martedì 5 febbraio 2008

L'Oreglio (fine)

L’entusiasmo dell’uscita dde baita, del pollice in alto, dello stridìo pneumatico del generoso di turno, dell’insegna intravista attraverso i frondi, dell’ingresso sognato atteso e trionfale, scemava ratto siccome freccia scoccata giugne al bersaglio. I sodali s’appropinquavano semper al bancù, ppa pija ‘na birra economica, e poi prinzipavan il vuoto circolare, lo speranzoso strascicare del corpo, spintonando e ricevendo spinte, odorando ascelle e, allora l’era ancora consentito, aspirando fumo passivo, e ogni odore e lezzo si fondeva e in risultato fendeva l’aere sìppoco ossigenata. E il caldo si facea ogni istante più molesto. Giravano attenti, come presi da urgenti questioni, eppure determinati a non farse sfuggì ‘na mosca prezzolata. Ci vollero anni e lire sperperate ppa capì icchè nun v’era neent che fuiva, che nun fosse iam iam fuito, giù dal sifone del non essere capaci di proferir verbo, figuriamoci abbordare ‘e passere. Finché poggiavan il culo su qualche divano, o cadrega, o scalino, e le ore passavano lente e stanche, e le recchie prinzipiavan a produrre un fischio ch’ognun di loro sapevan capable di rompere i coglioni fino alla sera del giorno successivo. Ma da poggio o dal seggio ei potean mirar lo spectaculo umano, feminino, ferino, beluino, degli assalti, dei tentativi, dei successi, degli scorni, dei basci, delle palpate, degli strusci, delle copulate, dei tracolli di sudore, della saliva transeunte, dda famigghia nascente, d’o matrimonio in nuce, dda ruina dei parenti intesi genitori, futuri nonni di pargoli segnati nella psiche dall’imbecillità di chi nun zà trattener la foja libidinosa e lo seme biancastro, dde lo circle of life. Il più gran fascino della tragedia, lo spettacolo dell’omo interiore, la vita umana, la realtà che si vede, gli uomini che non si voltano, figuriamoci ‘e femmene. E tutto con invidia. Io, da par mio, già all’epoca lo capivo il meccanismo, eppure non mi ci sentivo partecipe, e mi parea dde stà a lo zoo, ma io bestia in gabbia, e loro, li eroi del mondo moderno, dde fora a vivere, o a illudersi dde vivve.

Quindi l’Oreglio, ormai scafato di ‘sti meccanismi, costrictus alla Disko, s’era subito seduto, come v’ebbi modo de narrà pria de li miei liberi e vacui dissertari; che bisogno c’era di farse venì li calli ai piè girando a voto? Mejo poggiar le chiappe e tentar di goderse ‘o spettacolo. Permettete allo vostro umile narratore ‘na digressione dentro la sua inutile opinione, almeno nell’economia del moto terrestre. Ve volevo dda dì che son sollevato di non essere padre d’alcun fijo o peggio fija, ch’alla mia etade l’è mica cosa strana l’essere già stato donatore di sperma e procreatore, semmai il contrario, id est, l’essere solatio. L’è che ‘uso contemporaneo de comportarse, vestirse, uscì, parlà, pippà sigherette e spini, attaccarse al paino, zompà pria della stagione alta, strascicà corpi precocemente sfatti, li usi e costumi, inzomma, della iuventù der monno moderno, mi schifano. Certo, paio babbione, ma non sproloquio dde mores maiorum, che nun me frega ‘n cazzen, ma, or qui, miei cari, qui c’è qualcosa che non va: id est, va totus bien, almeno a stà ad ascoltà la tirannide consumistica, ‘o verbo dei Masters, li dominatori dde Universo, coloro che vollero, pianificarono e ottennero ‘na generazione dde cojoni, abili a sfascià tutto, desiderà, sempre er novo, voto pejo der viejo, piegati a tener dietro al fiato di vento che or vien quinci e o vien quindi, a seconda del volere di dù, tre, tangheri, nani dde Mediolano, sbrodoloni a stelleestrissie scambianti calici pleni d’oro nero, luridi i calzari di sangre di miseri innocenti, ostie sull’altare dell’Economia: per non aggiungercene dde altri, che spandono verba a ritta e manca, pijando per mogliere ecs-modelle, sorvolando su eiaculazioni dde sotto ar tavolo che me fecero ridde arquanto, su debbiti dde re e reggine e dde squadre dietro ar pallone rotolante: vollero un monno incosciente e ratto verso ‘a ruina, pur d’aver guadagno oligarchico, massone, settario, nasone, poltrone, gobbo, nano, pelato, dde cowboy di ranch ove mucche da mungere semo noi, cco tette sempre più stricche, latte privo dde principio basilare d’o nutrimento. Lo so, me incazzo ppe neente, così va il monno.

Ma torniamo alla gioventù. L’Oreglio l’osservava attraverso il filtro inquinato della sua mente, eppure anche lui avea sempre la sensazione di essersi perso un qualche passaggio logico: alcune di chille bimbe che sarabandavano su quella balera, le potean benissimo essere fije de chille giovini dietro cui sbraveggiava nel tempo dei cavei lunghi e unti di gel; ma prodotti avariati seppur appena generati, dico appena, in proporzione colla durata media della vita; ne guatava i volti, sicut maschere, narici dilatate, occhi strabuzzati, e bucca distorta in ghigno: queste le menadi moderne? Il Carcassa vagliava le immagini giungenti al suo cervello con stanca perizia, scartava ciò che una volta avrebbe conservato gelosamente, gettava jpg mentali siccome da bimbo le figurine doppie ch’oramai nessun amico volea scambiare: poi si bloccò su una biondina, a tagliarle la testa, pochi anelli, forse quindici, magari diciassette: che c’era da immaginarse quocirca il suo corpo? Rattenuti in poca stoffa, pregevoli seni tambureggiavano un ritmo insensato, una stoffa risparmiata cedeva generosamente brandelli di chiappe e lunghe gambe seguivano ritmi tzigani ignoti alla folla e al dj. Che ci faceva lì? Su che frequenze viaggiava quella barbellina? Socchiuse le palpebre senza più nemmeno sognarsela come un tempo, senza nemmeno più chiedersi chi se la sarebbe pigliata, la rosa: l’Oreglio era stanco.

Gli scivolarono le chiappe in basso, affossandosi nel divano: chiuse le palpebre com’ha riflettere sull’incipiente emicrania; le riaprì: folti ricci su scheletrica magrezza, bellezza d’attaccapanni su passerelle sognate tra le luci dello sfarzo: corsia d’ospedale e flebo zuccherino ché le poche stanze traboccano ipocondria. L’Oreglio ripensò ai dorci anni dell’incoscienza; quanto è duro rimembrar le picciole gioie fuite nel patire presente: lei al Casapazza danzava altera nel nylon diversamente pinto, su tacchi come trampoli, effluviando cogli aurei crini; allo Studio ci passava per attimi, lasciando attoniti gli sfigati astanti, tra i mille lui e il suo folle piano per avvicinarla e respirarle accanto. Ce la fece, per gli dei dell’Olimpo, ce la fece: ad un table di chilla disco ormai defunta, il Carcassa alticcio le parlò d’amenità e giorni dopo più non seppe salutarla, passeggiando sul limen del catulliano lago, dacché non l’era in grado di ripigliarne il nome nella nebbia della sua memoria. Agguantò invece l’orrido, locchiando in una delle solite sere vacue, una venditrice di sé uguale uguale a quella bionda principessa sul pisello: ci pensò e ripensò le mille volte, poi lesse su carta petroliata, la copia slava essere finita splattata sotto i pneumatici d’un camion. Fu la fine d’una età, dd’a stagione delle mele o pomi, traversati da vermi cicciottelli. Ancora gighe e sarabande, triglie e quadriglie scomposte, battere di piedi e sbracciarsi nel fumo colorato sputato da un qualche tubo nascosto: il Carcassa triste levò il moribondo corpo e andò a cercare il Lupo: fu in quell’attimo ch’udì lo strillìo dd’a belva e mille squittii e subiti interventi di buttafuori eruttanti proteine e creatina cum carnitina; l’Oreglio intuì ‘l pericolo per il vecchio conoscente, un tempo sua salvezza: tre nerboruti ercoli già lo strascicavano dde fora, e chillo urlacchiava indomito; il nostro ebbe certezza d’una ch’avea le chiappe morsicate, ma non troppo, in verità le mancaa ‘n brandello dde jeans e uno picciolo dde perizoma rosso: infine l’Omo avea tradito le sue origini belluine e avea ceduto al morso. Con granne sperpero dde rassicurazioni, il Carcassa riuscì a calmare i gorilloni e a renderli certi che proprio lui arebbe portato via il bestio sgagnante. Lo trascinò alla car, lo cacciò dentro e, messosi al volante, pijo la via verso el paess mentre il Lupo narrava il suo punto di vista mescendo lacrime e parole.

Era già l’alba che volge al disio quanno i nostri navicanti giunsero al paese: l’Omo perso con Morfeo, l’Oreglio scornato, stanco, rabbuiato, sfinito, sminchiato, piantò la macchina e la belva dinnanzi alla casa della mamma del Lupo, senza curarsi del sonno dell’amico se ne andò a piedi, barcollante, tremante e affamato: lontana nella sua testa palpitava un’idea, ma non riusciva più ad acchiapparla, come tant’altre volte la realtà avea schiacciato i suoi propositi, buoni o cattivi che fossero. Un piede dopo l’altro, Oreglio Carcassa raggiunse la sua parvula domo, pijò la chiave e senza far rumore, onde non destar i parenti suoi, v’entrò, si levò i vestiti, e, rimembrandosi di botto d’essersi lavato il cocò con entusiasmo pper impresa desiderata alla corte delle rumene, intuì l’ennesimo fallimento e, dentro la salvietta ppe ‘culo, ascose le calde lagrime.

1 commento:

Anonimo ha detto...

L'oreglio è la cosa migliore che tu abbia mai scritto, secondo me.

Sei bravissimo