La Dottoressa le mette davanti agli occhi una fotografia in bianconero: una porta chiusa, di legno scuro, la maniglia sembra di ottone, un po’ sporca. Uno scalino bianco. “ La osservi attentamente.” Curiosa la psicanalisi: L scannerizza nella mente l’immagine; la terapia le serve, sembra, almeno, servirle; non come dice quel tizio, dedito a abbassare ogni cosa a livello umano, troppo umano e a svuotarla del suo senso. Da quando le sedute sono iniziate lei sente di poter controllare meglio se stessa, di dominare le pulsioni, le sensazioni, persino la paura; sente tra le dita le briglie della vita, ma non è ancora corsa veloce e inebriante, c’è ancora latente il dubbio. Una porta. Un simbolo? Facile. Disagio: qualcosa comincia a sussurrarle dentro; sembra venire dall’interno, dietro quel legno. “Ora chiuda gli occhi!” l’ordine perentorio del medico la coglie di sorpresa e si scopre a fare un balzo sulla sedia; non le pareva d’essersi così concentrata. “Chiuda gli occhi e focalizzi la porta”. L obbedisce. Buio, non totale, ci sono i riverberi di là dalle palpebre; si concentra sulla figurazione della porta. Che voglia farle sentire i Doors? Sembra una battuta e lei sorride. Si inumidisce le labbra e gli occhi iniziano a muoversi da soli cercando di forgiare una immagine. Ora potrebbe vederla, una porta. “La vede?” Lei fa un cenno d’assenso con la testa. “Che porta è?” Già, che porta è? bella domanda. La guarda, con il cervello fissa questa sua porta: le ricorda quella del bagno di casa, non di quella in cui vive ora, ma della abitazione natale. Sì, le sembra quella: quante volte l’ha aperta e ha varcato la soglia? Ma ora è chiusa; nell’immagine forzata è chiusa. Ciò è fastidioso. Le è sempre scocciato il fatto che qualcuno possa chiudersi in bagno, con la chiave. In fondo che c’è da nascondere ad un membro stretto della propria famiglia? La porta è chiusa. Ed ora? “Riapra gli occhi, osservi l’immagine che le mostro e poi li richiuda.” Apre: la porta nella fotografia ora è aperta. Interno di una casa, luci, sembra un albero di Natale in lontananza, giocattoli, una palla, parquet. Richiude. La sua porta è ancora chiusa. Sconcerto. Poi come sempre le accade, la sente arrivare. Sale come acqua dal petto verso la gola; si sente le braccia bloccate, il respiro vietato dall’invisibile forza che stringe in bronchi, inizia a sudare, le palpebre sono incollate, la porta è chiusa, vorrebbe annaspare, muoversi, perDio, muoversi, respirare… il cuore è nella gola e pulsa in un ritmo insensato, l’aorta è nella carotide, vorrebbe vomitare… una mano le si appoggia sulla testa, una mano fredda, dita inanellate, l’orologio le batte sui capelli ramati. Sente la calma ritornare, le braccia farsi molli, gocce di sudore rotolare dalle ascelle giù per i fianchi in barba all’elastico del reggiseno; una prende la via della pancia, la sente fredda verso l’ombelico: strane congetture salate. La porta è schiusa, gli occhi sono ancora serrati. “Apra le palpebre”. L spalanca quegli occhi che hanno pugnalato tre uomini e guarda in basso: il seno si gonfia verso il volto, non sembra di respirare in maniera così profonda, almeno non dall’interno. “Ansia. Cosa c’è dietro la sua porta?” Non riesce a ricordarlo, era solo uno spiraglio. Ancora la Dottoressa: “Dietro la porta di casa mia… i giocattoli dei miei bambini, niente di speciale, sono così disordinati. Ci sono porte in ogni occasione, da aprire, anche se vorremmo lasciarle chiuse. Ci pensi. Alla prossima.” L si alza, indossa in suo cappotto ed esce; la segretaria sorride il suo commiato per nulla speciale. Fuori Aprile rompe ancora le palle con l’inutile freddo. L si tocca la pancia, cerca la goccia malandrina; lì ancora il vuoto. Le si ripresenta davanti agli occhi d’improvviso la porta, la sua, quella della camera da letto nella casa in cui è cresciuta: chiusa, in mezzo alla strada, sul marciapiede, la porta di vent’anni di vita, come uno sberleffo di fantasma, è lì, serrata in una sfida. Perché non è aperta? Perché quella fottutissima porta non si apre? L allunga la mano e sente un crampo in pancia: porta e viscere, sono connessi? Tende le dita della destra ad afferrare la maniglia: bastarda, lasciati prendere! La fitta, ma che è il duodeno?, si infittisce… poi cede, lei cede, abbassa il braccio. Perché aprirla? E se quello che c’è oltre, pensa, e se non mi andasse di vederlo? Se non mi piacesse? Se non ne fossi degna? Ansia. L la conosce, quella paura di non farcela, di non essere capace, di non essere degna. La porta è lì. Poi svanisce: è solo il solito marciapiedi, i soliti passanti con le loro vite, i loro affari, le loro ansie, le loro porte. Si tratta di allungare la mano e non sentirsi più strozzare. In fondo oggi ha alzato il braccio, ha afferrato la maniglia: domani forse l’abbasserà; dopodomani l’aprirà. L sorride; il sudore, bisogna lavarlo via; lei sa che connessione c’è tra la porta e la pancia; aprirà quella porta in culo all’ansia. Il sorriso si distende in un gesto d’amore: M è vicino, stasera si riprova, non si è soli in certi tentativi; forse può chiedergli di aiutarla ad aprire la porta di casa loro: di là, un giorno, giochi per infanti.
A Lori, con tutto il bene che le voglio, e lei lo sa.