sabato 31 dicembre 2011

Brogliaccio 1

Che si ambienti un racconto in una città ovvero in un'altra non dovrebbe essere un grosso problema: uno se la sceglie, la descrive, la rende un oggetto immaginabile dal lettore che, ovviamente, invece, ne fa un uso personale, addobbandola con la propria fantasia che eccederà l'intenzione dello scrittore; questa eletta città quindi dovrebbe solo animarsi tra le righe e vivere il suo momento artistico, almeno fin quando le pagine si sono esaurite, il sipario cala, l'attenzione del sopracitato lettore vien totalmente meno.
Invece è una bella grana, una gattona da pelare: quale città e perché quella e non altre? Come se uno non sapesse che si tratta invero della città mentale, il tèmenos, che esce dalla testa dell'autore, indossa i panni di una reale e s'adagia tra le pagine: ma mai sarà la fotografia di una città esistente. Quindi perché perdere tempo a cercare riscontri, a correre le vie asfaltate usando come guida un racconto? Qui c'è una forneria: perché il fantasioso autore ha collocato invece una libreria? Perché è un maniaco lettore? Perché vorrebbe che lì ci fosse una libreria? Probabilmente gli serve per questioni, diciamo, artistiche; meglio ancora non farsene un cruccio.
Allora si tratta di eleggerne una, ovvero inventarsela totalmente: ai fini dello scopo di un racconto dovrebbero funzionare entrambe le scelte, visto che una descrizione semplicemente topografica è il fine di qualcuno che non è certo un narratore di storie.
S'impone così la struttura della città interiore con vie che nascono dalle tortuosità delle nevrosi, con edifici che sorgono e poi crollano come i sentimenti, con le stesse persone che nascono, vivono e muoiono, più o meno effimere, a seconda di fenomeni che si sanno legati al mondo degli archetipi.
E allora lasciamo perdere la scelta della città e diciamo solo che la storia che mi accingo a raccontare è ambientata in una città del nord Italia: si vuole che dica la mia città? Allora diamo questa soddisfazione.
Nella mia città la vita scorre con i ritmi di tutte le altre: frenetici al mattino, stancamente indaffarati il pomeriggio, indolentemente lenti la sera. In alcuni punti, chiamiamoli ritrovi, la gradazione della vita sale, s'impenna anzi, verso livelli da: questa è l'unica vita che vale la pena di vivere.
Qui c'è una banca in cui io intendo entrare; ma verso mezzogiorno t'accorgi che varrebbe la pena lavorarci, anzi, ogni altro lavoro che non sia il bancario, nemmeno lo è, un lavoro. Anche questi privilegiati devono nutrirsi di solidi, quindi escono nei loro abiti firmati, occhieggiano verso ogni sottana i più giovani e verso le quattro-ruote i più scafati: hanno di per certo eletto un locale a loro ritrovo e ci vanno a passi lenti e contati, come le banconote del mattino. E là, dopo alcuni accertamenti borsistici, iniziano a mostrar l'uno all'altro le loro fedine, le medaglie, gli onori, evitando ogni scorno patito e dal capoufficio e da lingerie con la puzza chiaramente sotto il naso, mogli di chiari cornuti.
Su tutti loro l'alone della vita, l'odore del successo e qualche miasma lasciato sui loro gessati da poveri questuanti, da petulanti conti-corrente oltremodo ridicoli.
Nei portafogli esibiti in effluvi di olezzi e pelle di coccodrillo, le ganze loro, quella ufficiale, l'autografo di un Fugger, una sfilza di carte di credito e non una banconota, che è roba da poveri tapini. Quando rientrano verso la Madre Banca, al solito, dissertano di palestre ed esercizi gluteo-formanti e, soprattutto, di natiche sulle cyclette che loro avrebbero benissimo visto altrove e che, anzi, vedranno da vicino, prendendole, infine, persino per fame.
Si capisce che il narratore della presente ci vada malvolentieri in banca, laddove, però, sostano pure i suoi quattro risparmi; non v'è benevolenza nei suoi confronti e verso la sua pelata.
Allora leviamoci da questo centro di Vita; poco più in là, prendendo la viuzza a destra e costeggiando quella fontanella con due agnoletti intenti a carole, si può benissimo scorgere la piazza del Mercato, oggi appunto occupata dalle bancarelle.


Ma il protagonista del presente racconto non amava comparire tra le bancarelle del mercato ovvero nelle vie dei negozi mandorlati. Per lui la giornata si divideva in due tronconi netti: la mattinata a scuola, ove copriva come poteva il ruolo di supplente di Lettere, e la sera, quando, a meno che piovesse o nevicasse, amava passeggiare tra le vie della città osservando, e un poco invidiando, la vera vita.
Aveva amici di vecchia data, quelli che le Parche ti danno sul principio del loro filare, tra i banchi delle medie e poi del liceo: alcuni persino colti sul tardi tra le mura degli atenei; me nessuno di loro viveva nella città e li incontrava di rado, sbocconcellando, in quei casi, triti e ritriti discorsi di non-vita, non-successo, non-lavoro. Nell'ennesima scuola della sua odissea da supplente, aveva colleghi e colleghe, coi quali condivideva solamente questioni educative, programmi cartacei, sedute in consigli di classe, per consigliarsi sul come sbarcare pupi in livelli più o meno alti: suonata la campanella, gli zaini fuggivano ratti e lui appena dopo, dimenticandosi spesso persino di salutare. Non è che non gli piacesse insegnare: se ne stava in aula passando da giornate in cui l'entusiasmo elocutivo lo faceva persino sfarfallare, ad altre in cui si sarebbe volentieri eclissato.
Fuori dalle aule brancolava e si nascondeva nel silenzio. La vita gli scivolava via come i palazzi appena sfiorati lungo il ritorno nel suo monolocale che si succhiava mezzo stipendio; proprio come nel suo caracollare diurno, quando talvolta alzava gli occhi dal marciapiede volgendoli verso qualcosa che lo aveva incuriosito, anche nei suoi anni migliori aveva avuto le sue curiosità soddisfatte, qualche giornata campale, qualche protagonismo seppur di infimo livello.
Poi aveva chiuse le verande. I suoi occhi non vedevano più il presente davanti al lui, ma sempre più in là, dove però la nebbia umidiccia della negazione ovattava e poi annichiliva ogni pensiero che i saccentoni dicono positivo. In verità tutte le vite, vere o presunte, si sfarinano in poltiglia insignificante, ma se scopi sempre la polvere sotto lo zerbino, ti capita di diventare vecchio pensando ce davanti a casa tua sia tutto ben pulito.
Il nostro fissava la vita sgranando gli occhi, così la vedeva talmente bene che ci passava attraverso, notando sempre e solo cosa ci sta al di là: nella sostanza lui non viveva proprio. Figuriamoci come poteva essere notato da chi sbranava i grappoli delle occasioni lordandosi sempre e facendosela addosso spesso: l'ingordigia degli affamati e dei golosi non rendeva certo questi granché propensi a vedere la quotidiana condanna dei Sisifo. Tutta la città trasudava di indaffarate esistenze, di corse speculative, di lotte di Venere, ormai resa avida pure lei e sempre meno callipigia.

E c'era un luogo in cui tutti si ritrovavano, soprattutto quando il buon Apollo andava a coricarsi dietro i monti e le speculazioni diurne si davano requie: vicino all'incrocio tra le due arterie principali, al limitare del quadrilatero che dal medioevo determinava il centro della città, faceva bella mostra di sé la statua d'un antico eroe chiamato Arnaldo che dava così il suo nome pure alla piazza tutt'intorno. Locali adibiti a bar, a negozi di abbigliamento, ancora a banche, lo caratterizzavano: di sera erano i primi a farla da padroni, con insegne visibili solo frontalmente e manipoli di sedie e tavolini su quelli che dovevano essere marciapiedi. Per passare ci passavi, ma tra l'ingresso e i clienti seduti, per un pertugio che ti faceva sentire invariabilmente in mezzo ai piedi: così preferivi scegliere la strada, rischiando di finire sulla carta quotidiana come l'ennesimo disattento investito dal giustamente frettoloso pilota.
Dimenticavo le magnifiche esposizioni di automobili parcheggiate in doppia fila, nei pressi dei bar, cioè ovunque, dato che i proprietari non amavano ledere le suole dei calzari e le loro ganze proprio non potevano rischiare di perdere l'altezza dei loro vertiginosi trampoli. A volte un improvvido vigile urbano passava, taccuino ferente, ma poi si accorgeva che ciò che di sera parevasi multa, di mattina era carta straccia sotto il tavolo del tal assessore.
La piazza viveva tutto il giorno: di mattina soprattutto impiegati a colazione e pranzo, massaie dirette come treni verso altre vie, studenti scioperati o in inutili dialettiche, anziani eternamente scocciati e nostalgici dei mores maiorum, venditori di chincaglierie prestamente allontanati, garzoni spericolati su biciclette sive motorbikes, scolaresche o turisti attirati, i primi, controvoglia, i secondi penso per scelta, dal vicino museo e dai fasti di romana antichità.
Il pomeriggio la stanchezza segnava i volti, i piedi erano ancora più veloci dato che il tempo era pur sempre tiranno, e qua e là, le prime soddisfazioni perché già la sera s'appropinquava.
Ed infatti scendeva, come detto, Apollo e piazza viveva qualche istante di requie: breve, visto che subentrava in fretta e furia ebefrenica l'ora dell'aperitivo. Allora sì che la piazza s'adornava il manto di succulente vita; allora sì che il futile spallava via l'inutile indaffararsi del lavoro, che gli affari veri, bramati, e desiderati sin dal mattino, trionfavano sul dovere imposto dai padroni.
In verità l'autore queste cose non le comprende, essendone ignorante; ma in quell'ora dell'aperitivo sembrava condensato il senso di tutta una giornata, di tutta una vita.
Sorrisi smaglianti, intese di abbracci e baci e trilli di cellulari; profumi inediti e inconcepibili di mattino, accordi veloci senza trattative: in pochi istanti di bicchieri tintinnanti e olive annegate, i protagonisti siglavano la sera e contratti di varie spezie.

Di fatto poi la piazza assisteva a nuova pausa e poi s'accendeva la sera, protagonista poi del presente racconto.

L'amore aveva bussato alla sua porta, del resto bussa a quella di tutti, o no? Pressapoco nell'età in cui i pensieri nascono e riescono a morire nell'arco di una giornata, i capelli lunghi e biondi di una compagna di classe erano entrati nei suoi sogni compensatori e di giorno gli impedivano di favellare con sicurezza. Come una bella folata di vento caldo che, a dir il vero, scalda i cuori solo dei poeti, il nostro s'era sentito scombussolare all'improvviso e non gli era piaciuto, anche perché l'apparecchio per allargare il palato non lo favoriva certo, anzi: guardava la fonte di tanta illogica combustione con un misto di paura, attrazione, emozione, orrore e via dicendo. Che fosse l'afflato numinoso ce lo teniamo per noi. Venere lo aveva additato a suo figlio e quella fu la stagione del suo primo amore, probabilmente il più puro, quello almeno più vicino all'essenza cristallina, scevra della realtà: oh, questa irruppe mesi dopo che la passioncella s'era scemata, dietro ad una nuova fonte, si nera chioma. Così volubile l'animo umano, quello adolescenziale poi... che grande fortuna vedere nuovi occhi scuri, contornati di manto corvino e perdere di nuovo il senno raziocinante. La biondina gli chiese conto del primo amore, ma lui era al secondo e non ci fece caso.
L'età delle scuole passa al rallentatore: sembra sempre di vivere attimi eterni, così importanti, pieni di determinanti questioni. Invariabilmente invece gli anni passano e ci si scopre con meno capelli e meno tempo a disposizione, visto che Crono inizia a farlo correre ossessivamente. Così come si può rimproverare a qualcuno di aver preso strade diverse dalle nostre e aver visto le stagioni ruotare vorticosamente fino a non comprendere più che c'è un momento per ogni cosa e se lo lasci passare, non ha più senso cercare di recuperarlo? Il nostro rimase solo perché solo era nato: mettiamoci certe sue fisime legate all'aspetto fisico, mettiamoci della fellonia esistenziale, mettiamoci un senso estetico non conforme alle sue possibilità, mettiamoci la contingenza che non si fa mai i fatti suoi: mettiamoci quel che vogliamo, all'epoca del racconto il tapino era finito ai margini della vita attiva. Un lavoro, pure se fosse gratificante, non riesce certo a coprire il fabbisogno mentale di un individuo, figuriamoci il suo, per nulla soddisfacente: una affettività mai sbocciata, repressa in involuti alambicchi, non educata nella mano nella mano, nei baci rapiti sotto casa, nelle veglie in attesa del guiderdone, nelle sedute al cinema senza alcuna attenzione per la trama... una affettività sacrificata all'altare dell'esigenza puramente naturale, dove volete che conduca, sennon alla trappola, al cul de sac. Invero ci avevano messo del loro pure i tomi divorati al lume sulla scrivania, o ai raggi di un sole marino che doveva essere utilizzato diversamente: certi fanfaroni russi, francesi, italiani lo avevano intortito per bene, esasperando quel che la natura arpia gli aveva donato, come semplice difetto. Ingigantito e reso bolso da mille pensieri distruttivi, aveva scambiato la realtà col sogno e il pensiero coll'azione, rimanendo appunto ai margini.