mercoledì 29 aprile 2009

VII

La Dottoressa le mette davanti agli occhi una fotografia in bianconero: una porta chiusa, di legno scuro, la maniglia sembra di ottone, un po’ sporca. Uno scalino bianco. “ La osservi attentamente.” Curiosa la psicanalisi: L scannerizza nella mente l’immagine; la terapia le serve, sembra, almeno, servirle; non come dice quel tizio, dedito a abbassare ogni cosa a livello umano, troppo umano e a svuotarla del suo senso. Da quando le sedute sono iniziate lei sente di poter controllare meglio se stessa, di dominare le pulsioni, le sensazioni, persino la paura; sente tra le dita le briglie della vita, ma non è ancora corsa veloce e inebriante, c’è ancora latente il dubbio. Una porta. Un simbolo? Facile. Disagio: qualcosa comincia a sussurrarle dentro; sembra venire dall’interno, dietro quel legno. “Ora chiuda gli occhi!” l’ordine perentorio del medico la coglie di sorpresa e si scopre a fare un balzo sulla sedia; non le pareva d’essersi così concentrata. “Chiuda gli occhi e focalizzi la porta”. L obbedisce. Buio, non totale, ci sono i riverberi di là dalle palpebre; si concentra sulla figurazione della porta. Che voglia farle sentire i Doors? Sembra una battuta e lei sorride. Si inumidisce le labbra e gli occhi iniziano a muoversi da soli cercando di forgiare una immagine. Ora potrebbe vederla, una porta. “La vede?” Lei fa un cenno d’assenso con la testa. “Che porta è?” Già, che porta è? bella domanda. La guarda, con il cervello fissa questa sua porta: le ricorda quella del bagno di casa, non di quella in cui vive ora, ma della abitazione natale. Sì, le sembra quella: quante volte l’ha aperta e ha varcato la soglia? Ma ora è chiusa; nell’immagine forzata è chiusa. Ciò è fastidioso. Le è sempre scocciato il fatto che qualcuno possa chiudersi in bagno, con la chiave. In fondo che c’è da nascondere ad un membro stretto della propria famiglia? La porta è chiusa. Ed ora? “Riapra gli occhi, osservi l’immagine che le mostro e poi li richiuda.” Apre: la porta nella fotografia ora è aperta. Interno di una casa, luci, sembra un albero di Natale in lontananza, giocattoli, una palla, parquet. Richiude. La sua porta è ancora chiusa. Sconcerto. Poi come sempre le accade, la sente arrivare. Sale come acqua dal petto verso la gola; si sente le braccia bloccate, il respiro vietato dall’invisibile forza che stringe in bronchi, inizia a sudare, le palpebre sono incollate, la porta è chiusa, vorrebbe annaspare, muoversi, perDio, muoversi, respirare… il cuore è nella gola e pulsa in un ritmo insensato, l’aorta è nella carotide, vorrebbe vomitare… una mano le si appoggia sulla testa, una mano fredda, dita inanellate, l’orologio le batte sui capelli ramati. Sente la calma ritornare, le braccia farsi molli, gocce di sudore rotolare dalle ascelle giù per i fianchi in barba all’elastico del reggiseno; una prende la via della pancia, la sente fredda verso l’ombelico: strane congetture salate. La porta è schiusa, gli occhi sono ancora serrati. “Apra le palpebre”. L spalanca quegli occhi che hanno pugnalato tre uomini e guarda in basso: il seno si gonfia verso il volto, non sembra di respirare in maniera così profonda, almeno non dall’interno. “Ansia. Cosa c’è dietro la sua porta?” Non riesce a ricordarlo, era solo uno spiraglio. Ancora la Dottoressa: “Dietro la porta di casa mia… i giocattoli dei miei bambini, niente di speciale, sono così disordinati. Ci sono porte in ogni occasione, da aprire, anche se vorremmo lasciarle chiuse. Ci pensi. Alla prossima.” L si alza, indossa in suo cappotto ed esce; la segretaria sorride il suo commiato per nulla speciale. Fuori Aprile rompe ancora le palle con l’inutile freddo. L si tocca la pancia, cerca la goccia malandrina; lì ancora il vuoto. Le si ripresenta davanti agli occhi d’improvviso la porta, la sua, quella della camera da letto nella casa in cui è cresciuta: chiusa, in mezzo alla strada, sul marciapiede, la porta di vent’anni di vita, come uno sberleffo di fantasma, è lì, serrata in una sfida. Perché non è aperta? Perché quella fottutissima porta non si apre? L allunga la mano e sente un crampo in pancia: porta e viscere, sono connessi? Tende le dita della destra ad afferrare la maniglia: bastarda, lasciati prendere! La fitta, ma che è il duodeno?, si infittisce… poi cede, lei cede, abbassa il braccio. Perché aprirla? E se quello che c’è oltre, pensa, e se non mi andasse di vederlo? Se non mi piacesse? Se non ne fossi degna? Ansia. L la conosce, quella paura di non farcela, di non essere capace, di non essere degna. La porta è lì. Poi svanisce: è solo il solito marciapiedi, i soliti passanti con le loro vite, i loro affari, le loro ansie, le loro porte. Si tratta di allungare la mano e non sentirsi più strozzare. In fondo oggi ha alzato il braccio, ha afferrato la maniglia: domani forse l’abbasserà; dopodomani l’aprirà. L sorride; il sudore, bisogna lavarlo via; lei sa che connessione c’è tra la porta e la pancia; aprirà quella porta in culo all’ansia. Il sorriso si distende in un gesto d’amore: M è vicino, stasera si riprova, non si è soli in certi tentativi; forse può chiedergli di aiutarla ad aprire la porta di casa loro: di là, un giorno, giochi per infanti.

A Lori, con tutto il bene che le voglio, e lei lo sa.

sabato 25 aprile 2009

VI

Il vecchio orologio in cucina ha già raggiunto per l’ennesima volta la mezzanotte; all’esterno, sopra la porta, trovano la loro falce orde di zanzare, producendo rumore e puzza tipici dell’olocausto serale. W è seduto davanti al tavolo, al buio, in canotta un tempo bianca; i piedi nudi sul pavimento nel tentativo di carpire frescura. Non pensa a nulla: finita la giornata lavorativa e il pasto, attende sempre la notte senza pensare. Il respiro regolare fa innalzare la pancia lentamente e, altrettanto piano, risiede compressa nell’inspirazione: parrebbe fermarsi per sempre, invece poi riparte e si rigonfia. Così da anni, da sempre, almeno da quando i panini e il luppolo si sono portati via il senso della magrezza. Le mani sul tavolo sfiorano un quotidiano unto: aperto agli annunci, cerchiate in rosso delle finestrelle ove qualche azienda cerca operai. Lavoro, da 30 anni il solito problema. W è sveglio, sente le zanzare crepare senza requie, le auto sciorinarsene via lungo la statale senza senso, la puzza di una stanza chiusa salirgli nelle nari e stagnare; lontana una sirena, anch’essa è un suono comune a tante notti: nella mente di W potrebbe essere sempre la stessa persona ad aver bisogno di un medico, lo stesso pericolo, la stessa morte. Quando non si conoscono i volti, tutto si confonde ed amalgama in una medesima figura: lo sconosciuto; e poi che importa sapere chi ha bisogno, chi rischia, chi se ne va? Ticchetta con l’unghia dell’indice destro: non c’è speranza di ricordare una giornata diversa da un’altra, un evento, qualcosa che abbia rotto la routine; in verità nemmeno lo sforzo di ricordare ha più un motivo. Intorno a W la casa si appresta a vivere un’altra notte, immersa nel buio, certa che domani lo stesso sole di oggi e di ieri si degnerà di scaldarla; e se sarà pioggia, sarà pure più gradita, ma nessuna previsione l’annuncia, anzi l’afa s’è pigliata l’imperio, non si scappa all’estate. W si alza, prende un bicchiere e lo riempie sotto il rubinetto, attento a non sprecare una sola goccia. A piedi sempre nudi esce dalla cucina e s’appresta a salire le scale verso le camere. Quante volte a fatto questo tragitto? Osserva lo stipite della porta: potrebbe accorgersi del tempo che è passato cercando di ricordare le diverse prospettive: c’è stata un’epoca in cui i suoi occhi erano ad altezza molto diversa e le scale erano un ostacolo non indifferente per gambe corte e prive di muscoli. Si appoggiava al muro e un piede dopo l’altro saliva sperperando fatica e tensione: non era mai stato né abile, né atletico; com’è che milioni di scalini saliti e scesi non l’hanno forgiato e reso decente? Il cuore pulsa scorrettamente, il grasso ai fianchi saltella. Su e giù dalle due rampe lungo anni, cambiando statura e mutando tratti somatici, eppure nulla ha evitato la grassezza e l’abbandono della forma. W è fermo ai piedi delle scale: potrebbe vedersi ragazzino scendere a capofitto perché si illude di trovare all’esterno la bicicletta rossa che aveva chiesto a santa Lucia. Oppure sentire il tonfo dei suoi scarponi da lavoro: in fin dei conti i ricordi della giovinezza sono così rari nella sua mente; veloce l’immagine del dovere si sovrappone e così gli pare di avere solo lavorato. Scuote la testa: vorrebbe cambiare mansione da ormai quattro, cinque stagioni, eppure è sempre in fabbrica, la stessa, da mille anni, da sempre, altro che biciclette rosse e amori perduti. Questa faccenda degli amori perduti l’assale sempre sugli scalini: si vede ancora seduto, lì, più su, sul terzultimo prima del pianerottolo, testa tra le mani, due lacrimoni e un panino enorme adagiato al suo fianco. I riccioli biondi? Volati via in una crudele risata. Ora W sorride: stasera niente porno, troppo caldo. Sale, lento, goffo col vetro in mano e l’acqua che tremola. Pianerottolo: si ferma, di sotto si sente il gocciolare del lavandino; dimenticanze, disattenzioni, anche in questo W non sa che ripetersi; gli viene da chiedersi quanti anni abbia: 40, 45, 50, 100, 1000, non cambierebbe poi molto. In effetti è probabile che davanti al tornio, decenni or sono, lui sia morto, senza funerale perché senza cadavere, morto alla vita. Guarda in alto: il soffitto è troppo scuro: a nessuno verrebbe in mente che la luce elettrica sia già stata inventata; l’oscurità è naturale, così come la muffa. Manca un rumore: il rantolo del sonno di sua madre. W sbatte le palpebre e riprende a salire: l’acqua che s’era finalmente quietata, torna a sbattere sulle pareti del bicchiere. I piedi nudi salgono, le orecchie si tendono verso nessun suono. W non s’affretta, forse mamma è ancora sveglia e fissa il soffitto della sua camera: lui arranca verso la cima, poi volta a destra, nel corridoio e si ferma davanti alla stanza che fu alcova dei suoi genitori; la porta è spalancata, il talamo è là, nelle tenebre avvolto, nessuna fiaccola nuziale. Papi è morto da secoli, all’epoca dello sciopero. Domani discuteranno della crisi, in fabbrica: i sindacati sono sul piede di guerra; i proprietari vogliono andare all’est, manodopera conveniente, tanti W come automi, costo minimo, tutto normale. W sorride, a lui poco interessa; potrebbe andare all’est, potrebbe starsene qui disoccupato, potrebbe farla finita. Entrato in fabbrica minorenne, importa poi molto sapere quando ne sarebbe uscito? Il letto matrimoniale è fermo, le coltri pure, il rigonfio che dovrebbe essere sua madre non si muove. W avanza nella camera, lento si affianca al comodino, accende la luce dell’abatjour. Niente. Nessun sussulto. Avvicina il suo volto a quello che dovrebbe essere di sua madre: non un respiro; sposta le coperte, lei è lì, immobile, eterna. Non ricorda nemmeno se le ha mai voluto bene; rimasti soli non c’è stato neppure un vero dialogo. Poi lei s’è invecchiata e infermata; viene una donna tutti i giorni ad accudirla: W manco ricorda il suo nome; la paga, ogni mese, in contanti. W guarda la sveglia: 00:45. Morta. Questo è un cambiamento, la rottura nella routine: la osserva perplesso, come se la morte di sua madre appartenesse ad un altro quando o dove. Che fare? Fare qualcosa, e perché mai? Diversamente da così, le cose, come devono andare? Si chiede, in pochi secondi pratici, se deve chiamare il medico, la polizia, l’esercito, i pompieri: sorride, ma chi mai sarebbe venuto per un’anziana morta di vecchiaia? Bisogna avvisare, sì; ma ora, o domani, che cambia? Invece di andare al lavoro, domani chiamerà il medico, poi si vedrà. Tanto sua madre mica ha fretta. W torna indietro e poi decide di andare verso l’altro lato del talamo nuziale; appoggia il bicchiere sul comodino di suo padre e poi si stende a fianco di sua madre morta. Da basso sale ancora il ritmo della goccia nell’acquaio. Domani si potrebbe chiamare l’idraulico, dopo il medico, s’intende. W chiude gli occhi: nonostante il caldo può dormire, lui ci riesce. Il corpo al suo fianco è in pace, prima o poi ci sarebbe arrivato pure lui ai pascoli del cielo. Per rispetto sarebbe meglio non russare.

mercoledì 22 aprile 2009

V

Si dice che abbia avuto tre mariti, due qui, in valle, uno all’estero durante un viaggio in una imprecisata località esotica. Si dice che abbia passato da un po’ la quarantina. Si dice che abbia rifiutato quattordici richieste di matrimonio, diciotto di fughe, ventitre di amanti propostisi con grandi sacrifici. Si dice abbia due figli ignoti ai più, oltre ai due ufficiali, con l’ultimo marito, quello certo. Si dice che sin da bambina mandasse in sollucchero i maestri recitando Dante a memoria, in piedi, sul banco, gli occhi chiusi e i ricci neri svolazzanti, sebbene non ci fosse un refolo d’aria. Si dice che abbia imparato a suonare il pianoforte in un anno… duro solo per l’insegnante, datosi poi alla dipendenza alcolica. Si dice che suoni il violino alla pari con Paganini e che le sia apparso il diavolo in persona per offrirle il suo regno, sdegnosamente rifiutato. Si dice che giochi a scacchi bendata e le sue Torri siano efficienti quanto Uzi irakeni. Si dice che non abbia mai chiesto nulla, ma che tutto le sia stato offerto, eppure questo non mi torna del tutto probabile, dato che si dice pure che sia follemente innamorata di uno che non è in grado di capirla. Io ebbi la ventura di avere da lei un passaggio in macchina, in una mattina di primavera, andando verso l’urbe. Non la conoscevo personalmente, non è nemmeno del mio paese, sapevo che macchina ha, ma mai, nemmeno nei miei più sfrenati sogni, avrei pensato che si sarebbe fermata a raccogliermi. In realtà manco lo facevo l’autostop: aspettavo al corriera, preso nel mio mondo, osservandolo da un oblò. La conoscevo di fama, e del resto non ci vuole molto; e sapevo, perché l’avevo vista molte volte, che era bella, ma, dio e i serafini mi perdonino, io bellezza più bella non l’ho mai vista. Forse una volta, in discoteca, vedendo una tizia, rimasi di stucco per un buon quarto d’ora. La prima cosa che pensai quando abbassò il finestrino per offrirmi un passaggio, fu che dovevo essere morto, e allora evviva la morte! I neri capelli come nuvola in tempesta, facevano cornice al bianco volto: le labbra scarlatte lasciarono fluire suoni come solo uno strumento diabolico; gli occhi erano dietro due lenti scure: non so perché ma capii che aveva pianto. Non vidi le gambe, non subito: Vostro Onore, in fede, mi creda, non le vidi e nemmeno le tette, ma qui non ho speranza di essere creduto: chi non le vedrebbe? No: sorpreso nel Gabbio intesi la profferta, e come se fosse del tutto naturale, entrai in macchina, al suo fianco. Ciò che ancora oggi mi stupisce è la spontaneità del mio atteggiamento: fu subito come se io fossi suo amico; non mi intimorì, non pensai ai sentito dire, non pensai a nulla: lei ingranò la prima e partimmo. -Dove vai? Sapevo che cantava ma non avevo mai sentito la sua voce: il tono femminile spesso mi stanca in due secondi, il suo mi ricordava il sussurro di una delle tante sedicenti dee del sesso che vanno in tivvù a ciarlare; tanto fumo… invece costei sembrava la cornucopia. Accostai subito il colore del suo collo ad un frutto da leccare avidamente: mi costrinsi così a guardare fuori dal finestrino. Mi parlava, mi raccontava fatti della sua vita, come se mi conoscesse da tempo e io l’ascoltavo avidamente, perché capivo che altra occasione non ci sarebbe stata. Non sono mai stato bravo negli approcci: ricordo che con Chiara impiegai due settimane a sedermi al suo fianco in aula per Italiano uno; leggemmo Parini e dentro di me, il cuore tuonava furioso; avremo scambiato un centinaio di parole. In verità le donne mi annoiano; per quanto trovi una bella, dopo qualche frasi di rito comincio a pensare ad una mosca che vola in una stanza vuota e mi incupisco. Quella donna invece mi attirava e nemmeno l’avevo ancora guardata: sentivo uno smodato desiderio di sapere per chi aveva pianto, perché colui mi sembrava dovesse essere quanto meno un dio greco: perché donne come lei piangono solo per degli uomini superiori. Eppure un barbaglio maligno, in me, mi pispigliava che mi stavo sbagliando. Cominciavo a volerla guardare: ho sentito ancora di donne che vanno oltre la bellezza oggettiva e pigliano a piene mani nel cesto dell’erotismo. Non rispettano i canoni del Canova, nessuno le direbbe mai Grazie: nessuno potrebbe resistere loro. Io ho sempre pensato che Moana Pozzi, Zara Whites, Emanuelle Beart, fossero di tale razza: ho visto ancora di lungi femmine così e ho pure saputo di uomini resi folli d’amore per loro. Mai ci ho parlato. Costei mi rassembrava alle donne d’antichi fasti, di virtù mareotiche, di lupanari, di orge bacchiche. Ascoltavo e guardavo: muoveva le braccia come dirigesse un’orchestra, le dita denotavano lavoro sulle corde; mi toccava le braccia e rabbrividivo di piacere; vidi le gambe: precise, affusolate, spostava i piedi e notai la caviglia sottile: in questo sono russo, karamazoviano, adoro le caviglie, mi ci soffermerei mille anni con le dita. Aveva le calze colorate, nere come fondo, con onde bianche: mio dio, pensavo al calore tra le cosce, alla follia di appoggiare le mie guance e piangere le lacrime di una vita inutile su quel morbido cuscino ebbro di piacere e perdizione. Pensavo a quanti avranno perso il sonno rincorrendo anche un solo secondo accanto a questa donna. Parlava di un uomo scorretto, che diceva di amarla e la respingeva: trasecolai; doveva essere una barzelletta o uno scherzo. Mi incuriosiva tale faccenda, così ascoltai meglio: proprio così, piangeva per un amore schiacciato da qualcuno che la fuggiva e la cercava, ma non la pigliava sebbene se la fosse presa, in senso biblico direi. Beh, chi non se la sarebbe posseduta, lei volendo: ma abbandonarla? Abbandonare questa porta per la felicità, per l’immensa autostima, per la gloria, per l’orgoglio infinito? Possibile? Contro natura, contro la mia di natura. Piangeva di nuovo: mi aveva raccolto per avere una spalla? Le parlai e lei mi ascoltava: una sorpresa ulteriore. Le parlai di mondi in cui rispetto, fiducia, amore, follia, sessualità, godimento, scambio di piacere reciproco, dialogo, verità, sincerità, esistevano, valevano, Cristo, valevano sì! Un mondo in cui qualcuno può dar tutto per avere tutto e volare verso la crescita, verso la condivisione empatica e corporale. Un mondo senza giudizio, fatto di un uomo e di una donna, sullo stesso piano. Piangeva perché questo avrebbe voluto, ma non aveva, e non sapeva comandare al cuore; nemmeno lei, bella come una dea, sapeva ordinarsi di non soffrire invano. Capivo lei, non capivo e non accettavo quel lui. Ogni notizia che avevo su questa donna svanì dalla mia memoria: subentrò la sua bellezza; poi la mente così ben accordata, poi il suono della voce, poi il corpo, immagine stessa del mio desiderio. La città era vicina, maledetta città, maledetta quotidianità mia senza gioia, senza felicità, senza una donna così che mi ami, senza pietà per me stesso, senza il gusto di morire per l’idea stessa di amare. Senza lei. Arrivammo e mi chiese dove scendevo: io mi sarei sparato pur di non scendere più, ma io nella sua vita non avevo e non avrei mai avuto nessun ruolo: le dissi che una sola lacrima per un uomo non in grado di apprezzarla, anche una sola era gettata alle ortiche. Perle ai porci; le dissi e poi si fermò e scesi. –Grazie. L’ultimo suono, in re minore, come la mia vita, in re minore. Ma per un’ora, con lei, altro che maggiore.

venerdì 17 aprile 2009

IV

Ero salito a S in cerca di frescura; nel bar, l’unico dell’antica frazione, quattro avventori attorno alle carte: briscola, ori. Scende il fante di coppe, lo sfracassa il tre del medesimo seme; carico, bum! Ghigni tirati, colpi di tosse, s’è scoperto un gioco. Piglio un ghiacciolo alla menta e la vedo: appesa alla parete dietro il freezer, stona così azzurra sul fondo giallo epatite. Fotografia di tre uomini in barca (senza cane, Jerome, senza cane!), location: Thai. Sorridono, due; cristallizzato in un bercio lui, T. Me lo ricordo bene: la natura arpia lo volle piccolo e storto e bitorzoluto, in difficoltà elocutiva perenne, timido fino alla radice dei radi capelli; se ne arrivò ai quaranta senza conoscere femmina. Poi gli eroi che osarono le mille volte varcare le Simplegadi azzurre delle Speculazioni edilizie, per dirne uno, di contesto, eh!, i baldi superuomini dalle giberne carche di dindi, lo portarono appresso lungo i loro ameni peregrinari esotici e, durante uno di questi, T fu illuminato d’immenso. Me lo vedo rannicchiato, tremante sulle madide lenzuola, ratti i molari a tartagliare brividi salivati, quando, siccome madonna nelle grotte franzesi, lei gli apparve in tutto il suo splendore di-vino (e forse T l’era pure ebbro di Bacco). Lenta e precisa, sinfonica e melliflua, la Pennica veniva innanzi e più s’avanzava, più il senno del tapino s’arretrava. La lieve peluria, tumida al peccato, gli si posò graziosa al fianco, ma, forse, pens’io, furono i turgidi capezzoli (sempre come cerbiatti) a sbaluginare il semplice ordine mentale paesano e a ridurlo ad un ammasso di disarmonici e disorganici conati. Forse la prima volta gli esplose la voglia, mal veicolata, in una bolla di seme biancastro; di certo non certificò penetrazione. Tornato al paese si manifestò nel mio bar camiciato in stile hawaiano, in ciabatte e calzoni corti per nulla in tinta, e come si potrebbe amalgamare siffatte mareotiche fantasie, mi consenta, Giudice Eterno?, che s’era pure d’autunno, come testimoniavano le foglie in vena di suicidi… e appena ingredito urlò: W LA FIGA! Non ci ho mai trovato nulla da ridere. Ritornò in Thai e ne riportò mazzi di fotografie, nelle quali sempre ghignava attorniato da ninfe orientali. invero molto belle. Mi puzzavano alquanto i sodali panzuti, ma zittisco la sferza scottante nelle mani, ché mi preme la continuazione di questo mio caracollare quotidiano. Non sproloquiava: mia mamma ha torto; aveva visto e provato tutto in un colpo ciò che spetterebbe a chiunque in quarant’anni e, certo, l’era una faccenda pesante da digerire ed assimilare, figuratevi cacarla fuori. Ovvio che la malattia fottuta lo colse. Forse venne a lui come Prica di nero vestita, senza falce ma con ventaglio orientale e sonagli alle caviglie perfette benché ossute; forse lo abbracciò e se lo pigliò con la lingua in bocca in un ultimo osculo d’amore. Di certo il Bene và e il Male resta; i sodali panzuti si cacarono nelle brache per qualche anno, eppure ancora calcano questo ed altri suoli; non c’è mai verso che la ruota cambi modo di girare; eppure, quel ghigno, cristallizzato nella fotografia, è teste di onorato piacere e forse fu pure lui, T, per un giorno almeno, Marcio Alessandrino.

martedì 14 aprile 2009

III

La dicono “femmina pubblica”, sempre che uno capisca che vuole dire questa espressione. In verità, i più saccenti usano pure altri epiteti, ma questo è il più gettonato. A vederla potresti avere altre impressioni: guardare il suo elegante ancheggiare, udire il ticchettio dei suoi stivaletti sull’asfalto, notare il brillio nella chioma, annusare l’aroma di essenze esotiche, perderti nell’ondeggiare della gonna, calcolare il nitore del collo o delle braccia. Poi ti sorprenderebbe il ghigno sardonico del saccentone che annuisce, e tra berci e scaracchi, prima sbircia lei, poi fa l’occhiolino a te e ti assicura che quella è una “femmina pubblica”. Abbiamo la stessa età e quindi, almeno alle medie, siamo stati nella stessa scuola, ma la sezione era diversa. Ricordo solo un fatto: in gita, tre giorni in una sorta di monastero, durante una cena i miei presunti amici mi fecero finire al tavolo delle ragazze, così per celia. Non ho mai avuto vergogne o timori di questo tipo, semmai non sono mai riuscito ad intendere per bene l’importanza di certi riti, di certi passaggi vitali, di alcune tappe che ho poi saltato a piè pari. Comunque mi accomodai proprio davanti a lei e ridemmo per tutto il tempo dedicato al cibo: non c’eravamo mai parlati e non ci saremmo mai più parlati, ma non la vidi mai più così bella come quella sera. Sembrava baciata d’immensa Bellezza, e che potesse ottenere qualunque cosa desiderasse: gli occhi non smettevano mai di luccicare e crepitare, le labbra chiudevano e schiudevano la corolla bianca dei denti, la voce non contemplava dubbi. Ridemmo. Di cosa mica lo so. Non sono mai stato innamorato di lei, mentre ne conosco parecchi che ci persero dindi e talleri, cercando di afferrarla e, per giunta, tenerla. Credo siano stati questi tangheri a mettere in giro la voce che lei sia una donna di tutti. Ho sempre questa impressione davanti alle donne belle: giustamente inafferrabili e non circoscrivibili entro limiti umani. Bisogna aspettare che la Bellezza muoia per pigliarle: a tutti gli effetti si tratta di goderne la rosa, almeno dicono così i sapientoni. In lei la Bellezza è morta presto, ne convengo. Io resto sempre in disparte, la mia è una vita ai margini: vedo, non giudico, constato e passo oltre; il risultato è sempre lo stesso. Passa lungo la via e attira lo sguardo di tutti, ma la magia è finita e lei lo sa. C’è un tempo per tutto, e una volta passato, non torna più. L’hanno attirata, blandita, circuita e avuta: devo pur credere che qualcuno l’ha afferrata; l’ho spesso vita su una stessa macchina, entrare in una stessa casa, andare a braccetto con uno stesso paltò. E nella vita due più due, ogni tanto, fa davvero quattro. Ma nessuno l’ha tenuta. Deve essere la sostanza del Bello e del Giusto: non rattenibile. E ciò deve aver fatto saltare il senno agli incapaci, ai duri di comprendonio: se non posso avere, allora svaluto, allora sia l’inflazione. Non c’è bisogno di diminuire il valore di qualcosa: il tempo e la vita ci pensano da sé. Lei passa e non è di nessuno: una volta ci siamo incrociati e mi ha sorriso. Io no: ho visto la morte nei suoi occhi e non sono riuscito a sorridere; in un flebile ricordo l’ho vista dodicenne al tavolo con me, e ho pensato che la Bellezza è davvero troppo effimera. Una “femmina pubblica”? Un'illusione privata.

lunedì 13 aprile 2009

II

È di nuovo il giorno dello spurgo. Madonnina mia, di nuovo. Me ne accorgo solo ora, guardando il calendario, la data cerchiata e il mio disegnino: lo schizzo di un cestino dello sporco e la puzza che sale in ghirigori. Il camion sarà qui alle 16-16:30 al massimo. Penso subito alla scala a chiocciola, già di per sé perigliosa e nauseabonda: mi troverò il tubo risucchiatore tra i piedi, dovrò afferrare il corrimano per non rischiare il collo, dovrò scendere senza respirare, la merda comunque mi trapanerà il cervello. Non è proprio cacca, eh, sono i rimasugli limacciosi delle vasche dove gli operai immergono i calci per essere rivestiti dalla pellicola colorata; l’intruglio si mesce collo scarto delle verniciature, con liquami di dubbia entità. Non è merda, è peggio. Alzo gli occhi verso la vetrata che separa gli uffici (il mio ufficio) dal primo reparto-verniciature: gli african-boys sparacchiano tintura bianca fischiettando; ho cercato spesso di convincerli ad usare le mascherine, pure avvisandoli della possibile loro futura sterilità, ma non capiscono, forse non sanno preoccuparsi; bisognosi di denaro, fanno quello che gli si chiede ignari della giustezza o meno delle condizioni. G mi guardava sempre perplesso, incapace di accettare la mia distanza dal sesso: -ma come cazzo fai quando ti tira? Spalancava gli occhioni e la sigaretta rimaneva a mezz’aria. –beh, uso la mano; rispondevo sempre così, sorridendo. Lui no, non sorrideva: -no, non puoi, non puoi, cazzo, non puoi, non è mica lo stesso, no, no. E voleva prestarmene una delle sue. Questi ragazzi approdati dal continente nero: ho imparato alcune cose dal loro non misurare il tempo; ma non posso metterle in pratica, costretto dal dover fare, essere, sembrare. Il capo bestemmia da basso, lo sento fin qui, come il ghignare delle ragazze al collaudo. Quando sono entrato qui per la prima volta, avevo il sorriso di chi pensa di restarci per poco, giusto il tempo di gonfiare un po’ le giberne. Avrei dovuto contare quel che arriva e quel che parte, tener d’occhio il materiale necessario per tutte le lavorazioni e parlare e parlare… con i clienti privati e con le aziende schioppo-produttrici. Travolto dalla novità e dall’imparare, non ti accorgi dei giorni che passano; finché ti sorprendi a controllare senza ragionare, ad agire senza riflettere e allora il cervello torna a mordersi la coda. Le ragazze mi avevano accolto dubbiose: abituate a femmine incapaci in ufficio, diffidavano dell’improvviso maschio. J non mi guardava nemmeno. Entro in reparto, mi accolgono battute e ansie lavorative: -cosa dobbiamo fare, cosa non dobbiamo; -ma L sa, non sa, che fa? Un orda di banali questioni mi assale. In fondo si tratta di non farle smettere mai, di dar loro il pane quotidiano, il lavoro, i numeri da realizzare, le tabelle di marcia. Io, a volte, spengo tutto: resto sospeso nel vuoto; non voglio nulla, non penso a nulla; poi rientro piano, piano. Potrei gestire attese di secoli, perché, in fondo, il secolo è una serie di minuti. E se sai aspettare un minuto, puoi farlo per cent’anni. Invece questa gente brama l’attività seppure stolida, ma purché non si stia con le mani in tasca… , non importa come, si deve fare; inutile mostrar loro che si può pure pensare, riflettere, sognare, contemplare. Devo scendere a pigliare una latta di acetone: potrei uscire, prendere il Fiorino verde, fare il giro lungo, entrare nella fabbrica dalla discesa per i camion, caricare l’acetone e tornare qui. Ma non mi và. Necessito di distruggere un po’ i muscoli delle braccia e scaricare la mente: affronto la scala a chiocciola in discesa vuoto e in salita carche le mani della latta. Questa mia fissazione all’inizio era guardata come si osserva un folle ubriaco; ora sorridono tutti, dandomi del matto completo. Pensavo: ci resterò qualche mese, poi volerò via, ho le ali io, mica come questi qui, pesanti, zavorrati dalla mente ristretta. Infilavo la Ford nel vialetto alla mattina e ne uscivo alla sera e il sole se ne stava in cielo sempre meno tempo: le maniche corte s’allungavano e spuntavano le giacche pesanti; e fioccava ed io ero ancora qui. Finché una mattina ho camminato nel prato accanto all’ingresso per i camion e ci ho trovato novelli fiori e ho finalmente inteso che un anno era passato e non ricordavo più dove volevo andarmene. Risalgo dalla scala a chiocciola col bidone levato in alto; se mi sbilanciassi farei un bel tonfo, giù in basso, ai piedi della cisterna: ah, sì, oggi verranno a vuotarla; in fin dei conti sono sempre azioni, gesti che si ripetono ciclicamente e oggi i protagonisti hanno il volto liscio, domani la preoccupazione avrà reso la pelle un canyon di rughe. Le ragazze mi ringraziano e hanno nuovi problemi, vecchie questioni. Spesso mi fermo a reggiare i bancali: le mani mi scottano facendo ruotare il rocchetto del cellophane e la testa gira; eppure, quando ho finito sono passati ben 10-15 minuti e l’ora della sirena è ben più vicina. Posso andare alla scrivania a conteggiare un po’ di calci e aste: a riflettere sul meccanismo che ci attanaglia alla realtà. Quando sono entrato qui per la prima volta pensavo che ci sarei rimasto per poco tempo; le ragazze non mi guardavano e sbocconcellavano parole verso la mia persona. Poi tutto cambia piano piano, l’abitudine erode e sgretola lentamente i muri divisori. La sera esco sotto lo stesso cielo di qualche anno fa: ancora mi chiedo quale influenza potrò mai avere sul cosmo, o nel mio continente, o nella lungimirante attesa del Mella. In fondo lo so.

domenica 12 aprile 2009

I

Graffi con il temperino il banco, nascosta la lama tra i gomiti. Siamo uno di fianco all’altro e sento il tuo respiro. Non è ancora il nostro turno: è lento il confessore. Una secca suora rondeggia tossendo con finta delicatezza, stai attenta che non ti sgami: nessuno di noi due avrebbe dindi bastevoli a risarcire il danno. Non riesco a fissarmi su una preghiera: dimentico le parole o le mescolo. Ci riprovo più volte, ma nemmeno sono creativo nella mia fede: chiedo scusa e subito non capisco di che cosa mi si potrebbe realmente accusare. Formulo richieste e mi chiedo perché mai dovrebbero essere esaudite, stanti problemi maggiori sotto il sole, pur sempre giaguaro. Ridi. Sei la solita buffona, le caviglie sottili, ma pure una buffona. La sorella di Misericordia ti locchia grifagna. Pizzico il tuo gomito e mi colpisci. Metti via la lama: assurdamente penso alle lamie, faccio sempre di questi giochi mentali, una parola tira l’altra, come le noccioline. Tocca a te: ti alzi civettuola carezzandoti la gonna perché aderisca ai fianchi. Non ti si può guardare senza intorbidare il senno: io resto ginocchioni e nemmeno provo a chiudere gli occhi per non desiderare la donna d’altri, per giunta invano. O la ragazzina d’altri, perché, per quanto t’atteggi e parli e berci e scodinzoli, come una donna, sei ancora una pupa. Ma quei fianchi sono pericolosi come aspidi. Volti repente nei banchi e sicura ti genufletti innanzi al prete. Maledico la mia mente: la stessa mossa t’ho vista fare dietro al cimitero: mi avevi chiamato piangente, che lui non ti voleva più; io avevo lasciate le carte sperse sulla scrivania e m’ero fiondato con la bici pure contromano. Mi avevi detto che eri sola, che lui se ne era andato e che ti rotolavano gocce amare sulle guance, beh, con altre parole… , mi avevi detto che eri dietro il muro del cimitero: e c’ero arrivato sudato. Di lungi: quella stessa lenta precisione delle ginocchia, quegli stessi sbuffi di capelli, ma avanti e indietro; lui era ancora lì con te, e le sue dita arruffavano la nuvola di rubini. Mi serve una preghiera, una all’uopo, una serie di scuse da presentare all’eterno, perché non so guardarti sennon per desideri. Parli. Ridi. Le tue carole pure col prete. Uomo pure lui. Mi volto per cercare il tuo graffito da teppista: un cuore e due lettere dentro con un più in mezzo. Tutto così banale. Dopo che ti avrà avuta sul serio ti lascerà in frantumi di sogni; ed io me ne starò zitto a pigliarmi i pugni diretti ad altra spalla. Mi siedo. La suora vi osserva: lei sa. Queste sorelle sanno sempre tutto e lo peggiorano dipingendo con tinte forti e nere; o rosse, in bagliori sanguigni. Penso che un giorno ti siederai su una Mercedes e ti lascerai intortire con poche promesse. Osservo i tuoi capelli come cascata di rame e spuma d’oro: so che il tuo occhio crepita, e so che il prete sente odor di zolfo ma non gliene importa granché. A dir la verità, non è che importa mai granché neppure a me, la mia, dico, di perdizione: il non sapere mai afferrare il senso. Mi alzo. Sommare bugie a bugie… una torta di strati di bugie? Esco. Il sole è alto e sbuffa calore. Mi volto: le montagne sono sempre lì, e lì erano e pure saranno, tra un milione di anni, se tutto questo avrà ancora una importanza. Mi accuccio sugli scalini. Non ho paura, non ho mai paura: qualcuno parte, tu partirai. Io resto, io resto sempre, perché non ho le ali, e comunque sarebbe un folle volo.