sabato 14 novembre 2009

Abbandono 2

Fermo come una pietra miliare sul ciglio della Statale, A guardava il monotono traffico del sabato pomeriggio: argonauti verso il Vello d’oro accudito gelosamente nei Centri Commerciali, mamme a pigliare i loro pupi dopo la catechesi, dopolavoranti sulla rotta del campo a sei per scaricare l’energia repressa nella settimana correndo e tirando ai garretti contendendosi la pelota, semplici perditempo come lui, bimbe in troppo belletto e poca sottana, stranieri dietro ad invisibili fili di misteriosi doveri.
Lontana la ruota della vita cigolava nel suo eterno moto. Eppure lui, immoto, pareva evaporato dal presente e sbalestrato in un qualche passato, o futuro, chissà.
Si scosse solo perché Apollo aveva mutato opinione e riscaldava un po’ più in là e si spostò pure lui; dall’altro lato della strada la Cooperativa gli parve un cadavere abbandonato perché nessuno sa che farsene: anni addietro era un attivo mini-market e pure A c’era entrato spesso, per sé per esigenze altrui. Ricordò la cassiera, florida bionda poi smagrita e involata in un altro paese dietro alle fiaccole nuziali. Il profumo del persciutto cotto gli sembrò svolazzare sotto le nari come un tempo fa: pia illusione, come quando ci si fa certi d’aver sentito voci o sussurri nel buio della notte ed è invece la disperata solitudine.
La serranda della Coop non tradiva dubbi nella sua fatiscenza, nella ruggine decorata con polvere nera; un vetusto dagherrotipo si frappose tra la realtà e il ricordo: i binari del tram che scendeva da T verso l’urbe, tutto in bianconero e A si ritrovò a formulare una domanda a se stesso: perché mai s’era rinunciato al tram? Non sarebbe stato ancora comodo sferragliare verso i calli cittadini senza i rompimenti di palle del traffico?
Un trullo dal suo cellulare: un sms, un suo sms, un altro? No, un volgare scherzo della tecnologia: era una copia fluttuante nell’etere di quello ricevuto in mattinata, quello definitivo, lapidario: -è finita! Con punto esclamativo per innalzare la voce in grido, bercio. Faceva seguito ad una telefonata della sera precedente, in cui lui s’era impegnato nella parte dell’innamorato ferito e aveva inscenato sgrondamenti di sangue dal cuore e di lagrime dagli occhi pesti di dolore. Ma lo sapeva bene che era finita. E non quel giorno ma sei mesi prima, quando lei era salita sull’aereo per Albione colla scusa dell’Orgasmus.
Due giorni prima, passeggiando per il paese senza meta veruna, s’era imbattuto nel P: i soliti ameni saluti e commenti sulle vicende calcistiche e poi il saggio carpentiere gli disse: -oh, ieri ho visto la tua R, giù in posta; sempre quei fianchi eh, da stantuffo, eh, beato te. Ma non l’era partita? E ad A era pure toccato di inventarsi delle fanfaluche così a braccio per non far capire che scendeva dalle nuvole come un perone marcio. Quindi era tornata e lui non ne sapeva un cacchio. Tornato a casa la faccenda non gli parve più così maleducata, anzi prevedibile, naturale, dovuta. E appollaiato in poltrona sapeva che così le cose vanno.
Poi lei era andata a casa sua: l’aveva vista dalla finestra in soggiorno; solita macchina rossa con le fiancate decorate da graffiti teppistici e gomme lisce come l’olio. Era scesa in un effluvio di rossi capelli e shampoo, in gonna corta e calze colorate, viola-nero, e tacchi. Borsetta sempre appesa alla spalla e ciondolante, manco aveva suonato alla porta: era entrata e basta.
Infatti nella sua vita era entrata e basta.
Donne come R non bussano mai, non chiedono il permesso: pigliano. E poi, quando mutano idea, se ne vanno lasciando dietro si loro code di panico e cuori spezzati.
Vedendola per la prima volta, in un negozio di articoli sportivi, A le aveva osservato le caviglie: erano tipiche di fanciulle che camminano, che non stanno ferme e ricordò il grande americano quando scrisse dei fianchi che salgono su per le scale degli aerei. Al bar vicino al negozio l’aveva conosciuta, dato che gli pareva gran peccato lasciar fuggire via quella cascata di capelli rossi; e s’erano frequentati. Lei faceva l’università e vantava dieci anni di meno di A; lui le offrì la sua conoscenza artistica e, finché questa le bastò, andarono d’accordo, ma non d’amore, eh. Quello, l’amore, lei lo faceva più per dovere che per trasporto emotivo o piacere: anche in ciò che sarebbe dovuto essere naturale si tradiva l’artificiale o artificioso. Giocava alla ragazza del libero pensatore. Ma quando s’accorse che più che libero era nullo cominciò a sbattere le ali per il suo inevitabile volo.
A le disse spesso, soprattutto osservandole i boccoli sbarazzini sulle spalle, che lei sarebbe partita e che era innaturale il suo restare radicata al paesello: qualcuno sarebbe sempre rimasto ancorato alle proprie radici e qualcun altro doveva invece rispondere al vecchio dovere di visitare il mondo e le genti. Lei sorrideva onesta.
Quando si presentò l’occasione dell’Orgasmus a sorridere fu lui: -vai.
R tremava dall’emozione perché avrebbe potuto finalmente levarsi dalle pastoie della famiglia, dai pesi: -vieni anche tu, vivremo insieme. Qui lui allargò le braccia e le mimò un volo impossibile. Ciò che seccò abbastanza A fu il vuoto chiedere di aspettarla, di non tradirla, di darle fiducia: lei avrebbe mantenuto fede alla loro storia. Quanto di tutto questo c’è di naturale? Nemmeno R credeva in quelle frasi belle e finte, nelle rose senza vita proprio perché durino in eterno.
Fu un errore scuotere la testa? Non fu disprezzo, ma obbedienza alle leggi di natura.
L’accompagnò all’aeroporto perché così s’addiceva ad un moroso; l’abbracciò prima che lei passasse il controllo del passaporto e poi se ne andò senza aspettare il decollo.
Poi il vuoto; nessuna telefonata, nessuna mail: così le aveva chiesto, timbrando di fatto la fine della storia.
Sulla strada era scesa l’ombra della sera, poiché il biondo Apollo s’era imboscato dietro i monti; A cancellò pure il doppio sms. Aveva finto una offesa di rito, la sera prima, chiamandola: gli sembrava giusto non accontentarsi dell’addio che lei gli aveva detto venendo a casa sua, tutta trionfante, nella sua bellezza di rubino. -non mi hai mai cercata? è finita, e la colpa è tua!
A la guardava dal basso verso l’alto, visto che manco s’era alzato dal divano: il seno sembrava cresciuto e le labbra più carnose: era bella e conturbante come un bacchico carnevale; l’avrebbe morsa volentieri e, lì per lì, la desiderava. Ma più potè la freddezza che il digiuno. –vabbene, è finita, come ti avevo detto. Lei era rimasta un secondo più del previsto ad osservarlo, così ebete, inetto. Poi era uscita sibilando: -sfigato. E aveva sbattuto la porta. Classico.
Poi A l’aveva chiamata per giocare all’amato deluso e al cuore infranto, ma più per noia che per sentito dovere. Manco aveva avuto la giusta intonazione: le parlava di dolore e vedeva i fianchi stantuffanti con altrui anche. E quando si trovò a sorridere chiuse la comunicazione.
Poi, alla mattina, l’sms; replicato nel pomeriggio, per celia.
A si avviò verso casa, dove nulla lo aspettava e dove lui non s’aspettava più nulla.

giovedì 12 novembre 2009

Abbandono

L'aveva guardata bene fissa negli occhi cerulei, cercando mentalmente nell'archivio letterario qualche bella frase romantica, o post-romantica. Afferrarle le mani pareva esagerato: chiunque avrebbe così stanato l'affettazione. I secondi passavano come sempre inconsapevoli del rimuginio del suo cervello; poi in un'altra stanza il trillo giocondo di un cellulare e lei si era alzata rompendo di fatto nessuna comunicazione: e lui l'aveva osservata ancheggiare in poca stoffa e a piedi nudi verso la cucina. Vista da dietro faceva sempre una figura migliore che da davanti, con quell'ingeneroso seno e gli occhi sempre troppo spalancati in doppia ellisse, o triplo “o”, mettendoci pure la bocca solitamente pronta a pigliare mosche.
Tutti questi benigni pensieri gli sfarfallavano veloci nella testa come estemporanei sottotitoli, ove il titolo l'era bello fissato: lasciata bionda mozzafiato (analmente parlando et cum gratia).
Quindi giustificazioni a strati di torta perché scelte perentorie, da vero uomo, mica ne sapeva mai prendere: e continuava a guardarsi attorno mentre lei parlava al cellulare, di là, in cucina. E cercava consensi, lui, dai soprammobili o dai poster appesi alle pareti: cantanti di dubbia fama e lattine di cocacola in improbabili collage post-moderni. Finché s'era fissato col guardo su una saggia mosca; savia perché planata bel lungi dalle sue mani assassine; gli parve muovere sua costa e proferire verbo: -ma tu, sfigato, una così, e quanno mai te tu la ritrovi? Vero. E quando l'aveva trovata?
A quel tempo non guardava più nessuna: vinto dalla sua umana, troppo umana, inettitudine, aveva deciso di non osservare più niente che non potesse poi avere (sennon pagando); cosa o persona faceva lo stesso. Così coi gomiti ben piantati sul tavolo di quella birreria, ciarlava coi sodali di macchine, moto e siccome d'aria fritta e non si curava del contorno, né di altri clienti, né di cameriere, del resto ben memore di Huysmann.
Sapeva essercene una nuova, straniera di Slavonia, con notevoli terga e crin biondo, ma all'epoca era come ripiombato nella fase orale, ove bramava poppate da gigantesche mammelle. E comunque, anche senza guardarla né sapere niente di lei, l'era certo, come che l'ovo l'è ovo, di non esserci nulla in comune né possibilità alcuna di intavolare benché minimo discorso colla callipigia. Quindi ciarlava senza costrutto.
Da qualche anno non seguiva più nemmeno il filo dei suoi discorsi, né seri, né faceti; né coi sodali, né con parenti o conoscenti: lasciava che l'estro e la contingenza mentale costruissero idee e opinioni a cui far seguire persino giustificazioni e accorate conclusioni. Senza però mai crederci: chiusa la ciarla ritornava nella sua gabbia mentale ove trastullarsi con sparuti poeti, solinghi romanzieri ed ebefreniche nereidi sul video del PC.
La realtà? La sua realtà era il continuo produrre e distruggere bolle di sapone in una stanza quadrata con una sola finestrella munita di quattro barre e una porta mal chiusa; costruita con mattoni educativi e rabberciata d'edificanti elucubrazioni, come seghe mentali. E il mondo fuori continuava il suo giro.
Se qualcuno gli avesse chiesto: -ma tu? Avrebbe replicato: -perché io? Versava frottole in un vaso buco, almeno sotto richiesta; altrimenti se ne stava lì fermo con la Comedia nella ritta. Spinto dai suoi due tre imparruccamenti di psicanalisi s'era convinto a rinovellare dell'energia volitiva, focalizzandola verso un obiettivo concreto ed arrivabile: le due-ruote. Simile alla femmina, almeno nella sua gioconda immaginazione, la moto gli avrebbe dato euforia ed ebrezza, panico e bellezza; tempo di far guide ed esame e la mente s'era ingoiata l'illusione sputando fuori brandelli di disincanto. Altro che gabbiano e pesci: in lui s'era verificato un cortocircuito e, in breve, la volontà di riuscire era finita sotto lo zerbino, fuori dalla stanza ove solingo conduceva inutili voli pindarici.
Un amico gli fece notare la gonna alquanto corta della bionda cameriera: lui si voltò e in realtà, rimase colpito dal roseo incarnato delle mani e se ne volò verso terre slave, in città nevvero mai visti, in case edificate all'istante dalla sua immaginazione: e vide le stesse dita attorno al crine di una bambola di pezza, e della stoffa cremisi. Gli capitava spesso, sin da piccolo, di osservare delle persone e costruire loro attorno dei supposti mondi e non erano mai belli né sereni. Gli bastava un guardo, una voce, in gesto e subito dava a quei sogni ad occhi aperti delle sfumature diverse.
Il bello era che poi, quelle fantasie, passavano il segno e condizionavano la realtà delle sue opinioni circa quelle persone: diventavano vere nella sua testa, quindi assolute.
Allora quella cameriera doveva essere nata povera, con padre violento e caracollata qui in carovane di sofferenza; non era felice e cercava mantenimento. Quanto ci fosse di semplici archetipi in quei pensieri, lasciamo perdere; ma una riflessione concedetemela: in effetti per ciascuno la realtà è quella che in noi è supposta tale.
Guardò l'amico e replicò che sì, quella aveva un bel posteriore, ma un po' troppo scarna innanzi. Ma, in fondo, nelle oscure latebre del desiderio, l'impressione data da quella fanciulla, l'era un bel po' più profonda.
I giorni eran passati amorfi perché senza forma si trascinava il loro protagonista, finché un pomeriggio capitò che piovesse a dirotto, con inverecondi scrosci e lui corricchiava trattenendo a stento l'ombrello, impossibilitato però ad evitare l'ammollo. Era una persona generosa, questo glielo si deve: come tutti quelli che non han precisa direzione, a volte, sapeva cavalcare idee mirabolanti e parere valoroso. S'avvide d'una donna in difficoltà: tutta schiacciata contro un muro nel vano tentativo di proteggersi dalle secchiate d'acqua, cercava con frenetiche occhiate, un riparo o almeno un'anima pia, e la trovò nel nostro eroe. L'ombrello e il suo corpo sarebbero stati un buon puntello per raggiungere un luogo coperto o la casa, o l'automobile di quella persona ancora a lui ignota. E corse in aiuto.
Dall'altra stanza non proveniva verbo comprensibile: ogni qual volta lei parlava coi suoi paesani ripiombava in un mondo a lui ignoto, nei volti e nei luoghi. Mistero assoluto, oppure mezze parole, più storie strambe che altro. Ma, volendola abbandonare, questi vuoti gli avrebbero resa la faccenda più facile: poteva persino pugnalarla con frasi di grande effetto come: io non so nulla di te; oppure: abbiamo cavalcato ma della tua vita che ne so io? E variazioni di tal tono ed argomento. Questo se lei si fosse messa a piangere davanti al gran rifiuto di trarre innanzi la loro storia principiata sotto Giove Pluvio: e, a parer di lui, le lagrime sarebber scese certamente.
La pioggia appunto. Lui era corso verso lei dicendole: -serve una mano? L'aveva protetta con l'ombrello finendo lui a favor d'acqua. Non la riconobbe subito così fradicia, ma poi ch'ebbe sorriso e ringraziato, la bocca feminina e i boccoletti bbiondi fuggiti in cerca di latebra dall'immonda goccia, gli rivelaron l'arcano. E si avviarono verso la birreria ridendo giocondi e salvandosi a vicenda dall'annegamento certo. Cominciò così.
Qualche tempo dopo il nostro ebbe a chiedersi il perché di tanta facilità di successo: dal fascino suo ascoso vieppiù, se ne piombò nel buio del sospetto che lei la fosse un pochino vanerella. Eppure ciò non gli impedì di gonfiarsi a mo' di pavone tronfio e di ingigantirsi a gran Don Giovanni. S'andava ripetendo che non gli piaceva poi così tanto, che, in fondo, lui le faceva grande onore standole assieme.
Gli pareva d'essere doppio eroe: quando la sentiva elogiare d'altri, lui si inebriava di gloria conquistatoria: chè più difficile l'è la preda, migliore l'è il cacciator che l'ha agguantata al volo o colla rete truffaldina; e quando voleva pensarsi benefattore, le trovava i mille difetti facendola sartina e lui principe o satrapo. Nella sua testa giganteggiava sempre. Eppure doveva avvedersi almeno che non faceva mai un passo verso le esigenze della fanciulla: preso dalla sua immagine, vera o supposta, e succube della tendenza a giustificare ogni suo pensiero o azione, non si chiedeva mai che cosa potesse volere lei.
A volte la poverella sgranava tanto d'occhioni dinnanzi a certi vuoti di comprensione; oppure li abbassava vereconda sperando nell'affetto di colui che le era parso comprensivo, attento, gentile e premuroso. Ma lui scambiava le mute richieste per gesti di sottomissione e grandeggiava; oppure le chiedeva di voltarsi non distinguendosi dalla ferinità comune e banale.
L'ammirazione dei sodali cresceva perché notavano i sorrisi e l'accordo da lui così benn simulato: giocava a fare il morosino ma non mutava alcunché della sua scialba quotidianità. Un raggio di sole lo illuminava e lui non sapeva che pavoneggiarsi dicendosi: -come sono bravo, bello e generoso; invece che: -come sono fortunato. E nel colmo della sua stupida teatralità s'inventò il colpo di genio, il fulmine in chiusura: l'abbandono.
Si vide assiso in trono, fulgente nell'oro e nella porpora e lei prona in abiti sdruciti; e da Zeus Tonante l'avrebbe fissata tremendo negli occhi già tremanti e: -finisce qua.
Qua, qua, qua, qua, che male fa chi se ne va?
Capite pure voi che può fare la foiosa immaginazione senza i freni della ragione?
Dicevo sopra che l'era certo delle lagrime grondanti copiose non appena lei avrebbe inteso: già la vedeva trasfigurare e scolorarsi in viso; l'avrebbe implorato di recedere nelle intenzioni ma lui si sarebbe erto col petto e con la fronde, come avesse le femmine a gran dispitto e: -ho deciso; forte, sicuro come il fulmine di sé sicuro.
S'andava ripetendo la favoletta che l'era ormai gran conquistatore e che sarebbe mutato in mostro gigantesco, almeno nelle opinioni paesane; ma poi ancora un cangiamento covava in cuore: sublime magnanimo. Questo perché avrebbe recitato per qualche settimana la parte del freddo abbandonatore ma, poi, vinto dall'altrui patire, sarebbe tornato generosamente sui suoi passi e le avrebbe concessa la seconda possibilità. E così lei non sarebbe stata certo più reticente per alcune piccole concessioni che lui da tempo le chiedeva lascivo.
Orbene, tutto questo costituiva il pastolotto ben cotto nella sua testa; ma, entrato nella casa della tapina nel giorno stabilito pel grande affronto, non era più ben convinto del discorso da farsi. Teneva molta fiducia nella sua elocuzione, ma quante volte capita che due occhi tremolanti ci mozzino il fiato e sfarinino le parole che sicure già albeggiavano dalla gola? Ecco perché quel trillo di cellulare non era poi così infausto: lui s'era impappinato.
Oh, convinto era convinto; la cosa sarebbe stata fatta; eppure non aveva ben ponderato il periodare da usarsi in simile tenzone, e la letteratura non gli veniva in aiuto. Ma ce l'avrebbe fatta. Non le lagrime, non gli occhi, non i boccoli e la seta mal certa nel nascondere la carne, non le terga, gli avrebber mutata l'intenzione: e così attendeva il ritorno della callipigia.
E lei venne. Un po' rossa in volto, doveva aver discusso, si muoveva a scatti veloci, finché gli si piantò davanti e a lui parve opportuno tossire. Attimi di silenzio. Poi la bionda cameriera parlò: -stasera arriva il mio ragazzo dalla Bulgaria. Devi sparire e non farti più vedere, sennò t'ammazza di botte.