di tre studentesse, e, dinanzi ai sui raiban, un iovine pari al Navicella chinava la testa com’in preghiera e forse te tu potevi indovinare che l’aspettava, pur’illo, il maculato destino. Tanti, ora lo so, su quel treno viaggiavan incontro al signorsìssignore, ma, così compressi chi nel dolore, chi nella cagarella, non si riconoscean a naso: arebber imparato a farlo quarche luna chiù in là. L’ultima imago captiva nella sua retina pingeva la sua mammina nell’atto di crociarsi la fronte, sparse due grasse lagrime sul troppo belletto, e il pater, stretto un mignon di greggia nella manca, ghignava e gli somministrava continui occhiolini per una certa intesa che l’era cristallina solo in quella mente annebbiata.

Aprì gli occhi verso le cascine che volavano via verso il dimenticatoio, con covoni, trattori e rare vaccherelle: gli parve d’udir il cachinno del garzone, il fruscio della biancheria della massaia, il pane appena sfornato: tanti scherzi ti fa la mente quando viaggi e rattamente attraversi il vivente paesaggio. Il treno principiò a rallentare sì da lasciar liberi qualche giovini progettanti una bella giornata al lago Benaco; Turibio patì una lieve invidia, giù nel duodeno. Guardò la sua dirimpettaia: attraverso il belletto la sciura lo osservava materna: con istinto feminino l’aveva capito che il paino annava ‘a milite, e pure l’altro in là, propinquo all’uscita. O poveri virgulti strappati al suolo natio per essere mandati al macello, dentro decrepite caserme ove giuocar a far ‘a gherra! Sì, ‘a gherra de’ miei stivali! I baldi di principio secolo, in sul compimento de diciannovesimo anno, killì yes, che furon ispediti a sbrodolar budella, arti e zuintù ppè niun terreno, niun avanzamento sulla cartina; e se ei volean volgere all’amata baita, evitando inutil schioppettate, ce pesaa sor commandante a brancar ‘a berta e giustiziarli in nomine patriae da non molto reunita. Killi l’eran giovani ostie su altari immeritati; mica kisti, pieno il sacco sopra il pisello, e repleno ‘o portafoglio di freschi dindi. La cariatide gentile sorrideva ebete al Turibio: introitò le ossee dita nella giberna e ne trasse un fojetto che porse, manu tremante, al garzoncello: ei lo pijò, convinto der dorcetto, invece se trattaa d’una di kille immaginette raffiguranti pii individui e presunte testimoni dd’a fede: li santini tanto cari all’Agenzia per la Massificazione della Cultura Religiosa. Ancora la religione a ghermirlo carda, carda come le poppe della nutrice Gaeta; un fraticello d’o tertio ordine franciscano lo guatava iraccioso: gli parve zintomo di sfiga e tenerselo in saccoccia e gettarlo nel posacenere, oltre che n’offesa per la pia vecchierella; sicché se lo tenne e lo ascose nel portafoglio, tra le banconote, ove il zantino se sarebbe trovato a fagiuolo e se sarebbe dimenticato di menar gramo. Sorrise sperando di non dover offrire dindi.

Le sciure scesero alla successiva fermata, non senza lasciar un ricordo di loro: non preteser un osculo certo, ma toccaron le teste dei due tapini gracchiando un profondo: -coraggio! Turibio e lo sconosciuto si scambiarono un guardo d’intesa. Pure l’altro inquilino levò le tende, ma lo scompartimento non restò voto. Turibio scivolò via da finestrino e si accomodò davanti al cocondannato, accanto alla porta, dato che la successiva fermata la sarebbe stata loro. Ma il Destino volle pugnalare il core dei due fanciulli: salì un pingue gruppo di universitarie ciacolanti come al supermercato e quattro di loro si fiondarono sui quattro sedili liberi, appesantendoli di tumide chiappe. Il treno riprese il viaggio col solito suo sferragliamento; le barbelline non stopparono il loro ameno cicalare onde non disturbare i due sconosciuti tapini, anzi, accrebbero il volume, sì da far intendere senza fallo icchè comanda. Il povero Turibio non seppe imbrigliare i suoi lumi, non usi alle giovinine grazie libere dal giogo parentale: volò il guardo dalle poppe di una alla mignongonna dell’altra, e i sandaletti intravisti di chilla in parte al finestrino, laddove giusto pochi attimi prima, ancor sedea lui, quei calzari j’e fecer perder senno e cosenno e notti future. Quella accanto non se ponea il problema di urtarlo dato che l’era la men smilza, ad essere eufemisticamente buoni. E un colpo qui e uno là, finché il Navicella si piegò a farsi ancor più piccolo. L’eran vicende barbellonesche che volaan tumide al peccato, odorose di fondotinta e mascherate di mascara, l’ultimo per sentirsi –donna che la vale-; perline sagge e sapienti e sapide e sbrodolanti saliva e cachinni, infiniti riferimenti e parentesi tonde, quadre e graffe, da perdercisi dentro, almeno i profani, quelli che dal branco son esclusi, per contingenza, per etade, per capelli radi e rari e rarefatta ottusità. Roboavano istorie magne di Rodomonti carrozzati e Ruggeri ballerini, e Angeliche e Angioline, tutte troie ikk’ell’altre, mica loro, lor, no, sic sancte, coi boccoli appena, appena boccolati e le unghie pinte d’arcobaleno ‘mbriago. Non ci si capiva una fava: l’era, killo delle barbelle, un di quei monni, dda quali ‘l Turibio l’era, per natura naturante, escluso (il cane). Inutile tentar di capire o entrare nei discorsi. Marmillona, l’una certo la si chiamava icì, prese a locchiare i due sfigati: siccome le vecchierelle, le iovani l’avean intuito che si trattaa di futuri militi e presenti cacasotto; del resto il train l’era repleno, cannolo alla crema, di maculaturi. E prinzipiaron a occhieggiare malitiose e dardeggiare sapendo che i dù barbogi mica arebbero tentato l’approccio, tutti intesi a trattener le chiappe dal lordare le linde mutanne e il cocò, ex-lindo. Vollero far capire aa’sfigatelli che proprio, proprio in sul momento di smontare dal trenino, la si presentava l’occaso: proprio prima di venir imbrigliati dallo Stato Tiranno, così da piagne e piagne pigolando sul cuscino dd’a caserma, rimembrando quelle lasciate andare sine far seguire almeno il numero del telefono alle leggiadre occhiate. Tanto è granne ‘o potere vulvorio. Un guardo e te tu ti senti già padrone, ed invece, nun sei e nun sarai domino d’un cazzo de gnente. Tanto gentil e tanto onesta pare… il guardo… tutta la tattica d’omo preteso pleiboi, a farsi fottere dall’occhiata marmillona d’una splendida Cerbiattina. I’so. Voi vu’credetevi pure granni conquistatori: ‘na donna che la si fa conquistà senza averlo deciso lei medesima, o che io devo ancora vederla.

Città X. Il treno rallenta e si ferma; Turibio e friend (muto tutto il viaggio) sbarcano coi loro valigioni; le barbelline sghignazzano: al loro paino toccherà in futuro, ma lui arà più e più dignitade e lui conquisterà il monno facendole reine, almeno. Con le ginniche scarpe, il Navicella toccò il suolo: c’era da cercare il binario ove sarebbe partito il secondo treno, quello verso la cittade del servizio: non vi fu difficoltà, bastava seguire la marea bestemmiante.

Giuso dal treno la folla dei dannati, fattasi torrente, scivolava dalle scale verso il tunnel sottostate; indi si partiva in diversi fiumiciattoli, alcuni fuenti insino la foce, altri imboccavano ancora scale per pigliare nuovi binari, nuovi treni, nuove destinassiù. Zaini e borse di fogge diverse precedevano Turibio and friend: questo gli era rimasto incollato in un tandem di sfigatoni che però nello sfigamento generale non balzava certo all’occhio. S’era ancora al tempo dei berci e delle ghignate, onde covrire il cagamento reale: chi sbocconcellava pasti parati all’uopo dalle mammine, chi guatava istantanee della morosa certo, nel presente. a novanta innanzi ad un altro ganzo, chi contava le mance dei parenti, chi sbrindellava quotidiani sportivi, chi s’atteggiava a grand’omo esperto dd’o monno, e tutti, tutti, mollavan scoregge veritiere. Fischiò il treno tracotante: molto più piccolo del precedente sennon col maramaldeggio ferrato mica se potea fa’ notà. O’macchinista già lo sapeva che sarebber saliti i nuovi militi: li guatò dal finestrino tradendo una lagrima di invidia, per l’etade e per le occasioni perdute, come se, retonnando iovine non le arebbe perse ‘n’atra vorta! Tanto ci si crede cresciuti ed esperti, sol perché aumentano gli anni sur groppone. Tutti stipati nei vagoni, il nuovo viaggiò si iniziò e man mano che la destinazione s’appropinquava, scendeva le boci, sin a livello di sussurro, e, nel rallentamento, di silenzio catacombale. Giù li iovani! Ecco la cittade del primo servizio, ‘o Car. Turibio l’era silente oramai da ore: nessun verbo avea scambiato nell’ultimo iter; un groppone gli serraa gola e stomaco. Seguì i compagni di sventura siccome pecora ed in effetti, in più occasione, je parse dd’essere membro dd’un gregge; ed i pastori non tardoron a manifestarsi.

Il primo mezzo che Turibio notò fu il pullman verde: fermo in mezzo al piazzale davanti alla stazione dei treni, se ne stava placido, con la porta anteriore aperta; la posteriore, chiusa, stava a significare che tanto si entrava, quanto non si usciva più. Tutt’attorno jeep e camion. Soldati sorridenti e soldati seri: questi ultimi con mostrine complicate; il Turibio una qualche cognizione l’aveva, riconobbe gli ufficiali e li distinse dai militi semplici, l’era già un passo. Si mise in fila: lunga, sonnacchiosa, partiva singola e poi si divideva in altre minori, posizionate innanzi ai mezzi: la prima scrematura. Turibio finì in quella davanti al pullman e, chiamato siccome una pecora, ci entrò stringendo la sua borsa come arebbe stretto l’amante, ad averla. Pigiato come sardina sperò che tutta la prima recita finisse, ma non dovette invece attendere il termine del carico: il pullman se ne andò prima. La pancia brontolava, un biscottino sgranocchiato ascoso ai lumi dei militi protesi verso l’enorme cristallo del mezzo, bastò solo a ricordargli casa: ci pensava per la prima volta, ci avrebbe pensato molte altre. Non versò alcuna lagrima, seppur ne avesse una gran voglia. Non fu un viaggio lungo: attraversarono vie cittadine, strette e terminanti in semafori; fuori dal pullman la gente continuava la sua quotidianità, inconsapevole del dramma interiore delle reclute, o forse consapevole ma menefreghista; giovani pulzelle ciacolavano sui marciapiedi, bimbetti correvano con enormi cartelle sulle piccole schiene, vecchi rimbrottavano il tempo, lo Stato, il Giuridico, la Morte, la Malattia: invero, tutto come nella sua città, al paesello, ovunque. Dicevo, non un lungo travaglio: la caserma si manifestò prima in alte mura giallognole, poi in torrette e filo spinato, poi l’ingresso vero e proprio; il mezzo sputacchiò nel rallentamento e nella svolta dell’abile pilota; passata la sbarra, per l’occaso alzata, il Turibio vide il primo piazzale: quadrato come in tutte le caserme, fiancheggiato da edifici per tre lati e da una fila di alberi lungo il quarto, portava su di sé dei segni in giallo e in blu che ognuno dei condannati alla naja avrebbe imparato, sì da non farne le spese. Il pullman percorse due lati e innanzi all’ingresso di un magniloquente edificio, si fermò e si spense. Uno ad uno i pigiati fanciulli scesero e furono messi in file parallele, lungo delle linee rosse che Turibiò notò solo calpestandole. Giovani maculati e sbarbati con un cordone sulla spalla destra urlavano ordini a dei supposti sordi; non fu un caso rimembrare un certo film amato qualche anno prima, Full Metal qualcosa, e pure quello… quello col romanaccio, 365 all’alba: appunto. Chiamati a berci, quelli davanti a Turibio partivano con le loro borse e entravano nella caserma delle reclute, dato che tale era quell’edificio, sebbene, a dirla tutta, vi fossero ben altri 5 edifici, quattro di quali pure per burbette. Il Navicella attese il proprio turno e corse dentro, poi su lungo quattro rampe di scale, dietro ad altri facenti parte del medesimo destino, fino a fermarsi su un piano, il secondo, e raggiungere una camerata enorme, divisa sì in sottocamerate, ma da parer un tutt’uno. Giunto innanzi ad una branda attese ordini; ci buttò sopra la borsa e poi tese l’orecchio sperando udir il verbo –mangiare-; infatti un iperteso lo pronunciò tra altre vocali e consonanti: dovevano scendere e uscire, correre in ordine davanti alla mensa e attendere sempre in fila. Lunghe ore, lunghi giorni in fila, sempre in fila, si avviavano: una cosa alla volta, questo il segreto; ma ad impararlo ci si metton sempre scorni e botte al cranio e al cuore.

LA MENSA

Tra la calca e l’ordine militare non v’è differenza quantitativa ma qualitativa: l’orda maculata ristà avanti la mensa truppa, allineata in file da dieci per non so quanto. Il nuovo arrivato s’aggiunge all’ultima, mantenendo intatto l’allineamento: non favelle, non faville di sigheretta. Non berci, ma sussurri. Il caporale guata il tutto tra il sornione e l’addormentato, coperti gli occhi dal berretto piegato nella becca, dato che lui l’è viejo.

Quando arriva il turno tutta la fila cammina, non corre!, dentro l’edificio ove si manduca: ma l’è ancor presto, bisogna aspettare il dipanarsi della coda interna, pria di giugnere al cabaret marrone, e poi ai panini, posate, bicchieri; il tovagliolo cartaceo attende in pile bianche sui lunghi tavoli. Le reclute devono tenere in mano il berretto, guai indossarlo! Non si manca di rispetto ai vieji. La distribuzione del cibo è ratta e genera sospetti: il meglio giace nascosto, per i banfoni. Prendi quel che ti danno. Nelle caserme del Carr si magna bene, di solito: non si vuole che la burbetta si lamenti subito col papi e la mami; lo si ingozza, soprattutto dopo i vaccini; per questo tanti diventano grassi sotto naja. Il curioso l’è che si sta sempre per squadre: te tu non l’abbandoni la tua; sai che eventuali ritardi all’adunata, tuoi o dei tuoi compari, sarebbero materia di fuffe rampogne; si vuole evitare quei ameni dissertari degli istruttori circa valori quali puntualità, rispetto, condivisione della colpa e dell’espiazione. Tu t’attacchi al compagno di sventura e lui s’attacca a te, tandem di pisciasotto e cagoni, futuri najoni o menefreghisti, ma al Carr la barca l’è la stessa: si rema perché il mese passi in fretta.

Turibio una mattina prese la ciotola di metallo dal vassoio e lo porse al cameriere dietro il bancone: attento a non rovesciare niente, lo ripigliò con la ritta, pieno di latte e cacao; proseguì pigliando brioche e pane e marmellatini. Un cucchiaio di zuccaro e va ad un tavolo, immancabilmente coi camerata. Turibio para il panin co’marmalada, con gesti lenti e misurati: lo si usa tutto il tempo libero; piglia il cuccamo e lo immerge nel latte, quand’ecco che la superficie si guasta da sola, come se da sotto qualcuno volesse apparire: Turibio osserva rapito e stupito; posa il cuccamo nel cabaret: il latte tremola ancora all’apparir saputo d’una zampettina, poi un’antenna e il baccherozzo trova il bordo e si issa con perizia e forza, data l’armatura e il peso. Uscito si scuote dalle gocce lattee e si getta fuori dalla ciotola, sul cabaret: Turibio, lo spinge sul tavolo e poi in terra. Or che fare? Un’altra tazza mica te la empion, e poi non c’è più tempo per un’altra coda: non resta che dimenticar l’apparizione e magnar latte e pane, morir non se more, ppe lavacro dde baccherozzo birbone, probabilmente già defunto sotto il vibram di qualcuno.

LA PRIMA DOMENICA MATTINA

Era andato a messa: ppe evità di finir infognato in quarche mestierino rompiglioni, su in camerata, tipo pulire tutto il pavimento co’ scopino minuto. Non avea udito alcuna favella del nerovestito: tanto era il suo rigetto verso le amenità di chi sbravazzava sotto il nome del morto in croce. Dopo l’andate in pace, s’era fiondato su in camerata: la colazione fugace in mensa non l’era bastata, e già s’eran involate due ore; il dì precedente j’vean foracchiato i bracci co’siringhe, e il dubbio dell’avvelenamento preventivo j’era venuto. La fame lo abbrancava bastarda: si cambiò immantinente, da maculato a civis. Non dimenticò tessere e tesserini, e, senza cercar compari, corse giù dalle scale: giunto nel piazzale, rimembrò i rimbrotti possibili e prese a camminare compito e a guatare a ritta e a manca onde stanar qualcuno disposto a menar il pippo così pp’e passatempo. Per dodici mesi si sarebbe sentito sur groppone questo senso dde voler evitar ogne rogna. La carraia s’avvicinava e lo stomaco rullava i tamburi; la passò indenne e allora sì che prese a correre verso la città. Era la quarta uscita, la prima di giorno, ma Turibio non vide un cazzo: bramava solo l’agorà e i suoi bar appollaiati tutt’intorno. Manco ne scelse uno in particolare, entrò nel primo che gli capitò davanti alle punte dei piedi: pochi avventori, ma lui non vide i loro volti; si sedette e la cameriera, intuendo il dramma, arrivò rapida: Turibio ingurgitò un cappuccino con sei brioche; oggigiorno sarebbe ruinato economicamente. Alla quinta, i lumi levò dal fiero pasto e s’accorse d’un milite che fagocitava uno strudel immenso, due tavoli in là: lo chiamò e si fecer cenno d’intesa. L’ossigeno arrivò alla mente e Turibio vide la cameriera che pur lo avea servito: sorridente siccome il sole, si carezzaa il lunghi cavei, raccolti in crocchia sulla nuca; bionna com’il grano, volgea i cerulei strali verso la piazza: forse cercaa il paino, forse ‘a carrozza, forse nient’e nessuno. Due schiere di bianchi e ordinati denti non bloccavano il respiro dei sogni giovanili: le lunghe dita diafane preser a giuocar con una ciocca bionna, l’indice l’arrotondava esperto. Una mosca impertinente osò posarsi sui capelli e lei, stizzita, con un solo e preciso gesto della manca le fece capire di cercar indugio da un’altra parte; nel rapido movimento si disvelò il collo, lungo, e bianco di candida innocenza. Turibio pensò bene di mordere la sesta brioche e annegar l’illusione nel coma ipercalorico.

giovedì 28 agosto 2008

Ritorno al lago

Quel che più mi stupisce quando arrivo in un luogo legato alla mia infanzia dopo anni di assenza, è la constatazione del cambiamento delle proporzioni tra me e le cose circostanti: è un fatto del tutto naturale e normale, eppure, quando ci si accorge dell’effettiva fallacia dei riferimenti ottici conservati in una qualche stanza della memoria, si resta perlomeno attoniti. Ancora prima di registrare i veri cambiamenti, ciò che c’era e non c’è più, quel che è nuovo e che magari stona ovvero dona miglioramento, pare che tutto sia diventato più piccolo, le distanze più brevi. Ricordo un episodio: dopo qualche anno, almeno un decennio per dir la verità, tornai a sciare in una località che solevo frequentare da bimbo; non mi stupii subito, ma durante la seconda discesa pensai che qualcosa non doveva funzionare per bene. Impostavo curve e traiettorie seguendo l’istinto legato a parametri vecchi, obsoleti, creati in base ad un corpo e ad una velocità ben diversi: quando sbagliai una stradina fermandomi ben più in basso, mi fermai per pensarci su e capire. Anni prima un mio vecchio allenatore mi fece notare che uno dei problemi che avrei dovuto affrontare nel rientro all’attività sportiva dopo l’anno di infortunio, era quello delle proporzioni: durante l’adolescenza dodici mesi sono tanti, i centimetri di altezza cambiano, gli occhi sarebbero stati legati ad una distanza dalla punta degli sci oramai errata e la posizione del busto, delle braccia, del capo ne avrebbero risentito in negativo. Bisognava convincere la vista ad adattarsi e a lasciare il corpo libero di pigliare posizioni più consone: tutti questi errori di posizione nello sport diventano zavorre fastidiose, ma, almeno, ci si accorge di loro in fretta, il difficile è correggerli; nella vita ordinaria, invece, li si stanano a stento, e perciò assumono tonalità curiose. La vita prosegue sempre e ovunque, indipendentemente dal fatto che noi ci siamo o no: quando guardo il Mella penso sempre che è qui da ben più tempo di me, e qui sarà pure quando io darò cibo ai vermi senza saperlo né volerlo; l’intruso sono io con i miei occhi che registrano un istante, o molti istanti, ma sempre minime frazioni del tutto insignificanti nella vita di un luogo; l’errore è illudersi che qualcosa possa restare invariato nel tempo, solo perché non ci siamo noi a certificarlo. La natura non si cura della presenza o dell’assenza dell’osservatore: fa il suo corso e, giustamente, se ne fotte. E poi ci si mette l’uomo a farneticare cambiamenti con l’isteria che gli è tipica, convinto che fare, distruggere, rifare, ridistruggere, cambiare sia sempre il comportamento migliore: il vecchio stona, sfasciamolo. Sotto sotto la natura, le piante, le radici, l’erba, i fiumi, i mari, i laghi e così via, se la ridono, ghignano del fesso che schiatterà nel breve volgere di qualche decennio, mentre loro lì erano, lì sono e lì restano, anzi, i vecchi spazi se li ripiglieranno con gli interessi.

Varco il cancello ancor che fosse tardi: mi sento già sbalestrato: l’antistaminico mi provoca sonnolenza e l’abituale apatia diventa uno scimmione abbarbicato sulla schiena. Con i miei non fingo allegrie che non ho: se il peso della recita è troppo pesante, scelgo il silenzio, altrimenti mi do ai soliti astrusi discorsi. La strada è stata un fastidio come ogni volta che non la conosco: divento pericoloso quando l’asfalto, le buche, le curve, le svolte sono note; allora scatta la mania della p.s. e l’occhio va sfrenato dall’orologio al cristallo; ma stamattina non ho passato gli ottanta, nemmeno quando a mia mamma pareva corressi. L’ultima variante, la stradina che non mai capito se sia privata o pubblica, mi ha già avvisato che non sarà una giornata ordinaria nella mia iper-reattiva mente e balocca.

Io e Simo la percorremmo in alcuni pomeriggi afosi col Ciao bianco con le ruote blu; nel paesello mica c’era granché, come ora del resto, e il cugino era riuscito a rinvenire barlumi d’esistenza feminina pure lì. Lo sterrato si copriva di polvere dietro di noi, i soliti vecchietti berciavano alla velocità maleducata: preferivo la bici, o a piedi; io sono sempre stato la contraddizione vivente: adoro la velocità, ma amo la lentezza, a seconda di momenti che non so distinguere in me, così come sono un misantropo senza problemi nella folla, un misogino che ammira le donne, un sedentario che fa mille addominali e così via.

Non ricordo i nomi di quelle ragazze, manco i capelli, solo il luogo, ma adesso c’è il pavé in paese, nella piazzetta dedicata ad un pittore: in alto domina una chiesa, ci andai solo una volta, ma mi resta solo l’impressione di noia: non cambia molto in quel minuscolo groviglio di abitazioni; tutto intorno sì, ville e villule una sull’altra, presepe smargiasso di ricchi epuloni attorno alla capanna originaria, al nucleo antico. Vecchi, vecchi ovunque; i giovani sono giù, sul lungolago a rendersi bronzei fottendo la pelle e giocando a chi cava le mutandine a chi; o alla macchina più grossa, al rumore più lacerante, alle narici più bianche.

Si apre piano il cancello, l’erba tra i sassi dell’ormai disomogeneo viale rivela la mancanza di cura e di affetto, nonché il trionfo del tempo e della natura: mentre aspetto di poter passare e locchio il mio Silla già in beghe col cane degli zii, rifletto in un angolo della mente sulla stradina: vabbè che non l’ho mai percorsa col Ford, ma perché s’è ristretta? La si faceva a palla colla Jeep, coi Merca, coi Bienvù; sarà finita in lavatrice? Parto e lambisco la piscina; voglio entrare in retro nel parcheggio sotto la villa, così da non fare manovra quando ripartirò e già questo minaccia la sanità mentale dei parenti, non certo più della mia presenza lì.

Dodici anni sono passati dalla mia ultima visita: con la Pandina fourforfour verde, amica di alcune avventure; portavo la mammina dalle sorelle; scegliemmo la città e non il passo del Cavallo come questa mattina; una giornata che non mi lasciò ricordi: non è che non mi piaccia venire qui, è che non è un posto mio; è un legame forzato… lo è stato, direi; ora non più: è un posto che evoca fasi di transizione, e recite ancora senza consapevolezze: qui non mi hanno mai visto.

Scarico le borse, la mia in taverna: fredda, come in quella mattina del lampadario rotto col cuscino dal Luca e frantumatosi sulle mie gambe; mi portarono di corsa all’ospedale per i punti ma mi ero tolto da solo i vetri riflettendo sul biancore dell’osso; ci ho dormito spesso, pure con qualche zio, e Simone; è un appartamento a sé stante, una parentesi nel regno delle tante madri e dei loro occhi. L’odore è sempre uguale, miscuglio di pelle dei divani, legno dei mobili e cloro della piscina; in un angolo palloni, salvagente, giochi per l’acqua: sono stati tanti a passar di qui bambini, prima e dopo di me. Io ero il più tranquillo, vivevo già maggiormente dentro che fuori. Lascio sul divano le mie cose e vado di sopra.

Silla è già preso dal suo mondo colorato di nuovi odori e dalla pugnace intenzione di montare il meticcio degli zii: mi convinco che è solo una manovra per proclamarsi dominatore, la sua solita, tipica degli esseri minuscoli che fan pagare all’orbe la loro tappaggine con regimi autoritari e camere a gas. Gli scalini sono stretti, ho l’impressione di prendermi una craniata con un ramo dell’ulivo: Luca saliva sempre da questa parte, mane e pome, con o senza giochi: -c’è Andrea? Lo sentivo dalla cucina mentre manducavo la colazione. Pensavo ai Masters-Dominatori dell’Universo, alla pista a quattro corsie, e alle… passanti che mi avevano sorriso, o che io avevo deciso che m’avevano sorriso, insomma ai volti che già allora lasciavo transitare senza fermarli. Poi scendevamo verso la sua villula: il cotto tutt’attorno, il vasto poggiolo, scale anche lì, la taverna, la piscina. Facevamo il bagno in quella degli zii la mattina, da lui il pomeriggio, perché il sole ci batteva più tempo.

Entro in casa: la televisione è cambiata; non la guardavo quasi mai; d’estate non c’è mai un cacchio da seguire e allora ero più brillante, le immagini non mi colpivano, nemmeno i suoni, i jingle dell’ammasso di ferraglia, della scatola-spargi-merda-verbosa. Quasi tutto è ancora al suo posto: la zia mi dice qualcosa sui cambiamenti ma non l’ascolto, lascio che siano i miei occhi a ravvisarli; i divani sono più piccoli, di traverso non ci starei comodo. Esco sul poggiolo.

Si domina visivamente il lago, una buona porzione di tristezza; ero con altri zii e cugini, il pallone volava sempre lontano e io lo inseguivo con il mio stile rana-stracca, efficace in ogni frangente ma lento: non riuscivo mai a trovare un appoggio per i piedi e per rifiatare; il lago è così… irregolare, infido, e non ci galleggi come al mare. E tutte quelle volte nei paesi del turismo lacustre, dietro sottane menefreghiste, con un cono gelato e le palle che girano a palla; la puzza, le barchette: sfottevo sempre un commilitone riguardo il lago di casa sua, non questo, ma uno più piccolo, figuriamoci… : -ma l’è ‘na poccia! E quello berciava di una dignità lacustre… è che lo vedo pari al Mella come qualità, cioè merda acquosa. E poi è chiuso, è una trappola tra i monti che qualche ghiacciaio o che ne so io ci ha regalato; sì vabbè, il microclima, i limoni, e che c’entra che pure Catullo ne parla? Altri tempi, altre storie, altri orgasmi. Puzza e puzza, ciabattoni, smargiassoni, villone, tamarroni carrozzati: visitai il campeggio dove un mio cugino passava le estati e io, uso e aduso a quelli… marittimi, e militari eh, ebbi un coccolone: ma dai! È l’aria: non c’è la salsedine, solo puzza di stronzi navigati qui lungo i fiumi e quelli, quelli sì, li conosco bene, Cristo ci vivo sopra, li vedo e li sento i liquami, gli scarti delle fabbriche, le fogne, i rimasugli delle pulizie dei camion, i bidoni, lo sporco, fate voi.

Il solito barcone naviga pacioso, quasi senza scia, son mille anni che fa quel tragitto… altre barche a vela disegnano teorie e trapezi; sotto noi, in riva al lago, giocano sempre a golf: li vedo zampettare con le scarpette di vernice bicolore seguiti dai trabiccoli colle mazze, o dai macchinini… ci vorrebbe un mutuo per l’iscrizione al clubbe. Volgo i lumi a destra: il cugino mi dice che nel casale laggiù, ci han fatto un bed&breakfast. Ci andammo a piedi molte volte, attraverso i vigneti e il granoturco; c’era una fontana e un miliardo di grilli: facevamo delle grandi gare a chi pisciava più lontano; Luca coi litri di acqua che si gargarizzava giù nel truglio ogni giorno, vinceva sempre. Simone mi ci portò con la Supercinque e non aveva ancora la patente: incrociai talvolta dei laidi serpenti. Risalgo con lo sguardo: mi mancano piante, troppi prati, devono averle devastate: oh, eccola, la casa delle galline ora tramutata in villula, sassi a vista: un barbaglio, dev’essere la piccola piscina, dove, certo, ci faranno le orge, conosco il tipo. Almeno, io ce le farei, potendo, con il grano, i capelli, il saper fare, i denti dritti. Sorrido. Poi su in alto, dietro la villa sbircio altre parvule abitazioni che un tempo non riuscivo a locchiare: anche qui subodoro il disboscamento. Non ricordavo che tutto fosse così vicino, potrei tirare un sasso nei domini sottostanti, ma anche farne a meno. Esco, con la scusa di cercare Silla: ancora prova la monta contro natura. In fondo al prato c’era una pianta miracolosa per le prugne che creava, meravigliose, buonissime: lo sapevo, non c’è shock, lo sapevo, l’hanno tagliata per farci un gazebo con sotto il tavolo ove pranzare e cenare, ed un fuoco. Preferivo la pianta, ci stava per diritto divino: la natura si riprenderà il suo spazio, solleverà le mattonelle, eroderà i sostegni, lei ha tempo, tutto quello che serve; non è qui in affitto, per pochi attimi, non ha fretta.

Giocavamo a freesbee, io facevo il portiere e lo bloccavo invero facendomi pure un po’ male alle mani, o a calcio con le piante come porta: ma non ci sono più nemmeno quelle. È ora del bagnetto, non voglio che la fame mi faccia passare la voglia di sguazzare un po’ come un ranocchio: sono tre anni che non nuoto, che non galleggio spostandomi, direi. Metto il mio costumino e ciabatto in riva alla piscina; i cugini giovini e abituati, già natano e si tuffano e spruzzano. Non ho imparato qui, ad onta dei vari tentativi: fu all’isola d’Elba, l’amata isola, che mi convinsi che potevo non annegare pure senza sostegni; avevo tredici anni e, come adesso, se non lo decidevo io, non facevo un cacchio: mi dissi: -nuota, e nuotai. Poi la paura mi abbandonò e raneggiai pure con dei bei metri d’acqua sotto, perché cosa fatta, capo ha.

Scendo dalla scaletta: in questa piscina, dove è bassa, è bassa davvero: mi arriva al bigolo; avanzo verso la profondità, lo so, ora si va giù, il freddo alla pancia mi rimembra certe diarree… bisogna che mi convinca e principi a nuotare sennò vien notte.

Entravamo sempre a bomba: almeno dopo essermi scoperto ranocchio. Pallone, pistole ad acqua, retini, maschere, un guazzabuglio di oggetti sparsi nell’azzurro; alcune cugine già da bimbette saltavano giù dal trampolino; campeggiava l’enorme camera d’aria del camion, quella con cui salvai un parente dall’annegamento: -ehi, ma stai annegando? Poi lo trascinai nell’acqua bassa e lo issai fuori, sul bordo, ove fece la balena, sputacchiando cloro. Spesso i più adulti, come minchioni, mi avevano spaventato; non ho mai tollerato obblighi, io devo convincermi da solo, poi divento il migliore, ma solo se lo decido io. Mia mamma fu gettata in piscina da un grandissimo cretino: si sfiorò l’omicidio; lo raggelò con una secchiata d’acqua; scherzi del cazzo. Rivedo le cugine adolescenti stese sulle salviette a rendersi bronzee, le sento ridere: ora sono piene di figli, forse non ricordano quelle carole, o forse sì, ma non ci fanno caso. Sott’acqua può essere qualunque epoca, lì è lo stesso, potrei uscire oggi come dieci anni fa, o venti, ma c’è troppo fresco sulla testa, non sono ricresciuti i capelli, sono sempre io.

Ero seduto sul bordo, col retino raccoglievo cadaveri di insetti suicidatisi per troppa gloria: Luca varcò il cancello con una tizia al fianco; me la presentò, le strinsi la mano e dimenticai il nome, come sempre. Era lì coi genitori, soci in qualche affare col babbo del Luca; nel pomeriggio andai da lui per il bagno e la vidi inarcarsi per tentare il tuffo: acerbi seni disegnavano il due pezzi, i capelli castani si incollarono sulle spalle: io non ho mai saputo come tuffarmi, non avevo leggerezza, leggiadria, grazia; lei sì, e strinsi le labbra nel solito diniego. Poi la gita al Vittoriale, noi tre sul sedile posteriore, Luca in mezzo: perché mi guardi così? Perché mi fissi? Perché la tua mano cerca la mia? Perché non vai a fare in culo? Già allora non vivevo, grazie ai miei cortocircuiti: nel silenzio e nella mancata reazione soffocai la simpatia: s’era solo poco più che bambini, ma io non ho mai imparato.

Ora sul bordo, lo stesso, guardo il cancello, ma non c’è Luca, è a Pisa a divenir medico, di quell’altra mica ho saputo più niente. Sorrido, sorrido sempre, dentro di me, sorrido all’inevitabilità del fato.

Pranzo: di fuori, sotto il gazebo, la tele accesa mi pare un insulto, lo è; nel pomeriggio vinco a stento il sonno, è l’antistaminico, sommato al cibo. Le ore scorrono lente attraverso i fantasmi di due bambini che giocano con ceste di Masters, con castelli-valigia, con macchinine, poi col piccì, coi ciddì, coi primi sogni. Nel pomeriggio il bagno non lo faccio, il cloro mi da fastidio alle nari e alla testa. Vado in visita alla villula che fu la domus gallinarum; graziosa, un piccolo paradiso, la piscinetta a sbalzo. Ma sono stanco, la cena è veloce: questo non è, non è mai stato un posto mio, manca pure la nonna, ci sono molti errori, e il più grande è nella mia testa. Si riparte, sul lago la coda solita. Il passo del Cavallo. Casa. La stessa vecchia storia.

domenica 17 agosto 2008

Semafori

Alcune mattine contavo i semafori ma, invariabilmente, verso il trentesimo perdevo il conto. Così cercavo di ripetere il tragitto nella mente e li ricontavo e peggioravo la situazione, visto che dovevo sommare i passati a quelli che stavo abbandonando durante la conta. Finché un sabato mattina d’agosto col traffico reso nullo dalle altrui vacanze, potei prendermela comoda ed essere preciso: tra accesi e spenti facevano quarantatre, più sei rotonde. E mi dissi: cavoli! Sono veramente tanti, ma davvero li passo tutti, e tutte le mattine? La cosa mi puzzava alquanto: possibile che all’arrivo, che fosse dell’andata o del ritorno non fa differenza, non tornassero mai i conti? Riavvolgevo la bobina mnemonica e stanavo fratture; eppure il traffico sempre congestionato avrebbe dovuto favorire l’attenzione, non avrei dovuto saltare qualche semaforo: se lo trovavo spento si passava liberamente e la faccenda mi avrebbe dato una minima gioia, altrimenti se verde, e che diamine!, l’avrei visto e distinto dal rosso; lo sanno le mani e i piedi ancora prima degli occhi. Si avviano meccanismi solo all’appropinquarsi dei semafori: nella mia vita ne ho saltato solo uno inconsapevolmente, ed era rosso, ma di quelli che ti fanno chiedere a che cacchio servano lì, ed infatti era nuovo, nel senso che il giorno prima era imbracato. Nell’ignorarlo ho provato una fitta e ho sentito un ghigno e mi sono auto-insultato. È quindi impossibile transitare davanti ad un semaforo e non vederlo, quindi mi sarei dovuto ricordare di tutti e quarantatre ogni volta, visto che non è che ci sia poi molto da fare quando si percorre una strada e sempre la stessa per due volte al giorno, a parte stare in campana.

Questa idea di contare i semafori mi venne dopo l’ennesimo buco mentale: ricordo che ero in coda, nei pressi del castello, fissavo la targa di quello davanti a me e d’un tratto precipitai nel presente: mi chiesi: -ma come ci sono arrivato, io, qui? Guardai a destra verso una signora che impelleva nelle terga di chi la precedeva, poi nello specchietto ed un’altra si ripassava il rossetto; l’orologio sul cruscotto dimostrava che erano passati tre quarti d’ora dalla partenza da casa, un tempo onestamente ragionevole, nella media: ma in me potevano essere dieci minuti, come mille. Dove ero stato? Oh, certo, sulla strada, nel traffico, certo. Fisicamente non poteva che essere così. Sei così fottutamente preso dalla battaglia tra pneumatici e lamiere che il tempo viaggia con te ma non te ne accorgi, la strada ti rotola sotto, le case si susseguono, le insegne, i cartelli pure, i volti di chi sorpassi o ti sorpassa, le loro parole o berci trascorrono e si perdono. Sotto la cappa di un viaggio normale, tutto dall’istante finisce nel dimenticatoio e non lascia traccia di sé. È l’anormalità a rompere l’incanto, a sormontarlo e ad installarsi pomposa nel ricordo: i tamponamenti, pure il mio, subito in coda (ehi, non ti avevo visto! – In coda? Mah) una macchina a cavalcioni di una rotonda nuova, uno scooter a terra tra i suoi vetri, un’ambulanza che corre tra gli ululati d’avviso, una manovra azzardata (di là dallo spartitraffico per non scontrarlo, poi, repente, di qua, attraverso il pertugio, la leggera scodata e la macchina s’assesta a fianco del camion che non m’aveva fatto strada), una manifestazione di protesta, la pioggia, la neve, la grandine (il mio cristallo, seicento euri). Elementi che sfottono l’ordinario e si fanno notare e ricordare. Altrimenti la normale esistenza passa e basta. Ecco perché finivo per non ricordare come ero giunto nel parcheggio, o a casa, la sera: se tutto filava liscio, perdevo coerenza tra tempo e luogo. Mi fissai sui semafori, come tappe, pietre miliari, eppure non erano mai gli stessi, numericamente uguali; finché, senza traffico, potevo contarli con precisione.

Se non li osservi attentamente, gli istanti della vita, passano e, con loro, gli anni, senza che ci si ricordi di loro, senza che segnino tappe: solo l’imprevisto, la maglia rotta, il varco, possono darci modo di riafferrare le redini, di accorgersi che non si è più padroni del tempo. Oppure fissarli per bene, i mesi, gli anni, fissarli così da farli tradire se stessi e rivelare la loro sostanza: nulla.

venerdì 8 agosto 2008

Mediocrità

Sono un mediocre, e in questo sapersi mediocre senza alcuna reazione attiva verso una qualche direzione, risiede il colmo della mia assurda mediocrità. Intendiamoci: non c’è mica né da vergognarsi né da scandalizzarsi di una tale autocoscienza; in tutta onestà, è di gran lunga maggiore il numero dei mediocri che di quello degli ottimi in questo bischero mondo: e non è l’accettazione a fare la differenza, quanto l’ignoranza. I più non sanno di essere dei mediocri e si autodipingono come speciali, particolari, interessanti oltremodo, e altre amenità: l’inganno poi trionfa quando altri mediocri par loro, li trattano come vorrebbero essere trattati, cioè da ottimi, salvo che, gli uni e gli altri, quando sono da soli, si considerano reciprocamente insignificanti e persino pessimi. Ma nel consesso dei mediocri, nessuno lo è, o almeno, nessuno considera il compagno come tale: si strusciano le gobbe a vicenda stendendo grandi coperte di complimenti così da stornare via l’impressione di pigliarsi per i fondelli. È tipico pure dei deboli riunirsi in crocchi e tramutare la debolezza in forza e poi andarsene per i fatti propri col santo pensiero che, in fondo, gli altri sono veramente deboli, ma noi no, si fa un po’ di scena, così per solidarietà.

È che la parola mediocrità ha questo non so che di dispregiativo, come sempre ben distante dal latino, dalla mediocritas che, come si sa, è una delle caratteristiche della maggioranza dei viventi: come si potrebbe pensare una società di soli ottimi e massimi? Eh, no; per due forti, duecento deboli. I mediocri sono necessari, come la malta, come il fango, come la merda, da concime. I fiori, belli, luminosi, atti ad essere storicizzati, sono in numero minore: una società di ottimi non esisterebbe mai, altrimenti sarebbe di soli mediocri, ma anche questa non avrebbe senso. C’è sempre bisogno di una minoranza che si elevi, indichi la via, istruisca o semplicemente faccia bella mostra di sé. Questa è la natura: un essere forte, geneticamente, c’è sempre, ed ha il sopravvento sul resto degli inferiori, ai quali toccano le briciole e con dignità! Sotto la cappa della natura tutto ha dignità: carnefice e vittima, superiore e inferiore, forte e debole: così deve essere e c’è ben poco da inviperirsi davanti all’inevitabile necessità. Ecco il punto: la mediocrità è tanto naturale quanto necessaria, e lo è pure la superiorità così come l’inferiorità.

Gli animali lo sanno e pare che non importi più di tanto a loro: il forte ha il sopravvento, il debole soccombe; l’istinto va verso la preservazione delle razze, dando maggior spazio alla migliore genetica, ma ricordando che la beffa è altrettanto inevitabile e quindi sempre ci saranno i peggiori, anche se le matrici saran state ottimali. Tutto così naturale.

Ma: gli animali mettono in gioco appunto le loro caratteristiche genetiche, e i migliori lo sono sempre da questo punto di vista, così il mediocre ha ben poco da recriminare per il suo stare sotto, ai margini, o nella massa che guarda il capo; i requisiti per essere un animale superiore sono dati dalla natura e in questa democraticità che crea un circolo di accettazione, riconoscimento, trionfo, risiede il trucco che ha permesso a tante specie di sopravvivere nei secoli e nei secoli, amen.

Fino all’essere superiore: l’uomo.

Ecco il problema: quali sono i parametri su cui si basa la creatura di Dio per stabilire una normale scala di valore? E, ancor peggio, come reagiscono quelli che si trovano al di sotto di altri? Più semplicemente: come si stabiliscono i superiori, i mediocri, gli inferiori e, ammesso che si riconoscano come tali, poi come reagiscono l’un verso l’altro? Purtroppo la natura c’entra poco. O nulla.

Non è la genetica a far di uno un essere superiore alla media, ovvero su di uno scalino sopra la mediocrità: altri i parametri che usa il nobile consesso umano, la comunità degli aventi diritti, i figli prediletti di Geova, i supposti padroni dell’orbe: non la forza fisica, non la salute, non le doti naturali, non i talenti mentali, non le capacità di studio, di lavoro, di apprendimento. Alcuni di questi fattori concorrono a creare, un giorno, il superiore, ma colui che la massa dei mediocri effettivi e pure degli inferiori, ritiene tale, lo è in funzione di un concetto orripilante: l’ostentazione di un successo, effimero o duraturo già poco se ne cale, nel presente, meglio se nell’immediato, hic et nunc, e più smargiasso è meglio è.

Il superiore oggigiorno è il vincitore, l’eroe, ma il dramma non è questo; infatti pure nell’antichità, e pure nel discorso naturale il migliore sopravanza il resto della marmaglia: la questione è il campo di battaglia, il contesto, i mezzi, le strategie, le cause che fanno di qualcuno un degno portatore d’alloro.

Ciascuno di noi sa chi pensa possa essere un superiore: applichiamo il concetto-piramide alla nostra quotidianità e ne traiamo una casistica che potrà pure essere strettamente personale, ma corrisponderà o, alla meglio, potrà essere adattata a quella di tanti altri. Senza menare il torrone oltremodo, va riconosciuto che esistono eroi sociali, comuni, epocali, quindi esseri supposti superiori appunto sociali, comuni ed epocali. Ogni età li forgia a sua immagine e somiglianza, quindi il superiore può benissimo essere pure l’emblema con cui identificare senza fallo un periodo storico.

Esiste, quindi, il tipo-essere superiore: la mediocrità invece è generalmente sempre il resto, fatta eccezione per l’inferiorità. Chiarisco pure che non v’è in ciò alcunché di morale-amorale: ripeto, dovrebbe essere naturale, non c’è in ballo la dignità personale, ma solo l’inevitabilità di tutto questo. Eppure proprio l’avvento della morale ha rovinato un fatto semplicemente costituzionale, convincendo i più che non è dignitoso, anzi è umiliante, sentirsi, essere inferiori ad altri. Poteva essere comunque un buon viatico: ciascuno deve pensare ad un modo per valorizzarsi accettando le proprie qualità come le magagne, i difetti e le deficienze. Le mancanze costituzionali avrebbero potuto essere la molla, una volta accettate come naturali e vissute serenamente, confrontate con le qualità altrui, che spinge verso le direzioni migliori.

Se ciascuno fosse stato abituato a prendere coscienza di sé ad ampio spettro, con seria e serena sincerità, tutti noi avremmo un orticello in cui sentirsi modestamente contenti e persino soddisfatti: questa è l’aurea mediocritas. Ma abbiamo avuto una forte influenza che proprio non poteva insegnarci l’orgoglio dell’inferiorità: per nascere, sedimentare e poi sopravvivere, questa ha creato un esercito di esseri che odiano la natura e la selezione naturale; persone che non devono accettare ma ambire, mai accontentarsi, piuttosto odiare, e, anche nella melma più abbietta, consolarsi pensando ad un futuro ribaltamento, ove gli ultimi saranno i primi e viceversa. Innestando la morale e l’arrivismo, tutto è andato in frantumi: la bellezza della vita non è più stata nel nascere, vivere e morire, sulla base di qualità-difetti naturali, ma nel vincere, nell’avere successo, se non ora, almeno dopo, nel vivere funestati dalla morale e nel morire sempre più in là, meglio se mai, confidando in una congerie di strumenti artificiali.

Il problema pratico sta nell’odio di chi nell’intimo si sa inferiore ma aspira alla superiorità: con quali mezzi, naturali o meno, uno sia diventato un ottimo, non importa più; se c’è arrivato lui ci devono arrivare tutti. Ecco dove casca l’asino: la grandezza deve essere per tutti, la bellezza, la sapienza, tutte le migliori qualità devono essere patrimonio comune, negando la semplice conseguenza che ciò che è posseduto da molti, non è proprio più straordinario, ma ordinario, quindi dozzinale, quindi mediocre. E se questa condivisione non si verifica lo si attribuisce ad una oltremondana ingiustizia, contro la quale reagire con violento rifiuto dell’ordine naturale e di quello soprannaturale, a seconda delle proprie tendenze filosofiche.

La lampante mediocrità, invece di essere accettata, o viene negata, o ficcata nel subconscio originando simpatici complessi, o violentata con patetici tentativi di superarla battendola: comunque con un occhio, oscurato dall’invidia, che punta verso il superiore.

Non si può proprio accettare di stare su gradini inferiori, bisogna sbavare guardando in tralice gli altri, non più fortunati, ma diversi, e nella diversità c’è anche l’essere migliore, e, per giunta, pure peggiore!

Cosa vado cianciando? Oh, semplice: sono un mediocre e accetto la mia mediocrità; ma la sorte mi ha dato fottuti occhi mentali per locchiare più su della superiorità, e più giù dell’inferiorità, per vedere la frattura in tutte le cose e l’inutilità fondamentale di essere e superiore e mediocre e inferiore. La natura colloca così, ma poi si creano cortocircuiti nella ragione e sorgono abiezioni ripugnanti esplicabili solo come errori: nel mio profondo c’è un errore fondamentale, una mancanza.

Alla personale mediocrità uno reagisce un po’ come vuole: non l’accetta e reagisce bendato per sbattere addosso a muri inevitabili; l’accetta e si conforma, ma la nega, altrimenti offeso; l’accetta, si conforma e l’ammette, ma io non li conosco questi tizi; l’accetta, rassegnato, si conforma e lascia ogni tavolo su cui si gioca la vita, e tale sono io. L’insoddisfazione di fondo sta nel deprecare la natura che mi fa atto a scardinare la menzogna ma inetto ad andare avanti, per cui in barlumi di lucidità, si preferirebbe la bella incoscienza, l’inconsapevolezza del saper destreggiarsi nel mondo; la rinuncia a tutto sta nell’annichilimento all’origine e alla fine, totale o al destrutturalismo; l’assenza di speranza non è disperazione, ma placida permanenza in una regione senza tempo, priva della malinconia per il passato, dell’attivismo del presente e della progettualità del futuro. Con una base naturale-fisica mediocre, un cervello non mediocre avrebbe potuto far poco, ma soprattutto avrebbe necessitato di una forza-speranza che invece non gli è mai appartenuta, così s’è permesso di squarciare il velo di Maja dimostrandosi abile, ma inabile a ricoprire il tutto e vivere. Il cane si morde la coda, il volto si fissa allo specchio, il sacco si chiude: non si può essere dei, non si può avere tutto, allora perché sacrificare la distorsione di non credere, per aggrapparsi al primo treno e dimenticare, o fingere di dimenticare, che si è morti ancorché deambulanti.

domenica 27 luglio 2008

Bozza (continuazione)

Un pio passatempo, un po’ come ingannare la morte, o parlarle: sopra la mia testa un’enorme specchio appeso ed inclinato verso il pavimento, a reggerlo due catenelle dorate: riesco a vedere i giocatori alle mie spalle. Ho sempre avuto un mistico rispetto per gli specchi, pensando che l’immagine proposta sia tanto più veritiera di quella diretta; questo perché l’ipocrisia delle maschere si occupa solo di questa, mentre se ne frega di ciò che appare in un contingente riflesso. L’individuo si aspetta di essere guardato direttamente e per questa eventualità prende le sue precauzioni; non riesce a curarsi pure di uno specchio; la realtà viene così stanata per via obliqua. Io stesso stento a riconoscere la persona che mi si para innanzi tutte le mattine sopra il lavabo in bagno; eppure sono più che io, per questo quel tizio ride assai poco e ha occhiaie profonde; molto più democratica l’acqua quando ti riflette: basta un piccolo tremolar della superficie per censurare il disvelamento di sé.

Ma chi sono questi tipi che stanno chini sul video e pigiano ebefrenici i tasti? Quando e quanto si conosce una persona? Si conoscono le maschere, ciò che vogliono che sia visto; ognuno di noi è così, si offre a spizzichi e solo se pensa ne valga la pena, mentre di balle se ne elargiscono a caterve. Ma quando non si è visti, quando si pensa di non essere visti, allora sì che il vero affiora e piglia il sopravvento: c’è consapevolezza? Credo proprio di no, altrimenti gli psico non avrebbero più pane da mangiare; il problema è che spesso viene reputata per vera la persona per come si manifesta nel novantotto per cento del suo tempo e non nell’impulso degli attimi nel restante due per cento, quando invece proprio in questa miseria di occasioni esce il vero io, scansando a pedate nel culo il super-io. La verità sta nel minuto di pseudo-follia, nell’orgia del secondo, nella breccia minima nel muro, in quell’istante senza freni inibitori. Colui che si riflette sopra la mia testa non è lo stesso che qualche ora fa portava il suo pupo nel passeggino vicino al parco del carabiniere morto; ne porta i vestiti e pure la corporatura è la medesima, ma quella era la maschera del buon padre di famigghia, del lavoratore instancabile che regge, come Atlante sul groppone, il suo mondo: questa, mentre imbratta di bava il video della slot, è la vera persona, quella che evade il fisco, che agguanterebbe le chiappette della Lolita allo stesso parco di cui sopra, che farebbe a brandelli coi denti e colle mani i compagni di traffico, che spedirebbe la moglie in un Gulag per dimenticarcela, che, infine, fotterebbe la morte per un secondo di divinità. Ma non lo sa: stolido continua a pigiare i tasti, però sente di essere mosso da impulsi diversi, non li sa calibrare, e meno male. C’è da non pensar bene quando un imbianchino sale sul trono del Mondo, o d’Europa, almeno. Eppure il profumo di una potenziale soddisfazione lo sentono, e schiappettano dietro i finti Nirvana dei nights, dei calicioni di vino per gragarizzar giù dal truglio i mille spiedi, dei concili massonici con imberbi mutandine come medium, delle piste bianche che varrebbero i libri scolastici della prole, delle imbonitrici maghe o dei corvacci tonacati: dietro alla pelota sul prato verde, al culo dei cavalli drogati per arrivar primi a nessun valsente, alla finta vita della Borsa che sale, scende, vomita e non si cale di loro e dei dindi bruciacchiati. Palliativi, prima di riedere alla domo di sera, Apollo calante, e guatare il volto rugato dalla natura della mogliera, e sentire i lai e i guaiti dei procreati dal preserva bucato. Non è che gliel’ha ordinato il dottore, ma l’istinto che fa qualcuno speculativo, e qualcun altro minchione, fa i vincitori e i perdenti e così via.

La macchinetta li svela, fa calar giù le braghe, e quelli che credono di giocare non sono gli attori, ma Loro, gli Individui e come tali andrebbero considerati dal consorzio umano o presunto tale: solo che di umanità non si parlerebbe più, qualora ciascuno di noi fosse preso per quello che realmente è e raggruppato, ma di ferinità, di bestialità. con rispetto per le bestie che tali sono in famigghia, quali da sole, in cerca di cibo, compagni e vittime. L’animale è quel che è sempre, e non all’uopo: quello è l’uomo, colui che il teorico Iddio ha fatto a sua imago, quello che bestemmia per una combinazione di frutti diversi, e che mangerebbe il suo cuore per una chiavata in più o per uno zero finale aggiunto nel conto in banca.

lunedì 21 luglio 2008

Bozza

Le macchinette non chiedevano mai s’eravamo felici; in effetti non ti chiedevano proprio niente, sennon di foraggiarle di vile, mica poi tanto, danaro. Poi pigiavi sapiente dei bottoni rossi e, sullo schermo, ruotavano vorticosamente caselle di slot machines virtuali, fino a fermarsi fingendo pure il rallentamento; combinazioni di frutta dichiaravano vincite minime o, il più delle volte, perdite definitive, il tutto corredato da simpatici jingle, tanto funesti nella sconfitta quanto non uditi qualora ci fosse una fortunata congiuntura; naturalmente di buoni consumazione, altrettanto naturalmente convertibili in altri dindi pronti a ritornare nella macchinetta medesima per nuove sarabande e gighe.

È che c’eravamo rotti della solita partitina a chiusure e nessuno mai ci metteva più di un euro al punto, quindi spaccarsi il melone per scartare più jolly aveva il valsente molto scarso, e il sugo ci perdeva; mai uno che volesse scaricare sul piatto la casa, la macchina, la putela, l’orologio pataccone, mai un brivido surrenale. Solito tavolo, solite sedie con calco anale, solito mazzo unto e bisunto, che le poteva riconoscere un cieco le carte in mano all’avversario, tant’è l’avarizia dei baristi; soliti calici lungo il limen, solite macchie, solite parole e riti, scongiuri, minacce: per puntare ad una uscita in un intorno dello zero. Nessuno di noi era un vero giocatore, dostoevskijanamente parlando: la sconfitta spaventava come l’orrido su cui affacciarsi per provarsi eroe e scoprirsi cagasotto; tutti cercavano solo il danno minore e, per forza, la vincita minima. Just passing time, direbbero in Albione. Fino ad esagerazioni esacerbanti: una sera il Causs, che però non partecipava al consesso degli ottimi buoni iovani, chiuse una semplice con tre Jolly; quello fu il segnale, il faro anche per ciechi naviganti: s’era oltrepassato il limite della degenerazione. Ricordo che l’unico con un po’ di animo battagliero aveva in mano pure lui una semplice già da qualche passaggio e puntava almeno ad una tripla: quando vide le carte dell’avversario adagiarsi sul tavolo e un sette di picche finire sul mazzo onde avvisare della chiusura a più uno, non disse nulla: con l’indice destro contò toccandoli i joker, poi si alzò e uscì dal bar. Non si poteva più giocare in quelle misere condizioni.

Le macchinette ci sorpresero in pieno trapasso: la birra stava lasciando il posto al rosso e al declino del fegato, oltre che dei capelli già radi. Rimanemmo sconcertati allorquando un tizio in salopette trascinò nella sala del bar la prima di tre esemplari, quella che scelsi per cavarmi la verginità ludica; le scambiammo per videogiochi ghignando all’ottusità del commerciante paesano che non conosce l’avanzare della modernità delle console; ma i berci si quietarono all’accendersi delle mille luci delle tre finte LasVegas per sfigati della valle: ci avvicinammo come i pupi ai presenti nella mattina di Santa Lucia, le accarezzammo implorando una distrazione, un appiglio per non calarci nel rosso e scivolare nella senectute. Qualunque novità sarebbe stata ben accetta e non ricordo più chi volle per primo divenir esperto, inserendo i dindi e iniziando a pigiare tasti o sensualmente o da fabbro ferraio, a seconda delle teorie e delle speranze. Ci fu spiegato il meccanismo della conversione della vittorie in buoni consumazione, con un sorriso italo-furbo che tradì la gabola. E la frase-condanna si generò: prima o poi si deve per forza vincere. L’abbrivio verso la rovina economica: sono molti i poi che si ammucchiarono e il prima divenne miraggio, eppure le notti si fecer giorni e viceversa e qualcuno sempre sorvegliava le mefistofeliche macchinette, in attesa di una mutazione impercettibile ma definitiva: il segnale che la prossima è la giocata fortunata. Poi si iniziò a vincere: nessun prodromo, solo così, ex abrupto si infilarono combinazioni e la fiducia salì verso l’empireo: tutti vincemmo qualcosa, ma nessuno centrava il massimo, la combinazione di diamanti, intrusi nel marasma tutti-frutti. Ma la vincita definitiva incombeva e, per quel che ne so io, incombe tutt’ora. Quelle mogli che nessuno osava giocarsi a carte cominciarono a fuire dalla varie domo proprio dopo l’avvento delle macchinette: non certo le nostre, dico, miei e dei miei sodali, visto che le fiaccole nuziali mai s’erano accese per noialtri. Le banche chiamarono, i piccoli commercianti videro diventare lunghe le liste di pagherò, i bimbi non avevano ricambi di vestiti e l’automobile urgeva benza: particolari della nuova indigenza, e la vincita corposa mica usciva. Io c’avevo già rinunciato, ribolle in me sangue da manica stretta e le perdite mi schifano come la peste: mi sedevo col pirlo e manco mi serviva guatare, bastava l’udito per i jingle e l’olfatto per lo stantio sudore dei tapini. Ci fu un tempo in cui a rovinarsi con le slot, con il black Jack, con i cavalli ci pensavano in due-tre paisani e basta: le macchinette portarono la ruina democratica e globale, abbassando il quoziente intellettivo necessario al giuoco; ed in fondo il segreto era proprio questo: bastava un testa di vitello per pigiare i tasti e perdere diottrie dietro ai pixel rutilanti, oltre che i soliti soldi.

Ci si rompeva le palle osservando il correr verso la rovina, sempre più rattamente, di questi fessi: alle volte non sapevo se eran più cupe le occhiaie della vittima ludica o le mie, che finivo per contare i denti dei francobolli.

Nell’età dei flipper ero oltremodo bimbo e guatavo invidioso i grandi dagli di anche e spinte aggrappati al mastodontico, per me, gioco: sullo schermo c’eran pure donnine discinte e questo accattivava e io, dal mio basso, mi figuravo che nel pazzo viaggiare della biglia ferrea, si generassero reazioni proibite; nel nostro bar ne arrivò uno con le astronavi e ad ogni punteggio elevato, lasciava partire un frastuono simile ad uno shuttle in rampa di lancio coi motori accesi; c’eran pure dei verdi alieni i cui occhi sfavillavano siccome dopati ad ogni mille raggiunto. Fu un vero orgasmo, ma quando ebbi l’altezza, i flipper già avevano ceduto i passo ai videgames e io divenni discipulo loro. A pensarci ora… ci volevano duecento lire a partita, una miseria, oggi. Ma questi ludi non rovinavano nessuno e muovevano poco l’economia: adatti a menti agili e dita pronte, richiedevano persino perizia. Come pensare che attraessero i minchioni? Ricordo con malcelato orrore i giochini tipo puzzle cinogiapponese o i poker, con bimbe pronte a levarsi mutandine tra mugolii incomprensibili: cercavan di carpirti il denaro con lo spogliarello virtuale; ma anche qui, ripeto, si necessitava di abilità; usavamo persino sei-otto occhi per farcela. La rivoluzione era vicina: non ci voleva un genio per portare un mignon di casinò in ogni bar; eppure io ci avrei visto bene il black Jack, il poker, un qualche gioco stimolante. Devono aver osservato i fessi nei veri Casinò: dove vanno a finire? Ma alle slot. Tiri giù la manetta e dlin, dlin, dlin… un cacchio di sforzo.

Seduto, scazzato e sconsolato li osservo: dita nervose perché ora non possono più stringere le paine, sbofonchiano piccole bestemmie, muovono i piedi come se temessero di bloccare la circolazione, scuotono il capoccione e tiran fuori banconote: se stanno zitti, vincono, come se non volessero rendere certi gli altri del momento favorevole, e ambissero ad essere i soli a sfruttarlo. Peccato che quelli fossero solo attimi.

mercoledì 9 luglio 2008

Particolari

Sono sempre stato propenso ai particolari: non mi occorre guardare per vedere, di questo se ne accorgono in fretta pure i miei alunni, il che serve a loro per non farsi sgamare. È che la mente registra immagini anche senza porvi la dovuta attenzione e poi ci ritorna con la memoria, sì da rinvenire qualcosa che si è trascurato in precedenza. Quando un oggetto cambia posizione non se ne accorge subito, ma nota la stonatura; a ciò aggiungo la tendenza all’essere spesso più attento alle zone periferiche del campo visivo che a quelle centrali: non è l’insieme però che resta impresso, ma il particolare o la somma di particolari.

Mi accorsi in fretta di questa mia attitudine perché mi capitava spesso di ricordare cose che chi aveva vissuto con me determinate situazioni o aveva dimenticato o, meglio, non aveva notato: con tutto che il prospetto generale sfuggiva sempre a me e non ai contingenti compagni.

E non ha nulla a che vedere con l’osservazione: ripeto, non conta il guardare, per quanto sia attento o superficiale: la chiave è il vedere. Si può osservare per ore una scena, un paesaggio, una persona… e non vederne veramente nulla: oh, beh, sapremmo descriverne i tratti, ma, dentro di noi, nessun lacerto veramente essenziale. Ed io per guardare guardo, ma so che lo sto facendo o per esigenza, o per distrazione, o per abitudine, o semplicemente perché se non lo fai magari vai a sbattere da qualche parte. Ricordo un episodio emblematico: entrai in SP un mattino qualunque di due estati fa; girai un po’ davanti al bancone con la cassa sentendomi a disagio senza sapere il perché: considerai il generale: forse il viaggio, forse l’aria di quel negozio, mai così pura… o forse c’era nel mio campo visivo qualcosa che non andava, così guardai. In alto, sopra la passerella che conduceva al reparto montagna, sulla parete, c’era l’esposizione degli zaini curata da me con obbligata attenzione qualche giorno prima: in apparenza tutto a posto, eppure… feci scorrere l’occhio lungo tutte e due le file degli zaini, dai più voluminosi ai meno, e poco dopo la metà mi si schiarì il mistero: mancava uno zaino; qualcuno, dopo la vendita, aveva coperto il buco con un esemplare già in esposizione, quindi doppio, mentre il modello giusto era ancora in magazzino. Indicai col dito la zona e dissi: -chi ha venduto lo zaino? Risero di me un po’, ma da allora si accorsero della mia attenzione ai particolari. Io noto ciò che non sembra mi abbia colpito, né a chi mi sta accanto, né spesso a me stesso: poi ci ripenso e la fotografia mi riappare alla mente e, questo è molto importante, capisco il perché l’ho memorizzata.

È un passaggio fondamentale: molti hanno questa attitudine, ma pochi la coltivano e la analizzano; perché ci colpiscono determinati particolari e non altri o, meglio ancora, perché non la visione complessiva?

Lo zaino l’avevo messo io, una occhiata generale l’ho data all’esposizione, eppure proprio in negozio ebbi modo di provarmi in tale attitudine: mica guardavo tutto, eppure mi accorgevo che qualcosa era cambiato o qualcosa d’altro stava subendo alterazioni. Ripeto: io uso molto le zone ai lati del campo visivo; quando guido guardo davanti ma vedo ai lati e, a casa, mi ricordo immancabilmente di qualche particolare registrato, oppure, in un successivo passaggio, rimarco i cambiamenti.

Questa l’introduzione: attenzione ai particolari, ma spesso non quelli guardati ma quelli notati e visti ai margini e che acquisiscono importanza successivamente.

Dunque: incontro una persona e molte volte non la vedo, almeno non generalmente; la guardo, so riconoscerla successivamente, e la saprei descrivere ma le fotografie mentali che la riguardano affioreranno al ricordo più tardi, inconsapevolmente, oppure, conoscendomi, volontariamente. Ma se mi si interrogasse nell’immediato dell’incontro sarebbe curioso: io ho guardato il viso, parlandoci del resto… o tutto l’insieme, ma subito, magari, di primo acchito, non saprei dire se tale persona, che ne so… , aveva o meno gli occhiali: ma saprei dire con certezza che scarpe, che colore per le unghie, o che sedere… aveva senza averlo guardato direttamente, ma visto perifericamente. E il particolare mi resta impresso a lungo.

Ora: sono spesso i particolari ad essere i più curati dalla maggior parte delle persone; pensate all’orologio: talvolta fa capolino una volta sola durante tutto l’incontro, ma ciascuno di noi sa che molti lo notano subito, quindi si arriva a sperperare dindi a profusione per qualcosa che passa la maggior parte del suo tempo nascosto. Su questo discorso si basa la fiducia di chi cura maniacalmente tutti gli aspetti del sua apparenza fisica.

Qui siamo al punto: anche chi non è molto dotato naturalmente… cerca di sopperire con elementi che stornino l’attenzione dal generale, magari un po’ insignificante, per focalizzare l’altrui sguardo su un particolare: ricordo un esempio lampante che, però, già trascende verso la questione precipua, comunque… : un mio ex cliente del bar era… è basso, tipo ragnetto, curvo e storto, il volto segnato dall’età e non dalla grazia… portava sempre la barba lunga come i folletti, sicché lo chiamavano Barbù e ho pur visto donne carezzargliela: -la lascia crescere e perché l’è bröt, e perché el vol fass ardà, diceva la mì mamma. Appunto: senza il barbone sarebbe stato un tipo… insignificante, con… almeno lo guardavano attirati dal particolare.

Ma parlo di cose note: è il principio del trucco, l’arte del colpire che è sempre stata l’arma delle donne e il balocco di alcuni uomini, non certo del sottoscritto, seppure io applichi le mie teorie pure a mio discapito, e sia convinto che di me si notino di più i denti storti e la pelata, deplorevoli particolari, che l’aspetto generale non certo brutto. Ma lascio perdere il discorso.

Quindi subentra Pirandello, saggio sull’umorismo, l’avvertimento del contrario: vedi una vecchia imbellettata, prima reazione il riso, poi rifletti e pensi a quanta sofferenza dietro la truccatura, quanta cura per nascondere il dolore dell’invecchiamento, allora avverti che qualcosa non torna, il contrario e non ridi più.

Il particolare parla più del generale: ci racconta chi è veramente il soggetto e, meglio ancora, quali siano le sue… peculiarità. Questo può essere provato da tutti: per dire una cagata, una donna con un push up evidentemente soffre per un seno non voluminoso, e certamente ha altre turbe, non è serena verso l’età, il decantare, vorrebbe essere guardata, giovane, ammirata per la sensualità; oppure simula una aggressività che non ha e che vorrebbe.

Io mescolo l’attitudine pirandelliana con la mia tendenza a considerare sempre la struttura e poi a smontarla: il push up mi riporta a quanto sopra e alla donna stessa davanti al suo specchio intenta a guardarsi e a ponderare ciò che vede, girandosi e voltandosi le mille volte, per dirsi almeno accettabile; ciò mi disorienta perché svela l’umana sofferenza di ognuno e le intime speranze. Un donna con il seno finto penserà di piacersi, poi piacere e arrapare magari, non disorientare con un cannone carico di tristezza: quanta sofferenza dietro la decisione di andare dal chirurgo, e quanto desiderio di migliorarsi… illudendosi. Invece non fa che rimandare al vuoto esistere, ai distorti valori e, in definitiva, alla relatività: che deve importare agli altri se lei si sente meglio così? Già, ma non ci si crede poi molto, comunque.

Incontrai Chiara una mattina in aula studio, era davanti ai computer: è sempre stata bellissima eppure era cambiata: i capelli corvini sparati come dopo una esplosione, la pelle diafana contrastava con il rosso troppo forte delle labbra, e il contorno degli occhi marcato… la salutai, e, uscito dall’aula, pensai che quegli stivali, manco guardati, mi ricordavano Guerre Stellari. Cosa era successo? Certo un cambiamento esteriore così deciso doveva legarsi ad uno interiore, eppure già non volli mai aver a che fare con la sua vita, figuriamoci con le sue turbe. Quando una donna cambia… molto, sono certo si chieda: -piaccio? E porcatroia io dovrei essere in grado di rispondere o sì o no e basta; invece comincio a pensare ai travagli mentali, alle mille questioni, ai “lo faccio, non lo faccio…” alle ore allo specchio, ai sogni, alle speranze, agli inganni, autopropinatisi, ai disinganni: ed io non voglio aver niente a che vedere con questi piccoli dolori della comune vita di ognuno.

Dietro il particolare, riguardante l’apparenza fisica delle persone, io ci vedo sempre la dolente umanità, lo spettacolo dell’uomo interiore, la sua tragedia, la vita; e non riesco a considerarlo per quello che è e basta.

Così dirmi che una ragazza viene riconosciuta per un brillante sul dente mi massacra: ci avrà pensato giorni, ore, sarà andata emozionata a sceglierlo, a metterlo, sarà tornata a casa fibrillando per la novità, avrà sperato di piacere di più o magari se ne sarà poi pentita… certo non avrà pensato di dare una mano a riconoscere il suo cadavere. O i tatuaggi, stesso discorso, povera creatura. Perché al mondo c’è chi sa vivere, chi non ci riesce perché annichilito dal suo stesso destrutturalismo, chi vede, chi no, chi ha idee e chi le spara grosse, ci sono i belli e i brutti e ci sono i mostri.

sabato 5 luglio 2008

Perno

Non sono certo gli euri sparsi e sperperati a fare di ogni martellata un colpo al cuore: non sono mai stato così legato al danaro da piagnucolarne la perdita e lo spreco; conosco il valore ma non l’affetto morboso che attanaglia le banconote ai portafogli persino oltre il bisogno. Seduto, o meglio incollato, alla poltrona (termine che dovrebbe riallacciarsi alla serena comodità mica alle spine nazarene) del dentista vivo il materializzarsi dell’incubo che spesso bussa nelle mie solitarie notti da ormai trentatre anni: pigliare orribili botte nei denti.

Bisogna levare un perno: una qualche trapanatina e il punteruolo che fa leva; poi le martellate che pure sono precise, una, due, tante. Non c’è dolore, del resto il perno è un estraneo che s’è dovuto accettare a suo tempo con gran dispendio di bava; ma oramai è parte della famiglia e la sua forzatura si ripercuote e nella bocca tutta e nel cranio onnicomprensivo. Ripenso al fatto che pure mi è servito… che mi serve, anzi, dico, almeno per mangiare… : s’è faticato per inserirlo, ora, causa granuloma, lo si leva e non tanto facilmente! Resiste indomito in una stoica pugna che non gli si richiede: un’altra botta… non sono un muro: sogno spesso di perdere i denti e mi risveglio in un lago (meglio valdell) di sudore; m’è capitato ancora di battere fortuitamente la bocca in qualche malnato ostacolo… e la paura mi ha roso il pensiero e i muscoli anali han fatto il loro dovere contenitivo. Ora si picchia volontariamente: cambia la mano; cedi, per favore, cedi… è così che deve andare, c’è una frattura ovunque.

Mi ricordo quando mi tamponarono una serena mattina, andando al lavoro: la macchina non si fece niente, io nemmeno, tanto scarsa era la velocità del distratto: eppure il rumore fu secco ed eccessivo, dati i danni… e mi è rimasto nelle orecchie per giorni, tanto che, appresso ad ogni seppur minima frenata, io mi aspettavo di riudirlo. Così questo sordo battere, questo botto che si espande nel cervello ormai in stand by, in attesa del crollo; poi l’abile chirurgo sfila il perno e tutto prende strade conosciute, canali da ripulire, fino al lampo che segnala il termine raggiunto. Ma è solo il primo corpo estraneo da levare: sono tre.

domenica 11 maggio 2008

s.t.

1.

Giugnemmo alla Disko ancor che fosse tardi: Jig zigzagò mugolando litanie gitane, buscando un pertugio atto ad ospitar la car. Rinvenutolo, calcammo la ghiaia insino all’ingresso per i framassoni. Innanzi a quello plebeo sostava sudaticcia la folla degli adolescenti.

2.

Dinoccolammo davanti agli invidi guardi e avanti al guardia ristemmo: Ram incrociò i lumi dell’uomo in nero, auricolarato; iovine di prima barba come muffa, scorrea la lista di basciati dalla sorte; poi ci scannerizzò preciso: - tre, p.r. Rogno, favorite la parola d’ordine.

3.

Mi si seccaron le fauci; Ram gli si fece appresso e sicuro proferì: - l’umile igumeno Pafnutji firmò di sua mano. Jig ed io ci guatammo basiti; il gorilla implume si fece di sbieco e lasciò libero il nostro fatal andare. Ancor sorpreso lo locchiai passar ad altri e ripeter il rito.

4.

Pareti nell’atrio, rosse, striate di bianco; nel piancito nero incastonate sfere trasparenti con inglobate luci, dirette verso la volta buia. Breve ambulacro: ai lati due acquari: tapini figli di Nettuno natano impediti d’affondate riproduzioni della Disko stessa.

domenica 27 aprile 2008

Time table

VIII

Visione di angeli tutt’attorno

danzanti nel cielo

mi lasciano qui

per sempre Addio.


Questa è la cena dell’Onnipotente!

Signore dei Signori

Re dei Re

Ritornato per condurre i suoi bimbi a casa

per portarli nella Nuova Gerusalemme.


Hey, piccola, con i tuoi occhi da guardiano, così blu

hey, piccola mia, non lo sai che il nostro amore è vero?


Conosco un fattore che si occupa della fattoria

conosco un pompiere che si occupa del fuoco.

qualcosa mi dice che farei meglio ad attivare la mia capsula per la preghiera.

Io? io sono solo una falciatrice

lo vedi da come cammino.

...


Dai Genesis all’oblio di sé

giù dalla scala a chiocciola

nel sottosuolo,

ovunque rastrelli…

brandelli di memoria.

sabato 26 aprile 2008

a long long way to go

VI

Avevo i passi pesanti

impronte nella rena profonde

ma incerte senza un Gesù personale.

Pesante volume sulle ginocchia

altrove carole, rose colte, schermaglie.

Andate e ritorni lo stesso: da nulla a nulla

e viceversa, con nulla tra le dita:

un anno di più, stagioni come fogli di calendario

ondeggianti dopo lo strappo.

A pensarci… il Mella scorreva come oggi

sordo ai lamenti, alle campane, ai lanci di riso

ai cortei, ai lavori, alle nevrosi

all’utopia, al disincanto.

Sul ponte si sostava e si sosta,

passavan carrozze, passan automobili

passeranno in tempi che solo all’apparenza

loro stanno cambiando: io?

certo, meno capelli.

VII

Torna il killer sul luogo dell’omicidio?

Per quanto ci si arrabatti con la colla

i cocci non tornan vasi.

giovedì 24 aprile 2008

Pissicanalisi d'accatto continua

III

Piccolo testamento puerile:

la pista, Remigio, i topolini

(per altro ancora brulicanti tra tavole e mensole)

l’apparecchio quello no,

né lasciarlo né portarlo nell’Ade,

tortura senza drizzar storture, ma

devastatrice.

Vergogna.

Dolente caverna, altro che osculi.

IV

Sbarcavamo dopo le fioriture:

increspature dorate, reti e lenze, sirene e canti.

Il carrello seguiva sin in Val Carene e diveniva

tenda. Il Monopoli: Brescia e Napoli contro Roma:

vincevamo rubando.

Ma i sodali dell’Urbe eterna volser sé in mariuoli.

V

Anche al sole isolano mi isolai:

non valser i guardi, i ludi,

le ignude natanti teutoniche.

Non i lumi cerulei, non i crini sparsi…

a diradar la ghebba,

ad indicare prode diverse:

consone, tipiche, dovute, opportune…

no, non giovarono alla mente ottusa.

mercoledì 23 aprile 2008

Pissicanalisi d'accatto

I

Giammai fui un bimbo quant’altri,

sperso in fantasie compensatorie,

in fughe eccentriche,

in terre senza sole.

Bene lo seppi da subito benché

lungi da definizioni.

Era d’altri la vita. Ed in me,

sognata, la vita era d’altri.

Chimera o realtà: mai mia.

II

Gomitolo fetale sotto le coltri:

tra rivoli salati cerco Abadonna

dominando a stento il singulto.

Conosco meglio lo psicopompo

che il bacio rapito dietro la gelateria.

Al tremolar del duodeno preferisco Myskin:

sdrucciola il sentiero ancor al principio.

venerdì 11 aprile 2008

Qui e là

Tante volte, lungo il sentiero che m’ha condotto dall’utero materno all’oggi, ho preso tra le dita la penna intenzionato a descrivere la Bellezza, ed altrettante ho abbandonato l’impresa sopraffatto dall’inaccessibilità d’una pura e semplice chiave di scrittura: come racchiudere la forza d’uno straripante senso di inferiorità nel breve volgere di qualche periodo, sul niveo candore d’un foglio o saltarellando su una tastiera fissando il virtuale e fitto bosco bianco di pixel, ove imperioso lampeggia un segmento nero in attesa di lasciare dietro sé parole? Né con l’inchiostro, né con i polpastrelli mi riusciva di veicolare il sentimento, cristallizzarlo, e strapparlo all’informe per dargli una definizione scritta. Né mai ci sono state le domande giuste a cui abbozzare risposte o replicare silenzi di sconforto: neppure davanti allo specchio si riesce ad ingannare la realtà, a porre a se stessi questioni che altri non sanno, o non vogliono affrontare. Ma neppure c’è mai stato il giusto panico, grazie al quale, almeno per istinto di sopravvivenza, uno potrebbe reagire e strappare dalla mente la cagione di tale annientamento, di indefinito senso di impotenza verso qualcosa percepito come immenso e allo stesso tempo, inafferrabile ed inevitabile. Come il senso stesso dell’arrabattarsi quotidiano, di quella lotta per la vita, la battaglia che cela, dentro le spire dell’inganno, il nulla essenziale, ed esiziale.

Perché è un dato oramai assodato: la Bellezza s’accompagna al Nulla, e l’uno non prescinde dall’altra. Ed eccola qui, una frase di quelle a cui segue un attonito: -e allora? Eppure il tapino che dentro al cervello riconosce le inaspettate epifanie e il subitaneo collassare di quel sentimento, intuisce la stucchevole, per altri, pregnanza d’una simile affermazione. Passi già compiuti da individui ben più importanti ed abili ad arraffare l’istante e congelarlo nell’illusione dell’opera artistica: ma, in definitiva, disadattati pure loro, consapevoli che il segreto ben sfugge tre le maglie dell’ipotetica rete tesa come trappola; eppure ciò che resta reca in sé le stimmate del tormento generatore, in modo tale che, il simile per destino, potrà stanarle e vivere dentro se stesso qualcosa di affine. Non identico: la Bellezza stordirà l’individuo e questi, avendone l’abilità, ne produrrà un surrogato, sapendolo però pallida ombra della forza creatrice, la quale sarà scomparsa appena dopo l’apparizione, lasciando dietro un doloroso riecheggiare… ma il risultato rimarrà come teste, come barlume del dissidio tra immensità e annichilimento che l’ha generato, e questo ad uso e consumo di coloro che hanno gli strumenti per decrittarne il linguaggio.

Ma chi non ha l’abilità per catturarne l’imago, vive un dissidio ben peggiore allorquando la Bellezza appare mostrandosi immensa e crudelmente implode in sé, lasciandosi indefinibile, sennon per balbettii o per silenzi: c’è chi cattura brandelli e crea almeno arte e chi non afferra un bel niente e partorisce altrettanto. Si ha l’impressione di poter abbracciare il Tutto e, siccome Dante nel Purgatorio con le anime, le mani si trovano a circondare l’aria, s’annaspa senza l’equilibrio supposto, senza l’appoggio che ci si illudeva di cogliere corporeo. In un attimo si ha cognizione del segreto e intuizione dell’inutilità dello sforzo: così ricerca, approdo e disinganno diventano un tutt’uno. Dicevo dell’eco: segue l’epifania della Bellezza e resta a trapanare la mente quando Questa se n’è fuggita; eppure, proprio in funzione di questo riecheggiare, che altro non fa che ripetere quanto si è inutili, piccoli, deficienti ed inetti, proprio nell’inseguire tale sofferenza risiede il senso, per altro inesplicabile, della Ricerca, della vita stessa. Quando ci si sente nulla, quando il Significato implode nel Nulla, quando la mente si sa schiacciata, allora si sale su un’onda lunga, che si allontana sì dall’epicentro, dalla Bellezza che l’ha originata, ma che ne reca i segni e in definitiva, permette di rivivere, almeno in piccolo, altre mini-epifanie, di perpetuare l’illusione, finché non resta che l’amaro vuoto. Quindi nasce il Cul-de-sac, la trappola che si sa tale, il cane che si morde la coda, il pensiero dominante: ogni cosa, intesa come viva, non è che morte e degenerazione, Bellezza e Nulla insieme; diviene necessario chiedersi: ma cosa è veramente vivo? Ove risiede il sentimento da cui vale la pena farsi annientare?

martedì 11 marzo 2008

Sfoghi onanistici

Mi chiamate da afflati notturni:

Pervenne, pervenne!

Sì, pur ora, al toupet corvino, al dilaniar d’altrui programma, bavose le cagne al fiero pasto cartaceo.

Ei fu.

Quest’è. Securo sulla scranna, fatto securo da sé anni addietro: non pote essere trono per vizio di forma.

Quanti si tegnon or là sú gran regi

E lo son sanza corona ma coi palagi, colle corti, colle auree quadrighe siccome biechi mosconi attenti all’uman sterco (di diamanti ne nascon ben pochi).

tra un alalà di scherani,

la povera plebaglia innaffiata dal seme mortuario: ovunque i birri presi per saccenti, gli sgherri per capaci, i bravi per benefattori; pure ganze come martiri del vaniloquio, callipigie, siliconate, diafane, lampadate, ramate, bailamme compulsivo.

ed io me ne andrò zitto

sì, sì, muto e solingo sul suolo natio: conti sodali sugli scaffali e fuffa nella capoccia.

domenica 2 marzo 2008

Turibio(4)

Già lo so, già lo so, mi direte: eccolo lì, l’anticlericale, uso e aduso ai più beceri luoghi comuni, sparafregnacce a ufo, sbrodolatore foioso di minchiate contro li umili servitori dde’l bon Iesù; già, già, certo, se ei fusser sol umìli sclavi del Salvatore, pronti ad addossarse o’fardello della Croce, ad imitazione der Cireneo, a rassembrà l’imago sofferente der Crucifisso, icchè io arei dda dì? Gnente, gnente oserei contrapporre, manco arei da dissentire. Ma senza fissar su portoni dde cattedrali o domi una quarche tesi e protestà menando il pippo e cagionando scissioni, a lo ver dire de motivazione un pochetto economica, ammantata de religioso sdegno, senza, dico, salir sur pulpito e sbraità d’evangelica chimera, io dico: ogni qual volta se impiccian nel non spirituale, nel non religiosamente morale, quanno sforano dd’a fede e si sforuncolano nella politica o nell’etica personale et relativa, mihimet sbattono li cojoni. Detto questo, direte: dù, tre casi, al massimo quattro de soprusi su li pargoli e su li deboli; oh, certo: quinni bastevoli. Ma queste le son mie dissertazioni al de fora del seminato: il Turibio ‘na mattina annava a pijà l’autobus ppe la scola, quanno, passando sotto le finestre de la domo d’o parroco, ei sentì le tapparelle sollevarse, e quinni pensò di tributar lo iusto saluto e buondì al iovine nero-vestito; s’arrestò e attese: libero il pertugio, una mano salì ad aprire le finestre sì da far passare l’aria pura delle primiere ore; quand’ecco che a respirar pieni polmoni non addivenne il petto villoso del curato e neppure la sua ispida barba del dopo notte, ma, a li oculi del Navicella, si svelaron dù zinne e crini bionni attorno diafano volto dd’a femmena ch’ei conosceva e sapeva fidanzata e sur punto de scavallà lo sacer matrimonio. Restò siccome sasso e incrociò il guardo colla barbella dde diciott’anni: chista lo spernacchiò chiosando con gesto e parole: -‘azzo vuoi? Turibio levò i tacchi e svolacchiò tra i mille pensieri alla fermata della corriera. Chisto il seconno motivo; il primiero quarche anno pria: covò a lungo e si schiuse a pulcino poi gallo: il dubbio così cantò tre volte nel suo cuore e si sommò ad altri suoi simili e ruppe il velo della certezza infantile, della fede e della speranza: de la carità no, che chilla bisogna tenersela stretta e mostrarla talvolta il questo monno dde lupi e de tajiole dd’er cazzo. In nuce l’è ‘na cavolata, ad esser sinceri: ma come spesso accade, son i più piccoli particolari che ci sparnazzano il core, e nella picciola ferita passa l’aigua, la si ghiaccia, e al novo calore si sgela allargando ‘a frattura infin alla rottura definitiva, in barba alle colle e allo scotch pissicologico. Ma pria d’addentrarci un poco nell’episodio imputato, lasciatemi rinnovellar il tempo della mia iovine etade e universitaria, quando con conti sodali suggeo il succo brumoso della sapienza altrui e quanno er monno ritonno e le sue quistioni problematiche e lavorative, l’era cosa altrui, e li nostri calli prestavan ovra ai leggeri piedini immacolati di cerbiatte diafane e corvine, e oltre la siepe nessun infinito patire, nessuna morte e degenerazione ancor ghignavan, ma cristalline risate e odorosi sfarfallii di barbelle, passere, di menadi e baccanti callipigie, zinnute e foriere di lievi contatti con brandelli come lacerti di Madonna Bellezza: e noi sclavi ancorché servi, attendavam la stilla come l’arsura la goccia di pioggia. In quel tempo quasi aureo, almen argenteo, ognun ricettava ammaestramenti e poi li condivideva tra bighellonauti, poggiando i gomiti su tavoli di bar, o dello spizzico, magnando a quattro palmenti chi riso e chi pasta, gargarizzandoci dietro aigua non di fonte: io seguitavo etiam historia del Cristianesimo saepe solo, con la bon’alma del profisur, ché voleo raddoppiar ‘l corso e pijà er fojetto allorato proprio con chilla materia; e mi sbrodolavo giù nel cavo orale lunghi sermoni colle palpebre spalancate pure senza gli spilloni: durante la primiera tappa s’affrontò magna cum peritia el Concilio tridentino e la mie recchie stavan all’erta, pronte a pijà succulente e magari pruriginose nuove con le quali pasteggiare e ghignare nel tempo del traccheggio bighellonico. E s’arrivò così alla quistione del celibato dde preti, che pria non l’era regula vincolante ma ciascheduno s’arrabattaa come ei credea; e c’era pure chilla problematica della confessione sì personale che lo stolato el voleà saì tutto tutto, ma prope töt, li particulari sovrattutto, etiam chilli sessuali, e molti nerovestiti se mettean tanto vicini alla fedele che i labbri se sfioravan, figurarse le mani, e i petti, gionto io, libidinoso. E i padri conciliari se scavezzaron le cabezze onde rinvenir soluzioni e limiti: annateve a legger vui, che se ridde! Ma l’è vera cosa, strombazzavan troppo i corvetti del Signür, quinni me parve che non la fusse questione dde vietà i rapporti intimi colle donne, ma dde limitarli. Ma non l’è mai stata prerogativa d’o cattolica mente, la ragione umana e comprensiva: sic spararon contro Natura (già ella ghignaa e ghigna) e scelser il divieto e mal j’e ‘ncolse. Poveri stolati con tutte quelle sottane attorno, chille zinne materne e ballonzolanti, chille menopause e chilli bollori non sbolliti coi mariti rapti dar calcio, d’a caccia al fringuello poarello. E ‘l preticello divien rattamente mastio nella foia feminina, e ‘l dubbio, o ‘l diablo, o la tentassiù ebefrenica, eh, la và mondata, e qual mijor aspersorio dde purezza del subiotto ascoso dalla nera veste? L’omo l’è omo seppur paladino dda fede; e je se rizza, nun me dite dde no pure a illo, e la femena, se la vole, la pija, altro che opposizione stoica. Da cui si penserebbe al gesto umano e ragionevole: lassateli pijà mogliera e che zompino solo con chilla, svuotando santamente le balotas tra le coltri matrimoniali. E che cambia? Mica certo il ministero, la sustantia la sarebbe identica, magari più veritiera; e poi aver ‘na femmena ppe’ baita stornerebbe la nefasta tentazione de le altre passere che le volerebber in altri cieli ppe altre panie, la ce penserebbe la popputa uffiziale a cacciar dal nido le arpie, iovani o mature che le sian. Oh, come son filantropo! Comunque quel curatello se spretò e pijò moije, e fijò, ma non con chilla giovine, ma con un’altra e in un altro paess. No! Il semen che poi germogliò ne la pianta del dubbio nefasto fu gettato nel campo pectoris del Turibio da altra mano e tempo addietro e, ripeto, la vi parrà chiù minchionata che altro. Accadde che al fanciullo gran timenza e rispetto generaa il ciborio colla pisside addentro: quanno accompagnaa il sacerdos a pijarla durante ‘l sacrifizio, il Navicella guataa estasiato chillo che spalancaa ‘l tabernacolo; l’era la luce arancione che ogni volta suscitava un enfiagione nel core iovine suo: già nei primi anni del suo chierchettato s’era convinto che là dentro, oltre la porticina dorata nun c’era solo il sacro e prezioso contenitore di particole, ma Iddio stesso, o la colomba de lo Spirito Santo, almeno. Così non si avvicinava mai troppo a quella misteriosa nicchia, quand’era aperta. Ma un pomeriggio che l’era col prete in sacristia a parare la messa serotina, questi lo chiamò e lo spedì a prender proprio la pisside e gli diede tra le mani la sacra chiave; il Turibio sentì la terra aprirsi sotto le scarpe di ginnastica: ma come aprire quel tabernacolo senza rischiare il furmine divino, il colpo tra le scapole del Dio degli ebrei, chillo che s’incazaa arquanto: e iusto due ddì prima a scola l’era apparso siccome a Lurd un iornaletto con diavolesse prone e suggenti da villosi priapi, e lui non s’era ancor confessato! Ma non si potea disubbidir al prete: omo morto che cammina, se podria dire in chel caso. Il Navicella posò uno dopo l’altro, piedi marmorei da un quintale, insino agli scalini che, in numero di tre, parver centomila, e, tra sudore e tremore, potè poggiare le mani sulla picciola porta aureo-argentea. La chiave nella leva: ei tremò, e mordendo i labbri, l’infilò nella toppa; ruotò dopo mill’anni due vorte a destra, udì il clic: serrò gli occhi spalancando e attendendo il fulmine e la morte istantanea; poi, dato che non puzzaa di brusciato, aprì a fessura i lumi e locchiò timoroso dentro il ciborio: le pareti metalliche riflettean la luce arancione e tranquilla la pisside stava lì, sola e inoffensiva. Ma dov’era il Dio? Assente? Non in casa? Allungò la ritta e la carpì: la stanzetta mignon si mostrò vuota: una luce per niente divina ma molto artificiale stazionava sul fondo: non uno strale. Ma allora, tutte quelle paure? Quel tremolio ancestrale? Frutto di condizionamento pissicologico? Richiuse il tabernacolo e portò il contenitore al prete. Non cambiò subito: volsero nel cielo i soli e gli apolli e le lune, pria che nulla fosse più come prima, e, certo, quell’assenza del cattivo sterminatore dde Sodoma e Gomorra, o del buon pater che ricovra ‘e pecorelle smarrite nell’ovile, quella mancata fulminata der peccatore Navicella… contò molto nel suo cuore ingenuo, e s’assommò a i dissertari del russo epilettico, dei franzesi, del californiano, dell’austriaco, del toscano… e così via, che nulla mai vien da sé o da solo, ma semper in bona o cattiva, comunque compagnia.