domenica 12 aprile 2009

I

Graffi con il temperino il banco, nascosta la lama tra i gomiti. Siamo uno di fianco all’altro e sento il tuo respiro. Non è ancora il nostro turno: è lento il confessore. Una secca suora rondeggia tossendo con finta delicatezza, stai attenta che non ti sgami: nessuno di noi due avrebbe dindi bastevoli a risarcire il danno. Non riesco a fissarmi su una preghiera: dimentico le parole o le mescolo. Ci riprovo più volte, ma nemmeno sono creativo nella mia fede: chiedo scusa e subito non capisco di che cosa mi si potrebbe realmente accusare. Formulo richieste e mi chiedo perché mai dovrebbero essere esaudite, stanti problemi maggiori sotto il sole, pur sempre giaguaro. Ridi. Sei la solita buffona, le caviglie sottili, ma pure una buffona. La sorella di Misericordia ti locchia grifagna. Pizzico il tuo gomito e mi colpisci. Metti via la lama: assurdamente penso alle lamie, faccio sempre di questi giochi mentali, una parola tira l’altra, come le noccioline. Tocca a te: ti alzi civettuola carezzandoti la gonna perché aderisca ai fianchi. Non ti si può guardare senza intorbidare il senno: io resto ginocchioni e nemmeno provo a chiudere gli occhi per non desiderare la donna d’altri, per giunta invano. O la ragazzina d’altri, perché, per quanto t’atteggi e parli e berci e scodinzoli, come una donna, sei ancora una pupa. Ma quei fianchi sono pericolosi come aspidi. Volti repente nei banchi e sicura ti genufletti innanzi al prete. Maledico la mia mente: la stessa mossa t’ho vista fare dietro al cimitero: mi avevi chiamato piangente, che lui non ti voleva più; io avevo lasciate le carte sperse sulla scrivania e m’ero fiondato con la bici pure contromano. Mi avevi detto che eri sola, che lui se ne era andato e che ti rotolavano gocce amare sulle guance, beh, con altre parole… , mi avevi detto che eri dietro il muro del cimitero: e c’ero arrivato sudato. Di lungi: quella stessa lenta precisione delle ginocchia, quegli stessi sbuffi di capelli, ma avanti e indietro; lui era ancora lì con te, e le sue dita arruffavano la nuvola di rubini. Mi serve una preghiera, una all’uopo, una serie di scuse da presentare all’eterno, perché non so guardarti sennon per desideri. Parli. Ridi. Le tue carole pure col prete. Uomo pure lui. Mi volto per cercare il tuo graffito da teppista: un cuore e due lettere dentro con un più in mezzo. Tutto così banale. Dopo che ti avrà avuta sul serio ti lascerà in frantumi di sogni; ed io me ne starò zitto a pigliarmi i pugni diretti ad altra spalla. Mi siedo. La suora vi osserva: lei sa. Queste sorelle sanno sempre tutto e lo peggiorano dipingendo con tinte forti e nere; o rosse, in bagliori sanguigni. Penso che un giorno ti siederai su una Mercedes e ti lascerai intortire con poche promesse. Osservo i tuoi capelli come cascata di rame e spuma d’oro: so che il tuo occhio crepita, e so che il prete sente odor di zolfo ma non gliene importa granché. A dir la verità, non è che importa mai granché neppure a me, la mia, dico, di perdizione: il non sapere mai afferrare il senso. Mi alzo. Sommare bugie a bugie… una torta di strati di bugie? Esco. Il sole è alto e sbuffa calore. Mi volto: le montagne sono sempre lì, e lì erano e pure saranno, tra un milione di anni, se tutto questo avrà ancora una importanza. Mi accuccio sugli scalini. Non ho paura, non ho mai paura: qualcuno parte, tu partirai. Io resto, io resto sempre, perché non ho le ali, e comunque sarebbe un folle volo.

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