venerdì 17 aprile 2009

IV

Ero salito a S in cerca di frescura; nel bar, l’unico dell’antica frazione, quattro avventori attorno alle carte: briscola, ori. Scende il fante di coppe, lo sfracassa il tre del medesimo seme; carico, bum! Ghigni tirati, colpi di tosse, s’è scoperto un gioco. Piglio un ghiacciolo alla menta e la vedo: appesa alla parete dietro il freezer, stona così azzurra sul fondo giallo epatite. Fotografia di tre uomini in barca (senza cane, Jerome, senza cane!), location: Thai. Sorridono, due; cristallizzato in un bercio lui, T. Me lo ricordo bene: la natura arpia lo volle piccolo e storto e bitorzoluto, in difficoltà elocutiva perenne, timido fino alla radice dei radi capelli; se ne arrivò ai quaranta senza conoscere femmina. Poi gli eroi che osarono le mille volte varcare le Simplegadi azzurre delle Speculazioni edilizie, per dirne uno, di contesto, eh!, i baldi superuomini dalle giberne carche di dindi, lo portarono appresso lungo i loro ameni peregrinari esotici e, durante uno di questi, T fu illuminato d’immenso. Me lo vedo rannicchiato, tremante sulle madide lenzuola, ratti i molari a tartagliare brividi salivati, quando, siccome madonna nelle grotte franzesi, lei gli apparve in tutto il suo splendore di-vino (e forse T l’era pure ebbro di Bacco). Lenta e precisa, sinfonica e melliflua, la Pennica veniva innanzi e più s’avanzava, più il senno del tapino s’arretrava. La lieve peluria, tumida al peccato, gli si posò graziosa al fianco, ma, forse, pens’io, furono i turgidi capezzoli (sempre come cerbiatti) a sbaluginare il semplice ordine mentale paesano e a ridurlo ad un ammasso di disarmonici e disorganici conati. Forse la prima volta gli esplose la voglia, mal veicolata, in una bolla di seme biancastro; di certo non certificò penetrazione. Tornato al paese si manifestò nel mio bar camiciato in stile hawaiano, in ciabatte e calzoni corti per nulla in tinta, e come si potrebbe amalgamare siffatte mareotiche fantasie, mi consenta, Giudice Eterno?, che s’era pure d’autunno, come testimoniavano le foglie in vena di suicidi… e appena ingredito urlò: W LA FIGA! Non ci ho mai trovato nulla da ridere. Ritornò in Thai e ne riportò mazzi di fotografie, nelle quali sempre ghignava attorniato da ninfe orientali. invero molto belle. Mi puzzavano alquanto i sodali panzuti, ma zittisco la sferza scottante nelle mani, ché mi preme la continuazione di questo mio caracollare quotidiano. Non sproloquiava: mia mamma ha torto; aveva visto e provato tutto in un colpo ciò che spetterebbe a chiunque in quarant’anni e, certo, l’era una faccenda pesante da digerire ed assimilare, figuratevi cacarla fuori. Ovvio che la malattia fottuta lo colse. Forse venne a lui come Prica di nero vestita, senza falce ma con ventaglio orientale e sonagli alle caviglie perfette benché ossute; forse lo abbracciò e se lo pigliò con la lingua in bocca in un ultimo osculo d’amore. Di certo il Bene và e il Male resta; i sodali panzuti si cacarono nelle brache per qualche anno, eppure ancora calcano questo ed altri suoli; non c’è mai verso che la ruota cambi modo di girare; eppure, quel ghigno, cristallizzato nella fotografia, è teste di onorato piacere e forse fu pure lui, T, per un giorno almeno, Marcio Alessandrino.

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