domenica 13 marzo 2011

-II-

La tragedia mi arrivò alle orecchie in obliquo: pressappoco a quarantacinque gradi a sinistra, rispetto al dondolo. Non toccavo nemmeno a terra, troppo largo il sedile imbottito, azzurro malato e già prossimo ai buchi; senza la ruggine, cigolava comunque e forse ero seduto da solo quando iniziarono le voci, alte, convulse, disperate.
Un cugino arrivò all’improvviso dal bosco con la notizia che, per me allora, non aveva senso: una pianta era caduta sullo zio, trascinandolo verso una càhia. Manco sapevo che fosse una càhia, e, del resto, a cinque anni che ne potevo sapere, né delle càhie, né delle piante che cadono, né della morte che arriva, nonostante il sole, il caldo agostano, il fatto che fossimo tutti insieme in montagna per goderci una giornata?
Ricordo papà che apparve al cancello e mi indicò; poi se ne andò correndo. Una zia mi stava vicina, mi tutelava dalla notizia di un’altra dipartita, la seconda di uno zio, dopo il mio vice-papà, colui che impresse in me decine di immagini, figure d’archetipi che covo e curo ancor oggi. Ma la sua fu per malattia, per il cuore e io ci persi molto, ancora non so quanto. Come scesi a valle? Non ricordo nulla. Tutto si confonde nel pensiero che era accaduto l’irreparabile; restai sul dondolo, sullo stesso dove poi piansi per il mal di denti. Quando ci sono ripassato negli anni successivi, non mi ci sono più seduto, giusto per non risentire voci di piante che cadono, di motoseghe, di càhie e pianti impotenti. E una mente troppo bimba registrava.

sabato 12 marzo 2011

Memorie di loro non lascerò indietro -I-

La strada si inerpicava allora come ora, petrosa e contorta tra isole e poggi aerei da cui i cacciatori solgono e solevano tirare la loro stupida bramosia di omicidio. Né ricordo l’ora, né la stagione, solo il tetto ceruleo del cielo e il sole caldo. Del fatto che ci si presentò davanti un trattore, ebbi contezza colo scendendo dalla jeep dello zio: ne ero sballottato nei miei cinque anni e avrei preferito zampettare per i prati, sennonché le mie zampette non m’avrebbero portato lassù. Smontammo tutti dalla jeep, senza nemmeno dubitare dell’idea che presta divenne atto e poi, per fortuna, fatto. Io svoltai con la zia e qualcun altro, vedendo la corda e non capendo altrimenti che lo zio manovrava in modo convulso. Ricordo le preghiere, le urla degli uomini e il fragore dei sassi sparati a valle dalle ruote della jeep che facevano un mestiere ben strano: ruotare vorticosamente onde impedire, assieme alla corda, legata ad un capo ad una pianta, tenuta tesa dalla braccia tese nello sforzo degli uomini, e all’altro al frontale della jeep, che questa, scesa nel dirupo in retro, piombasse nel vuoto e si fracassasse a valle con sopra lo zio a pigiare sull’acceleratore. Passò il trattore per la strada stretta con le ruote sulla corda e sciorinò via dalla memoria; la jeep tornò su, per nulla spinta dalle nostre preghiere: ci sono risalito, per poi non salirci mai più nei restanti giri della luna e del sole che io vidi. Piangevano le donne, ma la tragedia non fu quella, sebbene accadde sempre lassù e io, come allora, c’ero, testimone muto per poca età.