lunedì 18 febbraio 2008

Turibio (1)

La cartolina giallognola lo colse mentre esciva dal bar Centrale, Cocacola ferente, e s’apprestava ad ingredire nell’edicola accanto alla sua modesta tana, onde poder rinvenir, cum cioia et letitia, l’ultimo numero de Ratòn, fumetto suo preferito, narrante le gesta eroiche, non di scuòpellediluna, ché kille l’eran erotiche, alla facciaccia del canzoniere sessuofobico et papalino, le imprese, dicevo, d’un super-investigatore misogino, nihilista, probabilmente leniniano, ma non oserei siffatte opinabili definizioni, con un zinzinin di misoginia, il che non guasta mai, ma soprattutto dalle fattezze da pantegana, d’o ratto dde fogne, da cui, appunto, Ratòn. Massima concessione della mamma sua, che confondea le copertine e non la sapea discernere tra il filosofò chiavico e sbrodolante improperi (oh, certo, mai nella prima: lì, al massimo, gestacci) e cachinni de retro al kul, verso il mondo pleno de gente, e l’orecchiuto sorcetto nato dalla mente antisemita d’un stelleetstrissie pp’a pija per culo, e pinto come pasticcione et inconcludente, fattosi però saccente, abile, infallibile, puro e scassaminchia, direi, nelle avide mani dde nasoni, grandi sfruttatori delle masse bimbe, me compreso, che pupo nun lo son kiù. Dal che si potea importare nella domo il fumetto iscandaloso, sine generar vagiti e sbraiti della pudica mammina, e sine dover rinvenire una latebra ove celar le amate pagine: tutto ciò nonostante la maggior etade la fossa già stata giunta e valicata da un anno, siccome l’era teste proprio quer fojetto che ‘l solerte e ghignante postino, gli porgea, sì da evitar di scavallare giù dalla Vespa grigia, guadagnando secondi preziosi per il pirlo mattutino. –L’Esssercito ‘l ta ciama, ekulat, te set apposto, figù! Queste le amene parole sciorinate come perle dall’amabile statale, inframezzandole con cachinni e berci e score, sue e dd’a motoretta sua in fase di ripartenza.

Turibio Navicella prese tra le dita la cartolina e, più udendo killo sfaticato, capì il dramma: la lattina rosso-babbonatale sfuggì dalla presa ormai malcerta e piombò sull’asfalto spargendo zuccheri e bollicine; ratto (aggettivo stavolta) Giano Bifronte, o’viggile, fischiò e, abbandonando l’intenzione appena sortagli di multare la fica ch’avea abbandonato il suvve suo in mezzo alle balle, si iettò dinnanzi al tapino e, dopo scossoni reiterati, gl’appioppò una bella contravvenzione per inquinamento del suolo pubblico e per inverecondo spettacolo di disamore patrio. Tutte fregnacce: Turibio già pensaa ai lamenti, ai gnegnè, ai vagiti, ai latri, ai ohmemisera, della mamuska sua moritura, securo com’er furmine; dd’a Patria da zervì, nun gliene importaa una beata minchia.

Non è mia intenzione menare il torrone narrando dell’infanzia del Navicella, così magari da dare la stura a pomposi ragionari degli pissicologi bramosi di rinvenire la radice della sua natura solitaria, o meglio, dell’incapacità del Turibio di maturare una personalità definita, persino estroversa o anche esuberante, nel rapporto morbosetto colla madre; a lo ver dire, mi pare difficile rinvenire, nella nostra verde terra d’Ausonia, un qualche maschietto che sappia dir di no alla mammuccia sua, che la possa contraddire, finanche nell’etade adulta, figuriamoci in quella bambina, o post-bimba, pre-adulta, come volete. C’avea diciannov’anni il Navicella allora: embè, sì, el dovea esser ometto, invece je serviva anco la zottana della genitrice, sotto cui sentirsi cucciolo protetto. O voi che vi pensate omini fatti, ante o appena post il maggiore genetliaco, ma andate a contarlo ad altri, et nun al sottoscritto che ne vide de bipedi piagne con la barba non chiù pel-pagàt! E per un tantinello d’amore per la narrazione, chiarirò in breve volgere d’un qualche periodo, sì da non tergiversare e rompere gli zebedei: nacque, il Turibio, da famigghia piccolo borghese, figghio unico e alla mare serrarono le tube post partum; i parents avean già zompato oltre i quaranta, e le fiaccole nuziali, accese dec’anni pria, già più non ardean: eppure riusciron a procreare il pupo, e, appena nato, versaron calde lagrime sul fantolino. Ecco, foiosi et libidinosi i miei quinque lettori, ve lo dirò: chilla bboce dde curridoio, che la vuole essere il Turibio non figghio del pare suo, ma del prete del paess, nun me trova concorde: c’è della ferina simiglianza tra genitore e generato, ma, certo, il tutto si deve alle sgargarizzate vinose del vecchio Navicella e alle sue invereconde bestemmie e soprattutto alla lodevole fede della mamuscka, donna fidata davvero del sacerdos, umile ausiliaria nelle quattro mura del tempio paesano, vice-Perpetua, leggitrice affettata delle Sacre Scritture dominicali etiam feriali, tessitrice delle amabili trame reggenti le feste de li santi Patroni, mungitrice delle tette dei fedeli contribuenti alla crassa salute d’obolo, inzomma, donna usa a frequentare la Parrocchia. Il vecchio, pigliato dalla ragnatela alcolica, soleva inveire contra la mogliera sua, rea di tenerlo a digiuno dde dindi tintinnanti, nonostante lui fosse unico procacciatore di medesimi, et invece la donnacchera li sparpagliava in sacristia o dietro al culone del figghio suo e di chillaltro. Appunto questo chillaltro reiterato dall’avvinazzato cagionò i pissipissi. Bah. Poi voi, bramosi di iscandoli, come lupi della steppa, mannaggia Hesse, fate pure li vostri cunti de li conti, ide est, fate e pensate come volete, ma queste nefande vicende non entrano nei miei ragionari. Che la sciura Marì la fosse donna timorata, basta il nome del figliuolo: ella scelse addirittura Turibolo, poiché la si voleva pensare come una maternità ove il profumo d’incenso che lei spargea per la domo sua avea giuocato un ruolo principale: ma, all’atto del battesimo, il saggio corvetto nero avea informato la sua collaboratrice che chillo non l’era appellativo corretto e approvabile; ma se potea mutarlo in Turibio, dal vescovo Turibio della città de Novocomi, sotto il Serruchon. E fu così che il pupattolo entrò nel consorzio umano et cattolico.

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