domenica 26 agosto 2007

Ogni mattina

Ogni mattina, che sia benedetta dal biondo Apollo o bagnata da Giove Pluvio ovvero coperta dal bianco manto che tanto può esser gradito in Pezzeda quando bestemmiato on the road, apro il portone del garage e porto la vecchia quattroruote bianca sulla Statale, pronti entrambi ad affrontare il serpente d’asfalto tra la media Valtronfia e Santa Femia. Né l’automobile si chiama Argo e né io Giasone, ma il viaggio verso il Vello d’oro degli Argonauti, cari miei, mi pare uno scherzo se confrontato con i miei ventinove chilometri all’andata e i medesimi al ritorno: cosa sono ventinove chilometri? Il sottoscritto ha fatto un giretto a Melbourne e ha soggiornato ad una considerevole distanza dalla City, ma, a seconda dei suoi umori e dall’urgenza, poteva pigliare il treno, o il tram, o l’autobus oppure uno dei milioni di taxi e coprire le distanze senza tanti esaurimenti e travasi di bile: un giorno dissi ad un autoctono curioso: -guarda, da noi, per andare in città ti ci vuole una buona ora, se sei fortunato, e son una ventina di chilometri. Non mi ha creduto, manco fossi un mercante di buaggini. Ebbene, ogni mattina, senza tante cerimonie, mi iscrivo alla Grande Corsa verso la Leonessa, e il premio, lo sapete benissimo, sono gli euri dello stipendio, che ben servono anche a mantenere questa deliziosa competizione, fornendomi la benzina, l’assicurazione, il medico per l’automobile, che, poarella, risente alquanto della sua età e degli strapazzi. Ma oggi è sabato, signori, oggi in tanti ancora stan sotto le coltri, e alle otto del mattino pochi forzati mi fan compagnia: sicché eccola qui, la Statale, questa biscia grigia che non riesce a stare ferma… e cambia, cambia in continuazione. Sembra un fenomeno da mente aliena, ma questa strada, l’è viva! È ufficiale, non può che essere un organismo vivo che subisce continue mutazioni: ora presenta un fenomeno curioso: la rotondite. Le spuntano sul dorso continue rotonde, come tracce attorno purulenti foruncoli, il cui sfogo potrebbero essere i talenti dei contribuenti, Giove assenziente. Non sono che uscito dal mio paesello( pure lui, sia lode a Bacco, finalmente, ha un semaforo!) ed ecco il primo mezzo giro di tango: mi inrotondo (il termine è mio, ché mi sento un po’ D’Annunzio) guardingo e solingo, di sabato non v’è da essere tanto attenti… ma nei ventitre o ventiquattro, chi può dirlo con certezza?, rondò successivi, come potrò pagare l’attenzione, come si dice nella perfida Albione, senza distrarmi, dando sempre, sempre la giusta precedenza? O come potrete voi, cari compari di viaggi e disavventure mattutine e serali, che avrete pure i vostri problemi, i vostri pensieri, star sempre in campana? Ma la strada a questo non pensa, e muta, muta come il vento, come la fama. Nel vialone che guida a Santa Femia la mutazione genetica l’è stata alquanto poetica o pornografica: ti pare di adocchiare le gobbe di cammelli, le pelate di giganti sottoterra conficcati, o invece le poppe di belle signore stese al sole mattutino d’un sabato come un altro. Non c’è che da guidare, stare attenti e pagare: benzinaio, assicuratore, psicologo ed, un dì, il becchino: ma questa è la vita.

domenica 19 agosto 2007

Amami

Amami. Eh? Che hai detto? Che è questo pispiglio? Mi volto nelle coltri, appeso ancora alle fantasie del sogno abortito, masticando ancora lacerti come brani di pellicola sbrindellata da un mastino napoletano o dal Bull Terrier che vorrei avere, Silla Lucio permettendo. Che era il sussurro? Avrò sognato. Mi rivolto odorando il mio lezzo, strusciando la barba sulla salvietta che dovrebbe coprirmi gli occhi; da quando dormo senza cuscino… piombo nel sonno come sasso nel pozzo, mi perdo ancora dietro alambicchi, le ragnatele di Morfeo, il dorce naufragar in questo pelago stronzo… Amami. Ancora? Ma che diamine è? Allungo il braccio e ti cerco. Dov’è il tuo collo? Dov’è la tua schiena inarcata quando ti prendevo da dietro? Dove i crini bionni? Ah, ma non ci sei. Deve essere il sussurro del Mella, il rantolo che secoli udirono e secoli udiranno, sogno io allora, polvere e vermi io. Sarò. In effetti ci si abitua a qualunque rumore, che sia treno, macchine, berciare di ubriachi, mare ovvero fiume. E lo si può scambiare per la voce del passato. Resto supino col membro ritto nella sua solitudine, sembra Capaneo ritto in mezzo al pube nero. O Vanni Fucci che squadra le fiche al dio dei suoi padri. E dei miei. Sorrido al buio. Il gorgo: oscuro gurgite, in cui ripiombo. Amami. Uh, che coglioni! Mi metto a sedere: mi volto ma non stano i tuoi capelli neri, la pelle diafana che eppure dovria prillare nel buio. Cerco il seno duro (cerbiatti, cerbiatti… ricordo la Cerbiatta, lesta molto, ma tu avevi altro nomignolo coniato dai Bighellonauti) ma non v’è altro che lenzuolo sfatto e calore personale. Riedo steso. Bastarda mente piantala! Lasciami dormire il sonno del giusto. Giusto chi? Mah. La caduta. No, non c’entra Camus adorato. La caduta: quando sogni di cadere e ti risvegli spaventato: barlume dell’ultimo balzo, oltre il sogno, oltre le noie, oltre. Mi riperdo il filo di Arianna. Amami. Ma la pianti? Lasciami dormire! Vuoi che ti parli da vicino? Dove sei? Con un volto che non conosco, con un odore che non sento, con tocco che non percepisco. Come ti posso trombare se non ci sei? Quale pube nel letto solitario? Da dove sbuchi? Lasciami la mia notte d’intenti! Che palle. Che. Odi? Dici? Didaci? Di? Che valore ha il linguaggio in bocca piena di merda? Forse ho fatto del cul trombetta. Addio monti. Amami. Uffi. Vabbè. Ti amerò come il cane il padrone. Come il marito la moglie. Come l’ape il fiore. Come il tossico la siringa. Come Andrea sé. Come me i capelli neri, biondi, rossi. Che cazzo. Amami tu e non rompermi i coglioni oltre. Amami. Vaffanculo. Scusami. Sarò gioppino 4ever. I’ll be what I am: a solitary man.

lunedì 13 agosto 2007

Allegretto

Portami nel Paradiso, dove l’erba è verde e le ragazze sono carine; portami nei Pascoli del Cielo dove si può camminare scalzi, dove le vesti non servono, sennon per carezzare le tue danzanti gambe al suono del flauto di Pan; portami nella lontana Shangri-la dove ci immergeremo nel Lete e dimenticheremo i gas di scarico delle automobili e le strombazzate ai semafori; portami nell’Eden dove senza coperte a scacchi blu e rossi, ci siederemo sull’erba e affogheremo i denti nella polpa di banane giganti modificate da Majin Bù; portami nel Giardino di Venere dove gli alati Amorini volteggiano su sghignazzanti bimbette in ammollo nel latte di capra Amaltea; dove il giovine Bach può pigiar i tasti d’un clavicembalo d’oro seguendo il refolo di una ispirazione mareotica; dove sfrenate gighe ci fiaccheranno le membra fino a farci piombare sfiancati ai piedi d’un sicomoro in fiore; dove dalla roccia zampilla Falerno e, dentro una pignatta, Medusa volge attenta la polenta Taragna mentre Azazel ravviva il fuoco; dove Aracne industriosa ti preparerà il vestito e Imeneo studierà il canto per le nostre nozze, da celebrarsi di fronte al Torquemada, testimoni san Pio V e il buon Valdo; portami giù veloce come una baccante, guida il carro trainato dalle tigri, coi crini scarmigliati e i capezzoli rigidi nel voler superare la perizia assurda di Fetonte; portami alla fonte Bandusia, immergici la mia testa e tienila sotto così che mi esplodano le orecchie e più non possa sentire altro che le tue carole. Le vent nous porterà…

lunedì 6 agosto 2007

Tilt

Qualche buontempone biancovestito c’ha studiato alla scola di Freud poco peripatetica, o a killa di Jung, se ne verrebbe fora a dire che l’è normale caso di sdoppiamento tante vorte schizofrenico, tipico di una disordinata o totalmente assente attività vàevienesca ovverosia trombatoria. E, seduto innanzi al predicatore di foiose teorie, gambe incrociate a difesa dei gioielli, potrei assentire: salvo che sdoppiamento mi parrebbe riduttivo: e preferirei immaginare una girandola di maschere, un guazzabuglio truglioso di facce. Sempre a difesa di un Io molto cacasotto. E sbufferei sicuramente sostenendo che qualcuno a spasso per l’orbe colla vera sua faccia bell’esposta, io mica l’ho ancora visto, anzi, mi pare che la mascherata sia uso e abitudine ben radicata nell’omo moderno o presunto tale, finché non l’è passato, vecchio, cadavere marcescente. Almeno io non fò mistero di recitare. È che sempre più spesso mi capita di soffermarmi, rapito da immagini e ricordi del passato procelloso e restar lì attonito con un pensiero: ma li avrò vissuti davvero io quei momenti, le avrò dette io quelle parole, oppure l’era un altro, oppure me le son immaginate quelle situazioni? Potenza della verità assoluta che solo il presente esiste: l’hic et nunc nudo e crudo: solo questo si può vantare dell’esistenza. Non certo il futuro; ma nemmeno il passato, discarica dove il vissuto finisce per essere troppo spesso manipolato, colorito o sbiadito ad uso e consumo… e risputato fuori diverso. È cosa normale rievocare i tempi andati imbolsendoli di fanfaluche… quanti tapini lo fanno; ma il sottoscritto no: il mio passato raccontato quando a qualcuno interessa conoscerlo, mi balza fuori dalla bocca ignudo e vuoto di invenzioni, semmai scarnificato, all’osso, quasi che io abbia paura di sentirmi accusare di menzogne. La questione precipua non è però questa. È nella mia mente che il passato subisce un collasso: rievoco l’accaduto ma con la mente di ora ed inevitabile è il quesito: ma come l’è possibile? Ma chi era colui, cioè io? E molti fatti slittano in un tempo che ricorda l’età dell’oro, il mito, la leggenda, la favola, la fola. I fantasmi del passato sembrano recitare su un palcoscenico inammissibile… ora. È così che a ritroso si stana l’inganno che nutre in continuazione il presente: nelle maglie di ciò che è accaduto s’annida l’illusione che gli dava consistenza e lo nutriva. Spianato dal caterpillar il passato perde consistenza, coerenza, si sfalda nell’incomprensione, denuncia tutta il suo scandaloso nudo: il tutto era già morte e degenerazione. Sicché non è nemmeno più il presente a preoccupare, assassinato in continuazione dalla nullificazione, dalla morte degli dei, dall’invereconda tendenza a stanare l’inganno, la mia croce sul lento Golgota. Ma è il revisionismo mentale: operazione indegna, ma naturale, illecita, nefasta, inevitabile. Senza giudicare, senza assolvere o condannare, ma solo non ricordare il perché, il percome, il protagonista: vedere solo le strutture sottostanti, le impalcature, rese vive dall’illusione, dalla voglia di mentirsi, di credere, di non morire. È avvenuto il tilt e il flipper non gioca più ma ripete scioccamente gesti, opere e parole come uno zombie senza bara: ma quando la pallina correva, le luci sfavillavano, i suoni annunciavano vittorie e il punteggio saliva, saliva… chi giocava?