mercoledì 27 febbraio 2008

Turibio(3)

Ma ciò che più gli gustava e titillava l’animo l’era la cerimonia funebre, el funeral: al dondon cupo o tonitruante, pigliava la giacchetta e correva giù dalle scale, sorvolandone dei tratti; lasciava dietro sé la domo e smetteva di frullare le gambette solo sul sagrato. Da quando s’era guadagnato il diritto di reggere la Croce Massima durante il corteo, riusciva a stento a trattenere la soddisfazione, quasi libidine, di sfilare per il paese là davanti, solo, impettito, il sacro legno stretto nelle mani, fiero e sicuro, primo ad uscire dalla stanza delle pie sofferenze, primo a calcare l’asfalto mentre impazienti le automobili attendevano la fine della triste sfilata, primo ad infilare il ponte e a ingredire nella chiesa, traversandola longitudinalmente insino agli scalini, ove attendere il feretro. Poi, finita la celebrazione, ripigliava il simbolo cristiano e dietro la bara, si pazientava sulla sua dose di sbruffi d’aigua santa aspersa dall’amico sacerdote: si ripeteva a ritroso il corridoio tra i banchi piangenti e guidava il secondo corteo, l’ultimo, verso il camposanto, ove, proprio lui, il Turibio dava l’estremo saluto a chi avea fatto il salto. In quelle sofferenti occasioni si sentiva investito d’una grande missione, principiava a fantasticare che senza il suo prezioso contributo, l’anima del poverello non sarebbe riuscita a trovare il giusto varco, o la via illuminata da una luce che solo lui colla sua croce potea accendere: dobbiamo aver pietade d’un ragazzetto che cresceva col ritmo delle celebrazioni, enumerando gli anni in base ai natali serviti, o alle pasque? Forse sì: solo con la cotta addosso riusciva a sentirsi qualcuno, non certo tra le mura malcerte della scuola, ove tiranni in erba pasteggiavano impuniti, esercitandosi nelle nobili arti del furto, del saccheggio, della tortura e dell’estorsione; li incontrava anche all’oratorio, pronti a braveggiare innanzi ai videogiochi o nel campo a sei: ma agile ed esperto, il Navicella sapea guadagnare la sacristia da due, tre ingressi segreti e, una volta dentro le mura sante, l’era securo come sotto ‘a zottana materna, sol un po’ meno riscaldato.

A servire durante i matrimoni c’annava solo per pijar ‘a mancetta, quarche lira dda tramutà in dorci o partite ar flipper, siccome novella transustanziazione: nun je gustava mica, nun riesciva a ccapì icchè c’era d’essere felici e festeggià; dall’altare, a vorte, guatava gli sposini e li locchiava tremolare e sbiancare o arrossire ppe gnente; poi leggevano formulette vote e sceme (per le sue recchie iovini, direi) infarcendole d’errori e titubanze, siccome dislessici embriaghi. Non parliam dei costumi, dei vestiti e dei colori, dei fiori e di quella malnata abitudine di sprecare riso fiondandolo contro gli oramai congiunti: quanto spreco sine costrutto. Smontata la divisa, il Turibio attendeva sempre la fine delle matte sarabande sur sagrato, pijava un vasetto di fiori da un banco per allietare la cucina di mammà, e scivolava fuori rasente ai muri; in tasca stringeva il valsente: accadeva sempre che qualcuno legato ai festeggiati da parentela, s’intrufolasse in sacristia per cercare proprio lui, il solerte chierchetto, e compensarlo per il servizio preciso e coreografico. A volte il Navicella fantasticava sul numero di sue apparizioni nei filmini o sugli album delle sconosciute nozze: lui pallido, diafano nella doppia veste bianco-nera, chissà che figura ci faceva sulle pagine del giorno più bello, sulla pellicola ch’arebbe rimembrato ‘a felicità, o l’errore nefasto, a seconda dei casi della vita birichina.

Un qualche sodale ce l’aveva, ma l’era sempre una questione di legame colla chierchettato, o con la benevolenza e la benedizione della sciura Mari; non v’era periculo alcuno, del resto: preso dalle impellenti tattiche onde evitare i guardi bastardi dei piccoli teppisti della scola o, peggio ancora, dd’a classe sua, mica c’era il tempo di imbastire amicizie con chicchessia, id est con quarche d’uno che non servisse pur’illo alla sacra cena, o al sacrifizio dominicale. Eppure c’era da spassarsela anche così, a saper valutare ben bene le cose: come dimenticare le belle partite durante le pause delle celebrazioni maggiori, tipo ‘a notte de Natale, quanno il Turibio e il suo amichetto rientravan nella sacristia e, svotato il lungo tavolo dalle amenità sacerdotali, usavan il panno verde siccome casereccio biliardo senza sponde: armati di sfere di ferro, s’affrontavano a chi pijava chilla dell’avversario pe’primo, cozzandola e spedendola nel baratro… meglio nella mano del perdente, ratto ad afferrarla, pria che l’improvviso botto in terra tradisse il ludico passatempo. Talvolta la rendevano più difficile, la sfida, piazzando i lumini rossi, financo accesi che l’era scenografico al massimo, come ostacoli da non pijà dde sponda, pena perdita del diritto di tiro, a favore dell’altro che così potea a sua volta spedire la biglia al creatore e vincere. Oppure giuocavano colle figurine dei footballers, facendole precipitare a turno dall’alto del tavolo verso terra sì da covrire chilla precedente: chi falliva perdeva il malloppo. Scorrevano così ratte le ore, tra una mistica uscita nella chiesa per servire e partite rapide e furminanti: pure nelle sortite con i sacri attrezzi del mestiere der chierchetto, lui e il sò sodale, non perdevan occasione per pungolarsi coi gomiti, ascosi agli occhi del popolino, certo, dicendosi: -poi te la fò ppagà, -poi me vendike, -se edom dopo stronss, e altre amenità birichine. E come tralasciare li ovi cioccolatosi regalati ai chierchetti dal prete a Pasqua o il vin bruè nella Santa Notte, finita la messa, fuori, tra sagrato e ponte sur fiume Mella?

Ma non riuscirono a farlo catechista: né la mare dignitosa nella sua fede corallina, né il sacerdote direi educatore. Vinse sempre la timidezza… del Turibio; ma pure le prime letture ascose ai lumi materni, pagine altrimenti vietate, di spara-bubbole americano per inizià, e di giocatore epilettico russo, per finì, o per prizipiar il tracollo verso l’inettitudine onanistica. A diciannov’anni il Navicella avea già maneggiato libri apti a menti più mature, o più abili a divincolarsi tra reale e surreale, tra pensiero che serve, e chillo che si pensa, tra indottrinamenti saggi e nichilistici voli pindarici. Non li capiva del tutto, manco in parte, eppure sentiva che je parlavan, che je svelavan oscure trame che solletticavano la solitaria sua mente, che c’era una strana affinità: ma quanno i penzieri sforavano esageratamente dall’ortodossia etica e morale inculcatagli, il Turibio trasecolava, eppure non recedeva. Ma altro fu il dramma che pose fine alla fede tanto cara e al servizio in chiesa. L’era già un anno che non indossava più la cotta: la mamuska s’era consultata coll’amico corvetto e s’eran intesi che la fosse ‘na devianza tipica dell’adolescenza, da tollerare con benevoli sorrisi, perché la pecorella smarrita avrebbe ritrovato la retta via, e rientrato nel gregge il fijolo arebbe preso decisioni più importanti, arebbe capito che ove la c’è la carità et l’amore, ivi v’è Iddio. O cose così. Magari, disse il prete, al colmo d’estasi pissicologica, da gran pedagogo, magari el se sares decidit aa cciapà el vestit, aad’annà en semenare e diintà prett a sò olta! E la madre chilla sera pianse calde lagrime, e perdonò le calcistiche bestemmie e i rutti innanzi alla tivvù, del suo peccator marito.

Altro che vocassiù, altro che seminario, altro frullava ppè capo del Turibio: dubbi atroci avevan rotta la sottile barriera che ancor resisteva alle tarme russe e americane (che ce s’era messo pure un austriaco scampato a’autoeliminazione manu armata, e sproloquiava dde omo argilluto scorazzante per Praha, sive spirito, e di cappelli, e torri d’a Fame, ed ecs-attori dalle mille sembianze, e pinguini e bimbe rosse, e via dicendo, che lo dovreste leggere, o’minchioni!); altro avea sbracato le quattro certezze del giovine, e parte per colpa del prete stesso, parte del sò collega, ‘o curato, iovine e troppo senzibile alle coscette imberbi. Vi dirò.

venerdì 22 febbraio 2008

Turibio(2)

Ei stette, siccome immobile, rischiando di dare il mortal respiro: con quella cartolina in mano raggelò eppure, brancolando come un ubriaco, gli parve d’esser come colui che da sottacqua volge il volto alla superficie, muove le mani e s’approssima al vetro distorto e gli pare che il cielo ondeggi e le nubi si confondono con le onde morbide; poi, certo di sbattere la testa e più non rivedere le stelle, stantuffa colle gambe e un ultimo sforzo lo proietta fuori, lasciando improvvisamente libera la bocca di spalancarsi, di sentire il sale marino, di ingurgitare un ultimo sorso: ma il sole biondo è di nuovo lì, i polmoni riprendono fieri l’usato ritmo, il panico scema… e nel trapasso dall’opprimente necessità di respirare alla quieta normalità, gli pare d’aver intravisto la vita. in sé, il senso ultimo del brancicare quotidiano, il succo polposo ascoso all’inanità dozzinale. Nel breve volgere d’attimi, a Turibio era parso di sentirsi per la prima volta vivo; quella cartolina indicava un improvviso pericolo, la frattura nelle cose, la smagliatura ove lancinante filtra inusitata luce; immantinente il pensiero di mammà da render certa del fatto l’avea terrorizzato: sicure lagrime come da fonte, singulti aritmici, gridii isterici, probabili svenimenti o simulati: l’ascosa bravata ora diveniva nota, il nodo giugneva al pettine della sorte, non si potea oramai più fingere. Pochi anni pria, il Navicella avea informato la genitrice del suo istato di –riformato- alla leva, alla visita vojo ddì. Invece, seppur di terza, l’era dichiarato arruolabile, ed infatti ora la Patria bussava alla sua porta ed esigea in tributo, l’annona, i dodici mesi, la naja, ‘l servizio militare. Non se potea rinvià, tempo un mese, maledette ragnatele burocratiche, solo trenta giorni di libertà ancora, e si partiva per località dolomitica. Si trattava ora di passare sul corpo della mammina, più che di affrontare le paure personali.

La sciura Mari s’era occupata diligentemente dell’educazione del sù fijolo: seconno la sò prospettiva, s’intende, mica la mia o la vostra, guaglioni! Ciascheduna mater ce se mette de buzzo bono nell’edificare il pupo suo, sì vuole la Natura; quanno arriva lo svezzamento, però, la si dimentica d’osservà li prinzipi naturali, appunto, e il pargolo resta tale, cioè remane il mì fiöl insino ai quaranta e chiù anni. Il mastio, il pater familias, ha da pensà al laurà, ai dindi, agli sghei, alle rate, al frigor, alla televisiù, a’machina, alle tasse… e a qualche inseminata bianca tra le lenzuola sfatte, o anche no, se ne pode fare pur ammeno, de chillo, ma non dei zordi. Il capo Navicella se ne sbattea li cojons dei prinzipi edducativi dda donna sua, preso dal lavoro, dalla calvizie, dalla incipiente panzetta, dalle cosce a pagamento delle slave iovini e callipigie: in più, quer moccioso succhia moccio, je parea smidollato, rinseghito, quinni portasse pure la tonachina dda preticello a dec’anni, o andasse a postulà offerte pp’a parrocchia, che gliene sbattea a lui? Purchè non lo rinvenisse un dì a pijarlo en’kul, o a vestirse siccome li ffrichetton, allora sì che illo pater arebbe mostrato le zanne e il bastone nodoso ben arebbe carezzato il groppone dello scostumato degenere, oh, allora sì che j’arebbe mostrato la retta via, altro che retto libero. Quindi il Turibio imparò l’abbiccì sul breviario e le preghiere iniziaron a sfarfallargli nella testa, e tra misererenostridomine e avemmariagraziaplena non distingueva un senso, eppure je gustaa el ritmo, il dindondio del latinorum siccome formule magiche, come misterioso gli parea semper quel sangre mutato in mareotico, chillo pane in corpora, ma quel che lo sconcertaa era quel sole retto nelle mani dell’amico della madre, così gloriosamente esposto al guardo del popolino, tanto glorioso che il parvulo Turibio arebbe giurato di vederce sfavillà ‘o raggio laser della bontà divina, come arebbe messo la mano sur foco per santa Lucia portatrice di presenti e macchinine elettriche. A sei anni entrò nel corpo dei chierchetti, come vice-aiuto-candelabro, scalando ratto, in virtù d’alta protessiù, inzino a Destro all’altare ufficiale, e Turibolo perpetuo.

lunedì 18 febbraio 2008

Turibio (1)

La cartolina giallognola lo colse mentre esciva dal bar Centrale, Cocacola ferente, e s’apprestava ad ingredire nell’edicola accanto alla sua modesta tana, onde poder rinvenir, cum cioia et letitia, l’ultimo numero de Ratòn, fumetto suo preferito, narrante le gesta eroiche, non di scuòpellediluna, ché kille l’eran erotiche, alla facciaccia del canzoniere sessuofobico et papalino, le imprese, dicevo, d’un super-investigatore misogino, nihilista, probabilmente leniniano, ma non oserei siffatte opinabili definizioni, con un zinzinin di misoginia, il che non guasta mai, ma soprattutto dalle fattezze da pantegana, d’o ratto dde fogne, da cui, appunto, Ratòn. Massima concessione della mamma sua, che confondea le copertine e non la sapea discernere tra il filosofò chiavico e sbrodolante improperi (oh, certo, mai nella prima: lì, al massimo, gestacci) e cachinni de retro al kul, verso il mondo pleno de gente, e l’orecchiuto sorcetto nato dalla mente antisemita d’un stelleetstrissie pp’a pija per culo, e pinto come pasticcione et inconcludente, fattosi però saccente, abile, infallibile, puro e scassaminchia, direi, nelle avide mani dde nasoni, grandi sfruttatori delle masse bimbe, me compreso, che pupo nun lo son kiù. Dal che si potea importare nella domo il fumetto iscandaloso, sine generar vagiti e sbraiti della pudica mammina, e sine dover rinvenire una latebra ove celar le amate pagine: tutto ciò nonostante la maggior etade la fossa già stata giunta e valicata da un anno, siccome l’era teste proprio quer fojetto che ‘l solerte e ghignante postino, gli porgea, sì da evitar di scavallare giù dalla Vespa grigia, guadagnando secondi preziosi per il pirlo mattutino. –L’Esssercito ‘l ta ciama, ekulat, te set apposto, figù! Queste le amene parole sciorinate come perle dall’amabile statale, inframezzandole con cachinni e berci e score, sue e dd’a motoretta sua in fase di ripartenza.

Turibio Navicella prese tra le dita la cartolina e, più udendo killo sfaticato, capì il dramma: la lattina rosso-babbonatale sfuggì dalla presa ormai malcerta e piombò sull’asfalto spargendo zuccheri e bollicine; ratto (aggettivo stavolta) Giano Bifronte, o’viggile, fischiò e, abbandonando l’intenzione appena sortagli di multare la fica ch’avea abbandonato il suvve suo in mezzo alle balle, si iettò dinnanzi al tapino e, dopo scossoni reiterati, gl’appioppò una bella contravvenzione per inquinamento del suolo pubblico e per inverecondo spettacolo di disamore patrio. Tutte fregnacce: Turibio già pensaa ai lamenti, ai gnegnè, ai vagiti, ai latri, ai ohmemisera, della mamuska sua moritura, securo com’er furmine; dd’a Patria da zervì, nun gliene importaa una beata minchia.

Non è mia intenzione menare il torrone narrando dell’infanzia del Navicella, così magari da dare la stura a pomposi ragionari degli pissicologi bramosi di rinvenire la radice della sua natura solitaria, o meglio, dell’incapacità del Turibio di maturare una personalità definita, persino estroversa o anche esuberante, nel rapporto morbosetto colla madre; a lo ver dire, mi pare difficile rinvenire, nella nostra verde terra d’Ausonia, un qualche maschietto che sappia dir di no alla mammuccia sua, che la possa contraddire, finanche nell’etade adulta, figuriamoci in quella bambina, o post-bimba, pre-adulta, come volete. C’avea diciannov’anni il Navicella allora: embè, sì, el dovea esser ometto, invece je serviva anco la zottana della genitrice, sotto cui sentirsi cucciolo protetto. O voi che vi pensate omini fatti, ante o appena post il maggiore genetliaco, ma andate a contarlo ad altri, et nun al sottoscritto che ne vide de bipedi piagne con la barba non chiù pel-pagàt! E per un tantinello d’amore per la narrazione, chiarirò in breve volgere d’un qualche periodo, sì da non tergiversare e rompere gli zebedei: nacque, il Turibio, da famigghia piccolo borghese, figghio unico e alla mare serrarono le tube post partum; i parents avean già zompato oltre i quaranta, e le fiaccole nuziali, accese dec’anni pria, già più non ardean: eppure riusciron a procreare il pupo, e, appena nato, versaron calde lagrime sul fantolino. Ecco, foiosi et libidinosi i miei quinque lettori, ve lo dirò: chilla bboce dde curridoio, che la vuole essere il Turibio non figghio del pare suo, ma del prete del paess, nun me trova concorde: c’è della ferina simiglianza tra genitore e generato, ma, certo, il tutto si deve alle sgargarizzate vinose del vecchio Navicella e alle sue invereconde bestemmie e soprattutto alla lodevole fede della mamuscka, donna fidata davvero del sacerdos, umile ausiliaria nelle quattro mura del tempio paesano, vice-Perpetua, leggitrice affettata delle Sacre Scritture dominicali etiam feriali, tessitrice delle amabili trame reggenti le feste de li santi Patroni, mungitrice delle tette dei fedeli contribuenti alla crassa salute d’obolo, inzomma, donna usa a frequentare la Parrocchia. Il vecchio, pigliato dalla ragnatela alcolica, soleva inveire contra la mogliera sua, rea di tenerlo a digiuno dde dindi tintinnanti, nonostante lui fosse unico procacciatore di medesimi, et invece la donnacchera li sparpagliava in sacristia o dietro al culone del figghio suo e di chillaltro. Appunto questo chillaltro reiterato dall’avvinazzato cagionò i pissipissi. Bah. Poi voi, bramosi di iscandoli, come lupi della steppa, mannaggia Hesse, fate pure li vostri cunti de li conti, ide est, fate e pensate come volete, ma queste nefande vicende non entrano nei miei ragionari. Che la sciura Marì la fosse donna timorata, basta il nome del figliuolo: ella scelse addirittura Turibolo, poiché la si voleva pensare come una maternità ove il profumo d’incenso che lei spargea per la domo sua avea giuocato un ruolo principale: ma, all’atto del battesimo, il saggio corvetto nero avea informato la sua collaboratrice che chillo non l’era appellativo corretto e approvabile; ma se potea mutarlo in Turibio, dal vescovo Turibio della città de Novocomi, sotto il Serruchon. E fu così che il pupattolo entrò nel consorzio umano et cattolico.

martedì 5 febbraio 2008

L'Oreglio (fine)

L’entusiasmo dell’uscita dde baita, del pollice in alto, dello stridìo pneumatico del generoso di turno, dell’insegna intravista attraverso i frondi, dell’ingresso sognato atteso e trionfale, scemava ratto siccome freccia scoccata giugne al bersaglio. I sodali s’appropinquavano semper al bancù, ppa pija ‘na birra economica, e poi prinzipavan il vuoto circolare, lo speranzoso strascicare del corpo, spintonando e ricevendo spinte, odorando ascelle e, allora l’era ancora consentito, aspirando fumo passivo, e ogni odore e lezzo si fondeva e in risultato fendeva l’aere sìppoco ossigenata. E il caldo si facea ogni istante più molesto. Giravano attenti, come presi da urgenti questioni, eppure determinati a non farse sfuggì ‘na mosca prezzolata. Ci vollero anni e lire sperperate ppa capì icchè nun v’era neent che fuiva, che nun fosse iam iam fuito, giù dal sifone del non essere capaci di proferir verbo, figuriamoci abbordare ‘e passere. Finché poggiavan il culo su qualche divano, o cadrega, o scalino, e le ore passavano lente e stanche, e le recchie prinzipiavan a produrre un fischio ch’ognun di loro sapevan capable di rompere i coglioni fino alla sera del giorno successivo. Ma da poggio o dal seggio ei potean mirar lo spectaculo umano, feminino, ferino, beluino, degli assalti, dei tentativi, dei successi, degli scorni, dei basci, delle palpate, degli strusci, delle copulate, dei tracolli di sudore, della saliva transeunte, dda famigghia nascente, d’o matrimonio in nuce, dda ruina dei parenti intesi genitori, futuri nonni di pargoli segnati nella psiche dall’imbecillità di chi nun zà trattener la foja libidinosa e lo seme biancastro, dde lo circle of life. Il più gran fascino della tragedia, lo spettacolo dell’omo interiore, la vita umana, la realtà che si vede, gli uomini che non si voltano, figuriamoci ‘e femmene. E tutto con invidia. Io, da par mio, già all’epoca lo capivo il meccanismo, eppure non mi ci sentivo partecipe, e mi parea dde stà a lo zoo, ma io bestia in gabbia, e loro, li eroi del mondo moderno, dde fora a vivere, o a illudersi dde vivve.

Quindi l’Oreglio, ormai scafato di ‘sti meccanismi, costrictus alla Disko, s’era subito seduto, come v’ebbi modo de narrà pria de li miei liberi e vacui dissertari; che bisogno c’era di farse venì li calli ai piè girando a voto? Mejo poggiar le chiappe e tentar di goderse ‘o spettacolo. Permettete allo vostro umile narratore ‘na digressione dentro la sua inutile opinione, almeno nell’economia del moto terrestre. Ve volevo dda dì che son sollevato di non essere padre d’alcun fijo o peggio fija, ch’alla mia etade l’è mica cosa strana l’essere già stato donatore di sperma e procreatore, semmai il contrario, id est, l’essere solatio. L’è che ‘uso contemporaneo de comportarse, vestirse, uscì, parlà, pippà sigherette e spini, attaccarse al paino, zompà pria della stagione alta, strascicà corpi precocemente sfatti, li usi e costumi, inzomma, della iuventù der monno moderno, mi schifano. Certo, paio babbione, ma non sproloquio dde mores maiorum, che nun me frega ‘n cazzen, ma, or qui, miei cari, qui c’è qualcosa che non va: id est, va totus bien, almeno a stà ad ascoltà la tirannide consumistica, ‘o verbo dei Masters, li dominatori dde Universo, coloro che vollero, pianificarono e ottennero ‘na generazione dde cojoni, abili a sfascià tutto, desiderà, sempre er novo, voto pejo der viejo, piegati a tener dietro al fiato di vento che or vien quinci e o vien quindi, a seconda del volere di dù, tre, tangheri, nani dde Mediolano, sbrodoloni a stelleestrissie scambianti calici pleni d’oro nero, luridi i calzari di sangre di miseri innocenti, ostie sull’altare dell’Economia: per non aggiungercene dde altri, che spandono verba a ritta e manca, pijando per mogliere ecs-modelle, sorvolando su eiaculazioni dde sotto ar tavolo che me fecero ridde arquanto, su debbiti dde re e reggine e dde squadre dietro ar pallone rotolante: vollero un monno incosciente e ratto verso ‘a ruina, pur d’aver guadagno oligarchico, massone, settario, nasone, poltrone, gobbo, nano, pelato, dde cowboy di ranch ove mucche da mungere semo noi, cco tette sempre più stricche, latte privo dde principio basilare d’o nutrimento. Lo so, me incazzo ppe neente, così va il monno.

Ma torniamo alla gioventù. L’Oreglio l’osservava attraverso il filtro inquinato della sua mente, eppure anche lui avea sempre la sensazione di essersi perso un qualche passaggio logico: alcune di chille bimbe che sarabandavano su quella balera, le potean benissimo essere fije de chille giovini dietro cui sbraveggiava nel tempo dei cavei lunghi e unti di gel; ma prodotti avariati seppur appena generati, dico appena, in proporzione colla durata media della vita; ne guatava i volti, sicut maschere, narici dilatate, occhi strabuzzati, e bucca distorta in ghigno: queste le menadi moderne? Il Carcassa vagliava le immagini giungenti al suo cervello con stanca perizia, scartava ciò che una volta avrebbe conservato gelosamente, gettava jpg mentali siccome da bimbo le figurine doppie ch’oramai nessun amico volea scambiare: poi si bloccò su una biondina, a tagliarle la testa, pochi anelli, forse quindici, magari diciassette: che c’era da immaginarse quocirca il suo corpo? Rattenuti in poca stoffa, pregevoli seni tambureggiavano un ritmo insensato, una stoffa risparmiata cedeva generosamente brandelli di chiappe e lunghe gambe seguivano ritmi tzigani ignoti alla folla e al dj. Che ci faceva lì? Su che frequenze viaggiava quella barbellina? Socchiuse le palpebre senza più nemmeno sognarsela come un tempo, senza nemmeno più chiedersi chi se la sarebbe pigliata, la rosa: l’Oreglio era stanco.

Gli scivolarono le chiappe in basso, affossandosi nel divano: chiuse le palpebre com’ha riflettere sull’incipiente emicrania; le riaprì: folti ricci su scheletrica magrezza, bellezza d’attaccapanni su passerelle sognate tra le luci dello sfarzo: corsia d’ospedale e flebo zuccherino ché le poche stanze traboccano ipocondria. L’Oreglio ripensò ai dorci anni dell’incoscienza; quanto è duro rimembrar le picciole gioie fuite nel patire presente: lei al Casapazza danzava altera nel nylon diversamente pinto, su tacchi come trampoli, effluviando cogli aurei crini; allo Studio ci passava per attimi, lasciando attoniti gli sfigati astanti, tra i mille lui e il suo folle piano per avvicinarla e respirarle accanto. Ce la fece, per gli dei dell’Olimpo, ce la fece: ad un table di chilla disco ormai defunta, il Carcassa alticcio le parlò d’amenità e giorni dopo più non seppe salutarla, passeggiando sul limen del catulliano lago, dacché non l’era in grado di ripigliarne il nome nella nebbia della sua memoria. Agguantò invece l’orrido, locchiando in una delle solite sere vacue, una venditrice di sé uguale uguale a quella bionda principessa sul pisello: ci pensò e ripensò le mille volte, poi lesse su carta petroliata, la copia slava essere finita splattata sotto i pneumatici d’un camion. Fu la fine d’una età, dd’a stagione delle mele o pomi, traversati da vermi cicciottelli. Ancora gighe e sarabande, triglie e quadriglie scomposte, battere di piedi e sbracciarsi nel fumo colorato sputato da un qualche tubo nascosto: il Carcassa triste levò il moribondo corpo e andò a cercare il Lupo: fu in quell’attimo ch’udì lo strillìo dd’a belva e mille squittii e subiti interventi di buttafuori eruttanti proteine e creatina cum carnitina; l’Oreglio intuì ‘l pericolo per il vecchio conoscente, un tempo sua salvezza: tre nerboruti ercoli già lo strascicavano dde fora, e chillo urlacchiava indomito; il nostro ebbe certezza d’una ch’avea le chiappe morsicate, ma non troppo, in verità le mancaa ‘n brandello dde jeans e uno picciolo dde perizoma rosso: infine l’Omo avea tradito le sue origini belluine e avea ceduto al morso. Con granne sperpero dde rassicurazioni, il Carcassa riuscì a calmare i gorilloni e a renderli certi che proprio lui arebbe portato via il bestio sgagnante. Lo trascinò alla car, lo cacciò dentro e, messosi al volante, pijo la via verso el paess mentre il Lupo narrava il suo punto di vista mescendo lacrime e parole.

Era già l’alba che volge al disio quanno i nostri navicanti giunsero al paese: l’Omo perso con Morfeo, l’Oreglio scornato, stanco, rabbuiato, sfinito, sminchiato, piantò la macchina e la belva dinnanzi alla casa della mamma del Lupo, senza curarsi del sonno dell’amico se ne andò a piedi, barcollante, tremante e affamato: lontana nella sua testa palpitava un’idea, ma non riusciva più ad acchiapparla, come tant’altre volte la realtà avea schiacciato i suoi propositi, buoni o cattivi che fossero. Un piede dopo l’altro, Oreglio Carcassa raggiunse la sua parvula domo, pijò la chiave e senza far rumore, onde non destar i parenti suoi, v’entrò, si levò i vestiti, e, rimembrandosi di botto d’essersi lavato il cocò con entusiasmo pper impresa desiderata alla corte delle rumene, intuì l’ennesimo fallimento e, dentro la salvietta ppe ‘culo, ascose le calde lagrime.

domenica 3 febbraio 2008

L'Oreglio o dio delle città e dell'immensità

Caricato a molla dall’ultimo successo dei Jefferson Airplane e lezzante dopobarba e boro con talco, Oreglio Carcassa escì da la sua parvula domo pronto e convinto a brandire il fratello di mille solitudini con la bischera rumena del volantino: che volantino me chiedete, o curiosi e foiosi lettori? Oh beh, pur’io lo ebbi e lessi, ma dacché i’mi son un che timor fa pusillanime, lo cestinai immantinente: l’Oreglio invece no, lo studiò magna cum peritia e dopo tre riflessioni più una sul trono bianco che pronto accoglie corporali doni, il Carcassa decise che pure lui dovea profittare del mercimonio che parea celarsi nella candida villetta e nivea, laggiù, en font al paess de’mei nedai, e pure di chilli de l’Oreglio.

La sera precedente, alla solita bettola, il Carcassa avea fatto certo il sodale Seibella di questo suo progetto: estratto il famoso volantino, proferì securo come ‘n treno: -se ci van li pennacchi, in borghese sive divisa, e non pagano dazio cò ‘a Legge che pur’illi representano, anzi, que (tipico suono d’un paese propinquo al mio, ove l’Oreglio lavorava), (e puntava el ditone sul foglietto) que ce se vanta, inzomma, que stan iscritti li nomi de li pennacchi e della pulcella rumena, che là zo en font al paess, la mola la prugnetta per pochi zordi. E quinni che me trattien dal naga po’ a me?- E coloriva la mimica del dito e della bocca con sonori fischi quasi ragli, cavati dalla gola sua oramai secca di vino. Il Seibella chiese timido: -ma ela bela? Qui il Carcassa movea le mani facendo intuire davanzali popputi innanzi, forse un po’ esagerati e spingea le labbra verso il sodale come a volerlo basciare. Il tappo amico dubitava delle grazie rumene, ma se ci andavan li pennacchi, aggratis come guiderdone per il silenzio covrente il mercatino uterino… lor signori mica andrebbero con un, una… e me se capisce senza esempi. L’Oreglio a braccia conserte annuiva gonfio come un tacchino rococò, e gluggheggiava anche, ostentando l’ostensorio del coraggio di rado esibito avante. Ma, perdiana e bacco, e con chi l’ostentava! Il Seibella mica per neent l’era ciamat isè! A qualunque rappresentante dell’altra metà del cielo, che la fosse bella o meno, questo piccolo ometto, sapeva solo dire, paonazzo dall’emozione:-ehi, sei bella! e si sgonfiava appagato dall’orgasmo delle sue stesse parole.

I due sapientoni avean lo stesso numero di cerchi, se sezionavi loro il cranio in orizzontale. L’eran cresciuti insieme, facendo le scole e ‘l catechismo, e mentre l’Oreglio fu alpino, il Seibella ebbe ‘l congedo per manifesta tappaggine, o dabbenaggine d’un tappo. All’oradore ei cognoverat don Zench: di questo fine educatore della scola di don Bosco, rimembro un episodio edificante; noi s’era ancora alle medie e durante la quaresima s’era andati in simpatica gita verso el Gölem, montagna sacra che in quei dì già accoglieva camminatori in una primavera in leggero tiepido anticipo. Ed eravamo tutti seduti davanti alla baita d’un malghess e ridevam del più e del… meno male le ragaffe non c’erano. L’era il mezzodì di venerdì e il conducente mucche, tirò fuori dalla sua tana un bel salamì profumato, e sulla tavola, tagliere e coltello, lesto facea fettine. Noi timorati guardavamo il male agire e tentarci, eppure il nero educatore s’appropinquò al malghese e ratto carpì un panino e abbrancate due-tre fette d’ex porcellino, el magnava a quattro palmenti. Noi si dubitava alquanto della santità della faccenda; il saccente stolato, si voltò verso il nostro timore e ci rassicurò: -voi non potete magnà perché l’è di magro n’kò. Ma me pode, ché c’ho la dispensa! Grande don Zech, e noi per anni cercammo di avere la dispensa per molte e molte cose. Ma mi non son coetaneo dell’Oreglio, sicché non posso dirvi di come giunse propinquo ai quaranta, ma il concetto di dispensa credo l’avesse inculcato pur lui nella cabezza. E dispensati dagli obblighi della Legge, che pur rappresentavano, dovevano essere anche i caramba-pennacchi nomati sul volantino insieme alla madamadorè rumena, direttrice del postribolo paesano. Ripeto, da cacasotto io non mi ci recai, ma alcuni giorni prima della spedizione dell’Oreglio, incontrai un so-tutto-mì, tipico animale del paess, conosciuto come il Giacchétumiami, che non lo so il perché, ma l’immagino, come voi, tre-quattro lettori: costui reggendo nella ritta il fatale volantino, me squadrò securo com’er furmine ed infatti me furminò: -io ci annai da chilla bischera già l’an pasat, che ancora la pula (mica facea distinzione tra polizia e carambinieri) nun c’era riada. Me el saìe… ci andai tre ölte, per li tre buss (qui ghignò mefistofelico) cò tre femene divverse… el me costò n’ bel po… . Anfatte ghe ulie più naga, poi due mesi fa, me pense… ci ho la tredicesima, pestiamola fuori cò ‘e bimbe slave! E ci vò, vò su pe’e scalini, piche a la porta e vien fuori ‘a Madamadorè e la me diss… nun se pode, ci è el maresciall, e che maresciall, fò io, dei carabbinieri, la me respont… porcatroia, nient, e me ne tornai al bar a farme un bicierì a la zalude dei pennacchi. Allora lo incalzai: -o che tu lo sai chi ha stampat il volantino? Ma quello, abbottonato: -no, nun jelo lo zò. Ma tirò la bocca in un sorriso loquente più che la sua normale favella. Quindi i pennacchi andavan dalla Madamadorè rumena e consumavano aggratis in cambio davan silenzio, protezione, solamente. Ma qualcuno… el gha cantat! In questo minuscolo paese, non fa cul scoreggia che tutti non ne san l’autore… però il tutto è stato un bel po’ in cantina. Poi non ti zompa fuori questo foglietto coi nomi, cognomi e gradi dei carramba, e con anche la Madamadorè decorata di indirizzo e numero telefonico ppe ‘e prestazzioni! Iscandolo! E se iscandalizzano il pusillo e il paterfamilias, la sora Zina e il curato Peppi, il barista Pirlo e il friseur Coccobello, insomma uno scandolo da fa piegà li pali de la luce ppè vergogna! Eppure le madame e c’avevan le giberne piene di dindi, o che i dindi cadono dalla volta celeste e mi non lo so, o che crescono sulle piante nel giardino dell’ammore… e tutti a trasecolare e a trascolorare il viso, a benedire e far benedire l’uscio de la cà soa, e a proibire al pupillo dde casa, che magari c’avea l’età ppe ‘ndà cola mimetica ar passo dde jaguaro nei percorsi finto-marziali, a vietarglie anche solo de pensà al passare dinnanzi a la villetta del diaol! De lo diabolo fatto femena tentatrice e portatrice di mali morali, etici e forse caduchi. I pennacchi se dice sian zotto processo, ma chi ce crede… e poi perché processo, o nun l’è il do ut des dei mores maiorum? Ma io son cacasotto e non ardisco ad entrare tra le pareti di Dite, a conzuma co’e Erinni… zinnute e callipigie, credo, che io le pingo cussì ne la mia mente fantasiosamente onanista.

Ma l’Oreglio l’era d’un’altra pasta: quel ch’ei volea, ei cercava di ottenere a tutti i costi e se c’era d’accoppare una vecchina usuraia coll’accetta per divenir Napoleone, embè il Carcassa mica sarebbe stato lì a percorrere le prospettive colla febbre, né, compiuto il fatto, arebbe giuocato ar gattus versus topus con qualche ispettore; l’Oreglio era intagliato nel legno che dura e che l’è duro a bruciarse, siccome capita un poco a tutti, cioè d’invecchiare sotto il tempo edace. La mamma soa lo portò, pochi mesi dopo el so nedal, innanzi al corbaccio di turno, e quanno il nero pennuto chiese come lo volea nomare, ella farfugliò un accozzaglia di vocali et consonanti: il piviere rifece la cacofonia con la sua bucca e il pargoletto tutto cicciotello entrò nel consesso cristiano. Pure all’anagrafe furono cazzi d’appendere: i parentes si presentarono belli freschi di sapone e in dù quarti d’ora si misero d’accordo col segretario: per me volean ciamarlo Aurelio, ma tra la dentiera posticcia e il vin brulè di colazione, si produssero ancora in ciarpami di parole, e lo scrivano vergò –Oreglio- manco chiedendosi se ‘l faa giost o sbaiat. Quindi la civiltà umana ebbe Oreglio Carcassa. Quanno ei divenne adulto, ei acquisì la elle coll’apostrofo innanzi alla o: sicché per tutti i paesani era l’Oreglio, non più simpliciter Oreglio, cioè uno qualunque degli Oregli di questo monno, ce ne fossero tanti… , ma lui, l’Oreglio; e tutta la valle lo seppe e riconobbe la sua maturità. Ripeto che non l’essendo mio coetaneo della sua vita privata ne so quanto di cerbottane zulù; comunque posso assicurarvi che se c’è uno su cui si può scommettere, un cavallo vincente direi, quello l’è ‘l Carcassa: ma in quali gare? Mah. In fin dei conti facea l’operaio fresatore mica l’ingegnere atomico, ma ciascuno nel suo piccolo pote essere perzino imperadore sive duce, armeno sur vater zuo, detto cesso. Io pure quanno sto seduto sul scranno bianco me atteggio da papa ed aspergo il popolo sottostante, armeno de batteri, predicando generosità anali. Quindi l’Oreglio l’era sì ‘n maschio comune, però s’elevava sulla comunità per l’essere un po’ più ardito dei comuni paesani, tutti vagamente caconcelli. Così, verso le ventuno e trentacinque d’un venerdì, lindo il cocò e le ascelle, l’eroico Carcassa varcò la soglia di casa sua e fischiettando mani nelle tasche, pigliò la via del fondo paese, pronto e certo di farsi valere nella lotta di Venere.

Camminava securo der fatto suo e dentro le tasche palpeggiava la scatoletta di Fratelli Cappuccini come chiamava le guaine contra spiacevoli emergenze il professore suo de italiacano alle medie: o, beh, le madame certo li aveano da venderti, pronti all’utilizzo, ma, vuoi come vuoi, l’è certo buona cosa l’essere previdenti e preveggenti, anche de retro alle terga di certe slave, padrone pure de praticacce da maghe e spilloni e bambolotti representanti quarche poaro gnaro da perzeguire co’a’mmagia; e quinni l’Oreglio ar collo facea ciondolare orgoglioso l’aureo viso de la Madonna de Lurd e ner portafoglio s’accampaa l’immaginetta der San Bitter patrono degli aperitivi: cum tali scudi e che c’era de temè, manco se sentiva ‘l bisogno de n’arma, ‘a quale se nun sei pratico de usà e per gionta convinto… e che ‘azzo te la tieni a fa? C’è poi er cortello a la cintola… ma buno per li tempi antichi, pressappoco quelli der Ventennio nero, dei Fasti de’Impero sui colli Fatali, ‘n par de palle, aggiunge il cronista ghignando. Protetta l’alma protetto er culo, tanto basta per introitarsi nelle baite de Venere callipigia et incestuosa; tra questi pensieri l’era sorridente la passeggiata del Carcassa, quando alle ventuno e quarantotto s’appropinquò all’osteria dei Dù Barbogi, teatro di tante gesta sue e de li suoi sodali: restò sul chivalà per qualche secondo, non sapendo se l’era bona cosa farci una scappatina onde bagnar ‘a gola secca per altre voglie. Embè, e che ce vole, si fa un richiamino rosso e poi si và ancor più pronti alla pugna e alla prugna, direi. Appena ei fu introito, subito ei fu captivo der ‘Namanina: costui tracheggiava toto er die per i bar e le osterie buscando qualche gonzo con il quale prinzipiare eterne battaglie a scopetta… e la trappola l’era sempre chilla: -facciamose ‘na manina? De que er soprannome e la nomea; e l’era anche bravo per davvero, t’attirava con ‘na proposta d’una ratta giocatina, ed infatti usaa il diminutivo, poi però ‘a manina, divenia partitina, poi, rivincitina, poi bellina, poi ‘n’ altra partita, ‘n’altra rivincita, ‘n’altra bella e le ore passavano… e lui vincea spesso, e spesso tracannaa aggratis come compenso. Granne ‘Namanina! Specialità: Scopetta. Arma preferita: Settebello. Il problema per lui, ma in veritade per tutti i giocatori raunati ad un tavolo e concentrati nella riflessione mnemonica e strategica, l’erano i Fuoridalgioco: costoro, prinzipiata ‘a partita planavano come avvoltoi sulla preda, attorno alla disputa e s’accoccolavano braccia conserte, cappello inclinato, spesso sigheretta obliqua ai margini de la bucca e, te tu ti potevi contare fino ar cinque che già questi davan la stura ai commenti; ed individuavan errori a caterve, calcolavano le prospettive di diverse giocate che loro arebbero fatto se… , scorporavano cifre esponenziali, tracciavan inesorabili destini, tra gli sbuffi di nicotina, gli scarracchi neri e bestemmie all’iddio comune e transitorio. E non bastavan gli improperi dei duellanti, li mille: -sito fora del giök, i centotre: -te met rumpit i cojoni, e non continuo per rispetto alla linde vostre recchie. Ecché ‘na sera, me presente e giuocante a biribicio, uno de li tipici Fuoridalgioco, detto il Tappo, stava rompendo le palle da almeno tre ore al Griss, e l’alterco oramai avea coverto l’interesse verso la partita, tanto che tutti si facea più attenzione allo scambio verbale tra i due; venne che il Griss perse la trentacinquesima bella, e il Tappo: -te set coma la tò moer, tel ciape semper nel kul, e smargagliò ridacchiando. Il Griss lento volse le pupille al naneronzolo: -nonostante tu sia un inverecondo (il Griss amava parlare l’italiano e leggerlo nei testi soprattutto dello storico Alì Oco de Madrigal) nano, colla puzza del culo sulla testa, necessiti persino di abbassarti entrando qui, ché altrimenti le corna che ti ritrovi non ti lascerebbero passare indenne. Il Tappo trascolorò: l’era un tappetto gelosissimo della tappetta sua e come tanti buontemponi amava tessere le lodi boccaccesche delle mogliere altrui, ma la sua… la sua l’era santa, immacolata, e purra, con due o tre erre a seconda del vino bevuto. Al sentirsi attaccare perse le due gocce di ironia che avea ner cervello: -ke ölet dì? E il Griss: - io del ver voglio dire che tu sei il più cornuto di tutti quanti i presenti e pure gli assenti. Non volava più né ‘na mosca, né un calabrone goloso di macchie rosse secche e dorci. Il Tappo prinzipiò a levitare: -calunniatore, fijo d ‘na baldracca… . Ma il Griss era calmo: -calunniatore? Mah, ormai sono stufo di giocare, orsù, sgambettami dietro che ti porto a vedere… è giusto l’ora… . E si alzò, pagò il dovuto alla cassa ed uscì dal bar con il Tappo rosso fuoco attaccato al fondo dei pantaloni: quel che accadde lo si sa solo per sussurri e supposizioni, dato che i presenti al disvelamento vendicativo dei misfatti della signora Tappo, oltre alla medesima furono solo il Griss, il Tappo appunto, ed un non ben precisato amante. Quel che si dice è che il Griss portò il Tappo ad una poco nota camporella, ove trovarono subito una Simca rossa celante nella sua panza di lamiera la signora Tappo che prona suggeva biancore da un giovine virgulto di terre straniere. Non chiedetemi la veritade che nun jela zò… fatto stà che Tappo maschio e Tappo femmina scomparvero per sei mesi e tre giorni; poi ricomparvero in paese, pian pianino il tappetto ricominciò a presenziare alle partite e in men che non si dica tornò a rompere i coglioni a tutti, persino al Griss. Tutto ciò conferma che tutto finisce, tutto passa, l’acqua scorre e il cuore dimentica, come scrisse un franzese.

Eran le ventitre e quarantotto ed ancora l’Oreglio era impegolato nella pugna col ‘Namanina; i calicini di rosso soggiornavano ora pieni, ora vuoti lungo il limen del tavolo; silenzioso guatava l’ordalia un altro animale da bar: il Battilardo muto non l’era mai, ma l’ultima sua impresa s’era acchiappata qualche anno di vita ed ancora il bianco collare lo cingea costringendolo all’eretta posizione: manco quando aveva demolito il camion der Caffècorrettogreggia s’era poi sentito così invecchiato, così impedito. I suoi lesti lumi passavan ora dalle carte ai visi dei duellanti, ma tutto il suo corpo tradiva immobilità, come bloccata l’era la lingua, persino ad oliarla cum vino. Che era accaduto al Battilardo? L’ennesima impresa notturna, passata subito ad epopea, giacché al finale avean assistito in molti, richiamati dal fracasso e dalla speranza mal celata de vede ‘n cadavere, almeno. L’era al volante della sua vecchia Duecentotrentotto, buio pesto intorno, solita strada della Valletronfia; accanto al pelota sedeva lo Yankee brillo, nome e aggettivo mai separati; dietro eran accomodati il Valli, detto Ohrait, ché l’era stato dù anni in Albione e vantavasi di saper parlar la lingua macellara, chiosando sempre le discutibili dissertazioni sue in cattivo italiano-dialetto-con refoli albionici, con un suono, appunto -ohrait, divenuto nome distintivo; e accanto al Valli v’era il Cicciobello o Mentina, golosissimo divoratore di mentine. Lo Yankee parlava di vino, e d’altronde… quando all’orizzonte, dal nero della notte, spuntarono i fari d’una automobile che pacifica andava per il suo verso: eran li baldi eroi a tendere per il contromano; il Battilardo diede cenno di voler aggiustare la cosa spostandosi a destra, id est sulla retta via; ma lo Yankee avea miglior senso della proporzione, e impauritosi per il muro a detta sua vicino… disse per confortare i sodali: -je dù moti… pasega en mess, trankilo. Avvenne tutto a velocità ridotta, ché i quattro mai correvano, grazie al cielo, e l’altra macchina ben pensò di lasciar perdere il lampeggiare coi fari e invece cercò di frenare il più possibile: e fu frontale. Da lì in poi la scenetta: la gente accorse pronta perché lontani dal paess non l’erano, e gli animi persero immantinente la preoccupazione vedendo scendere i nostri eroi dalle lamiere rosse della Dusenttrentot… ma la curiosità si rinvigorì notando l’altra essere ‘na gazzella, sive auto de la pula. Ma li poliziotti eran in borghese e lo choc e il vino bevuto pria del fatto e l’esaltazione solita crearono la tregenda. Il Battilardo guardava sconsolato la macchina ormai defunta, lo Yankee annusava l’aria cercando il bar e l’Ohrait si palpeggiava nelle tasche cercando chissà cosa: i due poliziotti resisi conto del pericolo corso e di quello scampato, pronti misero i segnali di pericolo e passarono al loro dovere, cioè punire i pericoli viventi; s’appropinquarono allo Yankee credendolo il pilota, ed azzardarono: -Favorisca i documenti. Qua le cose sono certe, perché le persone testimoni, ripeto, c’erano… il bighellone squadrò il tizio che gli s’era rivolto e rispose: -lei non sa chi sono io. Il poliziotto in borghese restò calmo: -appunto, favorisca i documenti. Ma il paisano non capiva: -ora chiamo la Legge! Sentenziò convinto. –Siamo noi la Legge. Non avevano ironia; per fortuna nel corpo del Battilardo non correva molto alcool e il dolore per l’automobile l’aveva reso stranamente lucido: -ehi, ma la macchina è mia, io pilotavo… e l’attenzione della pula passò a lui. Pure il Valli s’era ripreso e già voleva dirimere tutte le possibili questioni, presenti o future che fossero, chiosando ogni sentenza col suo chiaro: -ohrait! Quindi s’addivenne alla compilazione del verbale, con lo Yankee che asseriva di aver visto con certezza dù moti. Tra le varie diatribe, d’un tratto il Battilardo s’accorse che qualcosa non tornava; si voltò e rivoltò e poi: -ma ‘ndo caso el el Cicciobello? Mancava il quarto. Tutti cercarono lì attorno quand’ecco che i più svegli notarono un mugolio uscire dalle lamiere rosse: tra la paura e il desiderio si rinnovò la possibilità del dramma: i poliziotti corsero eroici ad aprire la quarta portiera della Duecentotrentotto onde liberare il quarto disgraziato: e che non ti trovano? Il Cicciobello rannicchiato mugolava sì, non per il dolore ma per lo sforzo: nell’impatto le amate mentine erano carambolate sotto i sedili e s’eran sparpagliate; il tapino cercava di rinvenirle tutte sì da evitare sennon il danno, almeno ‘a beffa!

Ora il Battilardo più non avea la patente, ma nemmeno la macchina: entrambe le cose vanno considerate come una fortuna per la comunità; per questo quella sera, ormai notte, se ne stava mogio mogio ad osservare la partita, stretto nel suo collare e scaldato nell’animo da qualche goccia di rosso.

Varcata la mezzanotte ancora le vicende cartistiche tra l’Oreglio e il ‘Namanina non s’erano ancora risolte: la barista aveva già tentato di convincere i duellanti e i fuoridalgioco a tornarsene alla domo loro principiando a mettere le cadreghe sui tavoli, almeno nella sala che usava per i pranzi o le rare cene che qualche volta imbandiva. Ma nessuno aveva l’aria d’aver intuito l’antifona; peggio andava al barista con uno dei soliti clienti, solito pure a bere molto poco e a favellare invece parecchio; ed infatti, privato di novelle vittime, il Pallino aveva eletto come unico interlocutore del suo sermone serale il povero titolare del bar che rassegnato ed avvezzo alle balordaggini di tutti, riusciva ad annuire, talvolta persino a rispondere, senza ascoltare veramente un bel nulla. Il Pallino l’era odiato da tutti in ispecie quando, e cioè sempre, ei pigliava il balì della conversazione e dava sfogo all’accozzaglia di idee che gli brulicavano senza né ordine né senso nel cotto suo cervello al sole d’Africa; infatti questo prodigio di sotuttismo vacuo, l’era stato in un punto non ben precisato del continente nero a lavorarci come muratore per ben quattr’anni. Poi l’era tornato al paess dove la mogliera sua, la Giola, lo aspettava non siccome Penelope tessendo tele varie e rifiutando li Proci, ma, au contraire, accogliendo ogni benamato porco d’a valle e ordendo le antiche trame che saepe mandano ‘n biöm li vincoli benedetti da Geova inconsapevole. La Giola amava riandare colla memoria sua quasi ardische d’o piccì, a quella sera in cui il campanello de la cà soa, el trillò garrulo, e la tapina s’affacciò bigodinata ar sò podöl, e squittì: -chi caso l’è a ‘sta ùra? Da sotto rispose una stentorea voce: -Giola, son io, il tuo marito. Che già al sentire una frase in italiano e non in dialetto la scombussolò tutta, eppure l’intrepida donna scese de sotto incredula reggendo nella ritta ‘n mattarello e nella manca un popo’ de le vesta soa. –Giola son io, non mi riconosci? Quando rimembrava questo punto der sò dulur, la Giola principiava a singhiozzare… -ah, me ‘l vardae be be… l’ira töt magher, magher skiss… . E qui si cominciava, noi che l’ascoltavamo, a sorridere: la Giola sosteneva che il marito a forza di lavorare sotto il sole d’Africa, s’era ristretto; che ‘l c’avea la taglia oramai da icselle a esse, il numero di scarpe da quarantatre a trentasei. Un bel pomeriggio un saccentone ebbe l’ardire di chiedere alla donna quasi lacrimante: -e l’arnese? La Giola portò entrambe le mani al volto e offrì agli astanti tre profondissimi singhiozzi con chiosa: -pur chello… . E quella famosa sera del suo ritorno da Ulisse nostrano, il Pallino avrebbe detto: -beh, Giola, son io, tuo marito, ma se non mi riconosci, qui c’è ancora il tassì, lo ripiglio e me ne vado e più non mi vedrai. Ma il miracolo non accadde… la Giola se lo ripigliò in casa e chissà come, l’è ‘n mistero almeno gaudioso, procrearono il quarto figlio, loro due, credo. Il Pallino l’era ‘n tipo che sa tutto di tutti e di tutte le materie, o almeno sì dava ad intendere; la sapeva lunga di certo e se ti pigliava all’amo dei suoi ameni conversari, e te tu l’eri fottuto: non ti mollava manco a dirgli che ti stava scadendo il tempo di vivere; prima ei dovea finire il suo discorso, poi potevi irtene, ma oramai perso alle umane tue cognizioni. E come tutti i clienti dei bar, siccome tutti li bipedi dell’orbe, al Pallino gustava la perorazione politica: da quale banda, guelfo o ghibellino, d’a rosa bianca o rossa, massimalista o minimalista, per il pianoforte o pe’ clavicembalo, o insomma de’kke o dde’llà, mai si capiva: el Pallino el staa da la parte soa, un po’ come tutti, eh. E come la gran parte dei sapientoni da bar, ei tendeva ad accusare concetti astratti personificandoli in mostri quasi draghi, che illo fattosi Orlando dovea vincere in singolar tenzone: e fu il tempo d’a Finanziaria tentacolare e panciuta, del Giuridico leguleio e zozzone, d’o Gladio pestilenziale e seborroico, d’a Scala Mobile immobile nel suo fagocitare li poveri contribuenti, col gran costante d’a Pensione ratta a fuire chi pensaa d’averla acchiappata, pugno di mosche fraudolento. E pure lui tendeva a chiudere la prolusione con un sospiro, sibilando sibillino: -che se ci fosse ancora Lui… e chi l’era ‘sto lui colla elle maiuscola, o lo sapete o fottetevi, che quanto a me dico –cip e passo la mano. Ma quella sera il Pallino sproloquiava de calcio o come lo chiamava lui, l’edotto in lingue, ‘o soccer, e ce l’avea ancora dopo anni col mister che non volle il puer suo, securo maradona, nella principale formassiù della Valletronfia: -el faa nofcenotantatre palleggi col sinistro, manco ‘l sò pè! Bojacan i l’ha mia ulit! Ma icchè tu li puoi fare i tuoi tremilaseicentoquarantasei palleggi col sinistro, ma, a me pare basti ficcar la pelota nel sacco sive rete… e il suo figliolo l’avevo visto coi miei lumi spedire al terzo cielo, manco anello de San Siro, el balù da quasi due metri prima della linea bianca. Altro che marado-maradona delle prealpi. Sic transit gloria mundi.

E fu all’una e tre quarti che l’eroico e stoico Oreglio uscì a rivedere le stelle, finalmente libero dalle grinfie della scopetta e der vino; la notte per molti chiudeva i battenti come lo stanco barista traeva in basso la serranda tirando un sospiro di sollievo e pregustando le mollezze dell’alcova bramata per tutto il santo giorno: effimero riposo, ché presto e lapidario sarebbe giunto il domani. Per le vie del borgo ribollivano ancora incomprensibili canti o berci di boci non più di bimbi (tavola grande), e tardivi rientravano pure coloro che si erano presi una seratina di libertà dai gioghi famigliari. Il Carcassa camminava lento lungo il bordo della statale, immerso ancora in mani giocate male, in prese che forse s’erano da fare: il ‘Namanina era furbo e scaltro giocatore, eppure l’Oreglio accusava della batosta testé subita la sorte ria e vessatrice che quella sera lo rendeva distratto da altri pensieri dominanti: sogni di cosce profumate, di tendine rosse co’ pizzi e merletti, di fumo quasi nebbia attraverso le stanze, di chiare e fresche risatine dell’est, di violini tsigani…d’o’ postribolo inzomma. E vuoi come vuoi, già fischiettava palpeggiando nelle tasche il portafoglio bello carco di dindi, arma letale per le gentili donzellette; e, per Bacco, salterellava pure al ritmo di una tarantella che gli tarantolava nella testa, sicché lo scorno patito al tavolo da gioco l’era già ito nello scantinato della memoria, detto dimenticatoio, per lo più.

E fu un clacson a richiamare l’Oreglio alla realtà, supposta tale: non mancava poi molto asfalto alla casa del femminino mercimonio, e già di bel bello l’eroe sentiva el mugolio delle sirene slave e figuriamoci se ei pensaa a li tappi dde ccera per ‘e recchie… quand’ecco ‘o Destino buggiarone je porta de tergo ‘a carrozza motorizzata dell’Uomo Lupo. E fu beep-beep a squarciare il silenzio della notte paesana e a tirar giù dal letto un qualche buontempone convinto la fusse l’üra dde Judicio Univversale. Il Carcassa lesto volse il capo giusto in tempo per locchiare il barbuto compagno suo di trecentotre bevute che tirava de fora dal finestrino la sua cabezza lupina: -‘ndo caso net, figù? Salta soo ike nöm ‘n disco aa ardà le pipine aa balà ikkele roiete! L’Oreglio ebbe anni addietro salva la vita grazie all’Uomo Lupo, quando in coma etilico giaceva sul divanetto rosso che pur io conobbi der Tabacanda, e nobody era in grado di capir che si rischiava ‘o fattaccio. L’Uomo Lupo che ben conosceaa ‘e bestie e li omini fatti bestia, pijò ‘l sodale sulla spalla pelosa e lo strascinò ar Prontossoccorso… ove permisero ar monno d’avè ancora tra li vivi il Carcassa. Sicché l’Oreglio più nun sapea dì dde no a qualunque proposta del salvatore sòo e pure killa vorta nun seppe negare e saltò su sulla benna blu dell’Omo Lupo, rimandando dde quarche ora ‘a razzolata sulla coltrice delle bbocchedirosa rumene.

L’Omo Lupo: lui sì mio coetaneo, che nun se direbbe data la mia pelle sicut pelle di cocò fanciullo, morbida e lesta a pingersi di rosso quanno me tajo ‘a barbetta cco’rasoio. Lui barbuto, grasso et semper di camiscia a quadrettoni vestito, cco’ brache de iuta. El fu l’Alaspezzata e narrarmi l’episodio in cui l’Omo, seduto con du’ sodali suoi e appunto Alaspezzata, in gelateria, el vardaa foioso e sbavante le terga di ‘na barbellina seduta appresso il giùbocse. Uno degli amici s’avvide dell’emozione libidinosa der Lupo e volle fare ‘o brillantone e voltosi al compagno disse: -dai ke la ciamom e la conosoom… . L’Omo Lupo sbiancò e mostrò le fauci tremolanti: -NO! Urlò, -Gho pora! Gho pora! e copertosi il muso con le villose zampe, proruppe in latrati strazianti. Ma iddio zuzzurellone, el vuol sempre salvare capra e cavoli e lupo. Proprio l’Alaspezzata accompagnò nell’urbe leonina l’Omo e gli mostrò l’iter dd’elle pulcelle generose et nigre. Oh, quant’è ‘nne mai! Il Lupo le vide e vide la luce: balzò giuso dalla carrozza motorizzata e zampettò appresso alla vittima; pagò ratto e conzumò: oibò per la poarella! La montò siccome vide far le sue bestie… more ferarum… colla fija dd’Affrica intestata nel cassonetto, e illo che stantuffeggiava mandando ragli et improperi. Cadde il contenitore dello sporco e ruzzolarono i due tra le borsine slabbrate e i rimasugli di pasti oramai marci e puzzolenti; ma l’Omo l’era ignìt, per fortuna, sbravazzando il seme suo qua ellà per lo sfacelo. La povera venditrice di sé s’allontanò carpon carponi, ma non le riescì d’avvisare ‘e colleghe quocirca ‘sto ‘ndemoniato dde cliente bestia. E delle altre martiri non ardisco favellare. Ed ora, siccome Enkidù, ei l’era introito nella civiltà, consorzio umano, e da fera s’era fatto uomo. Almeno. E amava recarsi nelle disco, ove, carco iam, iam, di birra nel saccaccio suo, ei locchieggiava le belle putelle danzeggiare di culo e poppe. Il Lupo ghigneggiava e sproloquiava; poi carco di foia, esciva e guidava fin ove rinveniva l’ostia sua, mejjo se nigra, che je rimembraa dde cchiù ‘a soa stalla. Poveri noi, e povere loro. Eruttata la bestialità, riedeva in paess, magari per un richiamino alcolico. Proprio in sull’inizio del solito viaggio, quella sera s’avvide del Carcassa che deambulava, e, mosso dalla voglia d’aver compagno, siccome capita a tutti li omini più o meno evoluti, s’era stoppato a raccogliere il tapino, costringendolo, suo malgrado, a rimandare ancora l’ingresso dalle rumene.

L’Oreglio volgeva malinconico i lumi oltre il finestrino del passeggero, appresso le luminarie della city in avvicinamento e presagiva, ma non osava proferir verbo, ‘na lunga gita, ché non l’era notte de luna plena, e non si poteva dunque dare il caso ch’o amico suo se potesse divenir bestia e lasciarlo libero di redir in paess e terminare la mission sua, ovvero razzolar con le divine dal culetto alto, li crini corvini e ‘a bucca sardonica, le slave del manifesto, per intenderci. Forse c’era tempo: magari il Lupo dovea occuparsi della stalle e delle formagelle, o di qualche cazzo di impresa sua, magari ci faceva davvero solo un saltino in disco e poi rediva… ma al Carcassa la suonava male, la faccenda: l’è che lo conosceva, quando killo adocchiava le chiappette urticanti danzerine, ei non le mollava, finché non le sbavazzava tutte, fintanto che la sua mente boccalona nun l’era plena de imagines, da proiettà dinnanzi alli oculi suoi fantasiosi stantuffeggiando pazzamente contro le terga d’a malcapitata africana. Eppure l’Oreglio, messo sull’avviso dalla consuetudine, la poteva schivare l’impresa usata, e gli potea dir de no, che c’avea mille capitoni per la testa, o dirgle ‘a verità, dd’e rumene: ma qui l’era il busillis: a digle delle venditrici de subina grondante, se rischiava dde kiù: securo come che l’ovo l’è ovo, l’Omo arebbe voluto d’annà pur’illo dalle zinnute, e, Iddio birbaccione ci scampi!, chissà che treggedia, che tregenda, che tragenda, che cazzi, inzomma!

Il Lupo estrasse il cognac dal cruscotto, l’inglutì a sorsate, e l’offrì, sicut solet, all’Oreglio: ei ricusò, ma quanno il peloso sodale ingredì nella radio ‘na cassettina e i Cugginiddecampagna tripparono Animamiatornaacasatua, il tapino pijò er beverone e tracannò insino all’insensibilità lappale. Fu verso la fine d’o Diodellecittàedell’immensità dei tremendi Pù e d’Alien sgolacchiato, che il povero Carcassa ripensò alle sudate carte e a Kirillov, ma salva fu la mente sua, allorquando sferragliarono nel parcheggio d’a Disko, e, seguito ‘o faro indicatore d’un Giano bifronte tra gli scarracchi marmitteschi, l’Omo rinvenì un posto libero e smorzò ‘a macchina soa: zampettarono sulla ghiaia del parcheggio e, l’uno arzillo e lesto d’occhi, l’altro impegolato nella delusione cognachesca, raggiunsero l’ingresso. Sparì. Chi? Il Lupo. Non appena varcata la soglia, sparì: ma il nostro lo sapeva ‘ndo troal: accucciato sotto li cubi, sicut lupus, l’arebbe trovato in qualsiasi istante, a quattro zampe intento a locchiare le ballerine dei pali, rapito dalla luna anale, satellite scosso dalli reni slavi, magna cum peritia, colante la bava dagli angoli della bucca, forbendola talvolta con le maniche della camicia. Tutta la serata o nottata, l’arebbe passata così, dimentico del loco, dell’orario, della fame, dell’Oreglio stesso, di tutto, inzino a che la natura non l’arebbe richiamato con gli ultrasuoni e il bestia avrebbe ripreso coscienza e strada verso o le nigre o casa. Così il Carcassa tapino andò al bar e ordinò l’oblio: poi raggiunse la balera e pigramente girò il suo cadaverico sacco inzino a che potè rinvenire un posto sui divani attorno al limen d’o pavimento per i folli danzatori: in verità seggio non v’era, ma un tizio rantoleggiava abbandonato, così l’Oreglio fu rapido a spingerlo in terra e a dimenticarlo, ed io, per la cronaca, aggiungo che costui fu rinvenuto ancor vivo, la mattina successiva, da una filippina addetta alle pulizie: chiamò il barista e insieme lo precipitarono oltre la porta di servizio, quella che da sui cassonetti ed ivi il poarello redì nel mondo dei vivi, o creduti tali.

Il sogno era: prendersi cura di una di loro; l’Oreglio non sapeva immaginare parole più dolci per descrivere il profondo senso di dovere verso di sé e verso il genere femminile, inteso come completamento di sé, appunto, ovvero come altra metà del cielo: almeno così pensava da secoli ormai, da quella sera in cui si assopì durante la messa della notte di Natale e, per convincerlo ad andare a pigliarsi la navicella, dovettero scuoterlo e far ghignare il popolo riunito per la celebrassiù; il misero chierchetto stava elucubrando proprio sur concetto dd’amore et su’oggetto d’o sentimiento nuevo dentro il tristo sacco che merda fa, e lo sapete. Lo pigliò la cognizione d’a missione der gere umano maschile o pene-munito, cazzo-ferente, per intenderci: prendersi cura de armeno ‘na subina, mejo due, anco mejo dde chiù, tre. Ma, perdindirindina, una… e che ce vò? Appunto: allora ei penzava nun ce vulisse poi molto sventramento di cervello e zibaldoni pa’conquistà ‘a femmena confacente a li soi desideri manco a ddì reconditi: qui sta l’ingenuità iovanile: supporre di saper scavalcà l’ostacolo già pur pensando, ancor pria di tentarci, dde domà er caballo imbizzarrito con dù-tre mosse d’anca, d’essere supereroe, un superomo. Invece ‘na picciola trave dinnanzi a li oculi pavidi, si fa insormontabile, e il tapino nun ce po’ girà attorno, circumnavigà il problema. E rinuncia: alfine di tutto je stà ‘a renunzia, d’o cojone, armeno. Il Carcassa, sicut tanti, molti sodali suoi, volea pijiarse cura d’a madamigella e farla domina e lui vassallo: questo nel core suo; a parole ei volea braveggiare alquanto, co’asta sua fallica e perforarne cento, qua e là, spocchiandosi come Rodomonte, facendo figgura meschina, dato che e’ pijaa sempre un calcio nel cül, metaforicamente parlando, s’intende. Che ce proava, va detto per onore del vero storico: c’avea provato, ma vuoi quel che vuoi, vuoi una centomila o no, nun colze mai ‘a rosa. Devo aggiugnere, per completezza da cronista, che forse il Carcassa avea troppo alta cognizione delle sue capacità e delle sue caratteristiche fisiche: adduco a ciò, sì perché ei mirava a barbelle troppo belle: nun c’è nient de mal: ma l’è scontato il fallimento. Io condivido: se mira sempre in alto; forse però s’esagera. Non la faccio lunga: nun l’ebbe mai morosa, e dovette pagà ppa conoscere ‘e gioie copulative, pp’orgasmo a due, pp’a pippa condotta manu femminea, pp’a fellatio, pp’o canale anale. E non dovette mai pijarse cura d’un cazzo dde neent.

Ci fu un tempo in cui l’Oreglio annava saepe nelle disco, siccome tutti: c’è un’etade per ogni cosa, e protrarla l’è sempre ‘na casada. C’è un momento giusto per un penziero, per un comportamento, per un vestimento, per un eloquio, per una passiuncella: ma quando l’è pasat, l’è pasat. Neent de più ridicolo di un viejo ch’amoreggia siccome li iovani, tanto per dire. Ognuno di noi ha passato l’età di quella che omo chiama stupidera: ora che ho ‘na mansione, ‘n ruolo a contatto con tale fenomeno esistenziale, ve lo posso render certo: nun ce se pode opporse, l’è normale, ci si finisce tutti, e, dentro, nun s’entende il dde fora, e dall’esterno, ignoto resta l’interno; se fa ‘n grave sbajo quanno se iudica, sicut gran vespillone, sicut prinzipe dde foro, sicut omo de strada o inggeggnene dda bar. L’è cosa normale. E vien l’etade della disco, pur io la passai, pure voi, non streppatemi la minchia dondolando il cranione per diniego! E come il Carcassa ce ne son tanti, altroché! Ei ci andava da principio in autostoppe, saepe cum due sodali suoi d’annata: raggiungeva la più vicina, che l’era mejo, così si poteva redire alla parvula domo non troppo tardi. E c’entrava sempre sicuro che l’era la sera iusta ppa pija el treno iusto, ppa trovà ‘a barbellina dei suoi sogni dda pollutione. E invece sempre si ritrovava a circumnavigare le balere chiù e chiù volte a mò dde chiurlo: altri ballavano, altri dimenavano li fianchi colle menadi, colle baccanti poppute, altri ingredivano le villose mani dentro li reggipetti, o le gonne micro, ppa palpà la merze, altri peroravan le loro cause colla lingua sbavazzante dentro cavo orale femmineo, da rinvenì le papille della ganza e rischiar ‘l morso ebefrenico, altri giravan la rota del fato zampettando inzino ai divani e proseguendo ‘a conoscenza, fin che la si facea biblica, saepe sine escire dalla medesima disco. Ve l’assicuro, miei piccoli lettori increduli: non solo l’Oreglio, ma pur io ve lo posso dì, che al Numberone, ove mica se vendon li scuutter siccome pensaa il Betulì, ne vidi ‘na sera, quanno ‘l cugino mio caro celebrava la perdita del senno, chiù e chiù a menar il pippo entro le ganze sballonzolanti perpendicolarmente, fin alla venuta fallica. Ci rimasi secco, e un po’ invidioso, mica lo nego: e qui rimembro il tempo in cui, maculato, me ne andavo in giro ppe Bozen, e, di rientro dalla stassiù dei treni a vapore, di stazione in stazione, tra l’altro, passai accanto ad un parco, e locchiandone l’interno, vidi ‘na ganza seduta in the middle of due vecchi barbogi: ella piangea, mentre le cariatidi infilavan le ossa loro nodose sotto la sottana e uno le basciava l’orecchia, come bavosa medusa. Tirai innanzi; ma questo non c’entra, ma tant’è la libera associazione di idee.