sabato 15 dicembre 2007

mercoledì 5 dicembre 2007

Chiara

Chiara era tutto quel che sognavo per me stesso nell’età che i sogni ancora permette. Era il principio di un nuovo senso addentro l’incipiente buio che non avrebbe trovato sbocco e, vinto per tempo da tanto raggio, altro non avrebbe che potuto ritirarsi nelle latebre che il cervello cela. Colta l’imago in quella mattina dinanzi all’ingresso del loco ove mertammo il titolo accademico, entro le segrete stanze del conscio suscitai la consapevolezza e che lei fosse la depositaria di tanta facultate e che me medesmo fossi, al contrario, già perduto. È vero, leggemmo Parini e non più avante, scorremmo la bianca pagina e il Giorno mentre la Cariatide dalla cattedra menava il can per l’aia di vuoti e ameni dissertari atti al Settecento; è vero, parlammo del più e del meno mentre s’attendeva il turno per sbracare la preparazione, io sul Novecento, lei sull’Ottocento; è vero, c’incontrammo altre e altre volte, ma non tignemmo il mondo di sanguigno. Anzi. Feci quello che mi è sempre riuscito meglio: ascosi la mia persona e il mio errabondo io. E il caracollare nella finitudine prese quell’abbrivio che più non trovò ostacoli. Chiara cambiò in meglio. Io sparii a me stesso e a lei e a chiunque.

sabato 1 dicembre 2007

Passion 2 (continuazione)

Lungo il corridoio bianco: le mattonelle grigie raramente rivelano lo strascicare di logore ciabatte. Un profondo odore di disinfettante, alla parete rotondo un orologio ticchetta la sua monotonia; tutti uguali questi corridoi, e le stanze non si distinguono altrimenti che per le diverse chiavi per serrarle e talvolta aprirle e per il numero nero sullo sfondo bianco delle porte. Se ci appoggi l’orecchio e vinci i secondi e le lancette ritmiche, puoi udire un rantolo, o un mugghio, o un sussurro, o un pianto, o una nenia senza senso, o un raglio: oltre quella porta, quella con il trentatre, ricordi?, tu venisti nel folle mondo. L’uomo-mucca presagì il momento topico e si zittì; quella che non sapeva tenere le cosce strette, da mesi era gentilmente trattenuta al letto da cinghie, più nessuno entrava sennon per levarle la merda e cambiarle gli stracci sul ventre gonfio di te: qualcuno disse alle crepe nei muri che improvviso il lume azzurro alogeno dei corridoi aveva sfrigolato come preso da emozione, poi, per una frazione di secondo, il buio e di nuovo la luce, a normalizzare. L’uomo-pecora belò con insistenza e comparve un camice bianco siringato, poi un altro, per sicurezza, poi un pianto e uno strillo acuto a lancinare l’aria: tu nelle braccia della ninfomane, placenta colava stanca di nutrire, giù per le gambe, a gocce sul pavimento. Qualcuno arrivò con indolenza e si preoccupò del cordone ombelicale e di te. Poi mesi che non puoi ricordare: l’affido al sepolcro imbiancato con moglie incapace di proliferare, oppure lui impossibilitato sia ad ammetterlo che a dirlo, pena elezione persa. Ricordi? Leggesti di Smerdiakov e piangesti. Uscendo nel mondo avevi sempre nelle nari il disinfettante.

La pila degli scarti cresceva indomita alla tua destra.

Nemmeno riflettevi più sul senso di distinguere un pezzo buono da uno inutile; lo precipitavi nei condannati senza appello e solo un tintinnio interrompeva il monotono replicarsi del ritmo produttivo. Alzare il volto verso altri vuoti come te? Quali pensieri si intrecciano al sommo di cervelli ridotti alla pura, semplice e talvolta sterile ripetizione? Davanti alla macchina del caffè ci avevi provato: due parole sul senso della vita; e uno t’aveva mostrato il frutto di una foia bastarda dopo la tracannata e nemmeno sapeva tratteggiare il volto che eppure sotto il velo doveva aver osservato: ma anche nel giorno delle fiaccole nuziali, solo il brandy gli aveva concesso lo stomaco. Vedesti negli occhi dell’infante i tuoi. E quella sirena ogni mattina: nel gelo invernale o nell’afa di agosti sempre identici, impietosa e puntuale al richiamo. Ti trascinavi fino al tuo posto: anche allora, nelle prime ore della giornata, l’indomito tuo cuore ti suggeriva di provarci, di cercare pescatori di anime, di parlare di mondi migliori e di beatitudini, ma alla trecento ventisettesima sigaretta, offerta come risposta, abbandonasti l’intenzione.

La disser pazza, sennonché, tra le maglie della presunta lucidità mentale s’annida pacifica la follia. E quando senti enfiarsi il petto ed il tempo perde coerenza, slittando il prima sull’ora, sul poi, sul sempre e si solletica da sé la mente, affine a Larsen, le porte del supposto manicomio sono aperte.

Guarda come brillano di luce propria, come parlano di ponti attraverso le acque in fiamme, come tralignano l’Assoluto: i tuoi fratelli in bianca camicia con cinghie.

Estatica pendeva dalle tue labbra, o ebete, o ebefrenica; c’era la saliva che sfuggiva agli angoli della bocca senza un fazzoletto pronto ad asciugarla. Ma lumi cerulei, flavi capelli mai rattenuti da lacci, diafana pelle e sanguigne labbra: pria che il pensiero s’arrestasse sulla follia c’era sempre il tempo di commuoversi e sentirsi inferiori alla Bellezza; poi entrava il pianto di qualcuno e la violenza di molti. Questo, sì, hai fatto di buono: sottrarre il fiore già estirpato dalle brute grinfie ché almeno non lo facessero a brandelli coi denti o colle mani. Ma la speranza no, non dovevi darla a colei che pietà avrebbe preferito morta non nata.

Parlavi d’amore, ancora, povero fesso, ancora d’amore, come se i secoli non t’avessero insegnato niente!

Parlavi d’amore davanti allo strazio di membra fanciulle sperse nell’acido fino a non essere mai state.

Parlavi d’amore innanzi alla supplica sfatta nello sciolto mascara ruinante sulle guance imbellettate con troppa cura solo per piacere, non certo per disarticolarsi nell’urlo della giovinezza forzata.

Parlavi d’amore di fronte ai passi strascicati nella neve con un ligneo appoggio tarmato, da una panca all’altra, sognando una materassa almeno, trovando invece requie eterna all’ombra del sicomoro.

Parlavi d’amore alla finestra di un volto stravolto dalla solitudine, occhi incavati e raggrinziti e piangenti e capelli sfarinati dalle sue stesse suole su pavimenti con un solo tipo di impronte sulla polvere, all’ombra di un gibetto.

Parlavi d’amore all’asfalto gommato scompostamente senza frenare l’urgenza di arrivare da qualche parte, alle lamiere contorte nel ghignare dietro alla fretta, ad un volante sghembo, a cerchioni… non certo tondi.

Parlavi d’amore a chi non torna, a chi non sa di tornare, a chi non lo sa, a chi aspetta, a chi non è aspettato da nessuno, a chi sapevi essere un illuso sempre e comunque.

Parlati d’amore adesso che cerchi coi lumi a pezzi un Longino qualunque, pietoso lanciere, oppure un Tito, o un Dimaco da intortire con quella vecchia frottola del posto nel regno del tuo paparino: e ti chiedi che ci fai lì?

Seduto su un masso a favore di Apollo, si guardava le mani sporche di olio nero: le unghie più non recuperavano l’originale trasparenza, nemmeno usando quella piccola spazzola che dal bancone del supermercato gli aveva promesso mirabilie. Considerò la camicia lisa da lavaggi senza perizia, i pantaloni senza un determinabile colore, le scarpe come barcacce incapaci di attraversare un rivo senza profondità. I capelli unti parevano fusi colle guance sbarbate, perché lui, questa volta, non aveva peluria sul volto. Alzò gli occhi e vide che la matta sedeva nel prato e lo osservava attraverso secondi lucidi; alla sua destra quel tizio che raccattava elemosina alla stazione: la chitarra scordata era ai suoi piedi, così come il meticcio spelacchiato, l’unico essere consapevole in quel gruppo. Lui si passò la lingua sulle labbra aride. Sotto di loro, a valle, per dire, si trafficava la quotidiana lotta per la sopravvivenza, e forse, proprio in quell’istante qualcuno stava morendo: a questo pensò; non all’ennesima cacciata dopo un discorso abbozzato nel piazzale della fabbrica; e dire che s’era formato un buon gruppo di ascoltatori, là al sole, dopo il frugale pasto: lui voleva parlare del rispetto da esigere e da portare, del non fare agli altri quello che non volevi subire a tua volta, ma subito s’era travisato il senso e le guardie, prese da uno zelo ignorante di tutto, avevano associato il crocchio ad una possibile cellula… eversiva… da non crederci, non ora, non col sedere sulla nuda pietra, non col sole sulla testa e l’aria libera del sabato pomeriggio, non lì, dove quella stupida presunta lotta arrivava solamente in una eco debole. Eppure pure di sabato, pure quando potevano riposare quegli schiavi laggiù subivano l’imperio genetico della presunta competizione per qualcosa in più, e per molto e molto in meno. Soffiò tra i denti: -non chi va al mulino s’infarina, ma ti infarini al mulino che vai. Chissà tra quali fronde mentali era uscito questo pensiero. La matta strabuzzò gli occhi e prese a lacrimare, il postulante corrugò la fronte. Lui ci pensò: -sì, perché è scontato che uno si infarini sempre e se si rassegna di farlo in un luogo… minore, lì gli toccherà, e non potrà mai testarsi in uno maggiore. Sibilò soddisfatto. Il cagnolino lo osservò basito. –I tempi stanno cambiando e bisogna tenersi aperti a tutte le soluzioni, se vi fare trovare infarinati, non saprete mai cosa vi siete persi. Aggiunse questo chiarimento con malcelata soddisfazione. Il tizio che vendeva quattro gracchiate per un euro, lo fissò adirato: -e che cazzo vuol dire questa cagata? Era un tipo icastico e un attimo materialista: si era interessato al cappellone solo dietro al discorso di un ipotetico regno in cui entrare e nel quale, probabilmente, potere pigliare a calci nel culo tutti quelli che sputavano nel suo piattino per le monete, o quelli che deridevano il suo cane, o quelli che insultavano lui, nobile decaduto, dal palazzo a sotto il ponte. –sei un disgraziato babbeo, e non c’è da stupirsi che ti vogliano fare le fette, a volte biascichi cose giuste ma altre dici di quelle cazzate. Lui lo guardò senza stupore, sapeva di non essere capito ma gli sfuggiva una cosa: che volevano in quest’epoca? Non gli riusciva di trovare un qualcosa che potesse dirsi in comune, condiviso, un appoggio con cui sollevare animi… morti. E lui stesso sembrava non avere più la verve di un tempo: gli uscivano frasi cui non credeva, o che nemmeno sapeva collegare tra loro e farne un discorso, come se nel suo cervello ci fosse stato un collasso di idee, circuiti in tilt. Dal momento in era giunto in quella città aveva sentito un lezzo di decomposizione, un suono disarmonico, un fluttuare di miasmi malsani. E l’emicrania era giunta repente.

Ad un passo dal baratro era bello affacciarsi ed immaginare il volo catartico e il rumore delle ossa sulla scogliera o sul semplice asfalto grigio: e il rosso vitale espandersi conquistando, centimetro dopo centimetro, lo spazio bigio, vincendo una cartaccia di patatine gettata senza pensiero e una lattina di dolce caffeinato e gasato, abbrancando amorevolmente finanche una cicca morta da giorni e calpestata, per finire tra le grate del tombino, e giù, flic, floc, nelle fogne, casa natia d’ogni compassionevole ratto. Ricordi? Quell’altra volta il bischero tentatore dalle caprine zampe, t’avea proposto il volo, -tanto, ti disse, schiere di biondi cherubini e, o, serafini, verranno preste a salvarti e a poggiarti su di un saldo terreno. E tu l’avevi guatato con sicurezza, non nelle truppe alate ma nel tuo destino di re. Invece, nei giorni della metropolitana solitudine, proprio quella certezza veniva meno: davanti ai tuoi lumi il fato t’era nebuloso, il dubbio ti rodeva dentro e le budella si contorcevano dal sospetto. L’inganno: chi ti faceva certo del salvataggio? Contare, sì, ma su chi? E se davvero il tuo corpo fosse piombato sul fondo d’un qualche baratro, chi t’avrebbe rassicurato di un impossibile splat sanguinolento? Nessuno, certo. E la cosa non ti dispiaceva del tutto. Sapevi che l’unica democrazia sta nella morte; ma questo discorso l’avevi fatto, ci avevi provato almeno, e nemmeno uno ti aveva inteso, anzi, l’impressione è che proprio da quei discorsi aveva preso inizio la fine. Le busse, le prime, erano seguite alle lodi per sorella morte: ma non eri tonto, questo ti rimprovero! L’avevi capito che nessuno più vuole morire! Che senso aveva parlare di dignità della e nella morte, a chi l’aborriva, la naturale fine? Paga, paga il prezzo dell’ardire; anche quando sei scampato alle banalità, ti sei preso la vanga in mano e hai scavato le fossa. Guardalo il sole scendere dietro la montagna, sorridi pure tra le lacrime di rubino, sentilo, il sapore salato del liquido vitale. Non c’è più nulla da fare, tutto è compiuto, come l’altra volta, ma in questa non hai combinato un cazzo.

domenica 25 novembre 2007

Passion (tit.provv.di materiale magmatico)

Scendeva serpeggiando la road sotto i tuoi piedi scalzi e sanguinanti: già il tetano saliva assassino ad abbrancare il cuore, ma c’era tempo, oh, se ce n’era. E l’occhio seguiva l’asfalto cotto dal sole, ben oltre le teste dei pochi ancora al fianco del tuo resistere; più giù potevi vedere il grande Comignolo grigio, rigato di blu, sbuffare morte falsamente bianca: costante sale verso la volta che si vorrebbe azzurra e s’espande silente, persino inconsapevole dell’omicidio di massa. La volontà è in altri luoghi: ha i gomiti appoggiati al nocciolo, ha valige di coccodrillo e Rolex di diamanti e sotto la scrivania, riccioli biondi stantuffano lo straordinario, o la categoria, o il premio che i desideri avanza. La volontà non è dove nasce l’archibugio, in sé, ovvero foglio di progetto: in palazzi, tra fasti dipinti di glorie che furono e che non son né più intese, né più verificate, in sale di cibo e acqua potenziali per tutto il buio continente, ove ogni cosa luccica e profuma e il vuoto s’espande pomposo, per arrivare sopra archi lignei di scranne ove s’immagina concepita, secoli or sono, senza orgasmo la Costituzione. O l’immagino io, tra i fumi della scatola cranica oberata. La volontà, sempre d’altro, e poi… non si poteva fare a meno, poi il male minore, poi i calcoli abbozzati ché mica si poteva ponderare bene tutto, poi… il fumo, appunto, morbo involontario lassù và a scomparire dalla vista per apparire nel palato, giù per i bronchi, attaccato ai polmoni o forse si espande in tutte le membra e ci gioca.

Oh, chiudevi gli occhi, per affrettare la dipartita, ma non c’era neppure per te la Grazia, ti si accaniva contro il tuo stesso corpo con un’indomita volontà di non farsi sopraffare senza pugnare. Si propagavano nell’aria i rumori, il clangore produttivo, lo sferragliare via, via più lontano dei siluri a grande velocità: non c’è tempo da perdere; quando recuperano fiato nelle stazioni li odi scalpitare la loro urgenza frettolosa; non c’è tempo per riflettere, lo spazio tra il punto A e quello B più non conta altrimenti che per gli attimi persi tra produzione e vendita, ché si spera al consumo segua la rottura per non interrompere il circolo vizioso, per non stroncare il senso del folle correre. Ma non li vedevi, li sentivi e sapevi che la dialettica regge il gioco di prestigio del tuo pazzo Illusionista. Nemmeno la forza di un sorriso e il respiro meno sicuro: chiudevi gli occhi per sperare potesse essere l’ultima volta.

La collina era il retaggio di una stagione edilizia al risparmio: di materiale dentro le mura, s’intende, non negli emolumenti alle maestranze. Quel nero-vestito che biascicava di lager ebbe buone idee, le puoi vedere, (su! Apri gli occhi che dalla corona in titanio non puoi avere tanto dolore!) laggiù in quella parte della città che tutta pare uguale, sì, certo, tutto sembra sempre lo stesso delirio, ma se ti concentri vedrai che quei tetti non sono così alti, i colori sbiaditi, la forma architettonica, oh, così vecchia! Da esserci ancora, epperdio: non il gentile Favonio, non la Bora hanno saputo spazzar via quelle casette, eppure il sacerdote le volle al risparmio, per dare un’alcova a tutti, in onestà, mica così, per propaganda, come quei verbosi reucci che t’ha indicata la via, una seconda volta. Sarà pur vero che quel che è di Cesare gli va dato, ma i moderni cesari non ti lasciano nulla. Non faccio retorica, del resto… il ratto gentile viene ad omaggiarti: tende i baffi verso te che potrai anche essere il suo pasto futuro prossimo; questa tua collina non è quella del Cranio, non è più disponibile, è un sito turistico per zitelle in cerca di manici aspergenti senza la puzza sotto il glande. Ti tocca in sorte l’accumulo di macerie, quel che resta dopo l’erezione di quei condomini, lì, a destra, come dici? Giunta di destra? Oh, vecchio idealista, che cambia, che è mai cambiato se si parla di ritta sive di manca, poooliiticammente pavlando? Dai, su, siamo seri. E non ti venga in mente che un qualche straccio si stracci nel tempio, ché intanto di stracci nei templi dei tuoi seguaci, presunti tali, non ce ne sono, e le loro tele morigerate mica possono essere rovinate come segno folcloristico o effetto speciale della tua dipartita. Non è più il tempo di trovate ad effetto, al massimo si potrebbe squarciare la verginità di una ultima adepta dei Valori, ma peneremmo a cercarla, figurati a trovarla. Forse un petardo lo rimediamo, di qualche ultimo dell’anno fa.

Di lontano, repente, un grido.

Un tuono lo ricopre e lo ricaccia nella gola ch’osò proferirlo.

O modularlo: estetica dell’urlo.

Alto, allampanato, calvo, ma con parrucchino, ti giudica, ingiudicato a sua volta, tante volte. Dalla scranna aurea, colla porpora sulle spalle, incoronato un dì a reti unificate, spargendo sulla folla festante aroma di marianna e finti centoeuri. Seduto t’ha guatato non sentendosi coinvolto: ritmico l’anello coi rubini ticcheggiava sul bastone sacro, ma quello, almeno quello, sulla schiena non l’avresti sentito. T’eran bastate le sferzate dei sottoposti, dei beghini, dei sepolcri imbiancati, delle vecchie postulanti, dei rivenditori ambulanti, dei politicanti, dei verbi atrofizzanti, dei diserbanti, dei coatti, dei puristi, dei puri di cuore, dei santi santificati subito, dei commercialisti uniti, delle coscienze a nolo, dei campeggiatori, dei rivoluzionari senza rivoluzione, dei benzinai. Tutti ammassati in discesa per il loro turno. E gli sputi, e gli scarracchi, e i berci e gli sfottò, e i cori da stadio, uniti pur’essi come mai, sotto la bandiera del “Puniamolo”. Parlasti dal balcone, e un monosillabo non ti potè salvare, assurdo idealista. Pronunciasti il tuo “Io”, davanti alla massa che l’Io nega, a favore del plurale tanto, di quel noi che sottintende prono schiavismo. Coglione.

lunedì 12 novembre 2007

L'Uomo di pezza (vers. def.)

Finché la strada rampa verso un altro paese si resta nella luce della pallida illusione di libertà, ma quando le ruote volgono in basso percorrendo la deviazione tra le buche e s’intravede il primo ingresso, rapida scende la cappa sulla testa e non bastano le manovre a stornare la mente dal lamento, ultimo tentativo d’appigliarsi alla ragione per non lasciare l’aria, il sole; non basta ripetere dei banali gesti per credere che non si valicherà la soglia, non si entrerà ove la ragione lascia il passo alla follia inutile, ove ogni legge etica, pur essa ridicola davanti a quella della natura, convien che ceda, schiacciata dalla presunzione, dallo sbattacchiare priapesco del batrace, dal ciacolare altrettanto inverecondo della corte, depositaria di presunti poteri in assenza (rara) del fava.

Occhi ottusamente assenti oppure persi nei meandri di una realtà fatta di puro essere qui, fare una azione mille volte, mangiare senza gusto, riprendere e stolidamente ritornare a casa e trascorrere le ore serali con individui che pantomimano finzioni riparatrici dentro la scatola del male che pure s’è presa uno stipendio per entrare nella dimora. Poi nel letto voci che chiedono cose non più comprensibili e l’inconscio zittito tanto tempo fa non rilascia immagini consolatrici e chi ti sta accanto, di carne e d’ossa o di nessuna consistenza, ha lo stesso istinto protettore che tiene lungi scomode questioni.

-Sai dov’ero ieri a quest’ora? Al lago, sotto il sole.

Oh, bene, bello il lago…

-Invece ora entriamo qui…

Eh, sì, entriamo qui!

[Quindi il senso di libertà… sotto il sole, al lago? Dopo code sull’asfalto e prima di altre code? In mezzo a bercioni, cicale e pingui bimbetti? Lontana la mente dalla vernice, ma persa in una bolla di assenza? L’essenza della libertà in un pugno di ore da lucertola?]

Abbrancato al palo di mezzo

ferreo, ma né corona né del chiodo

di Iesù, discendo nell’imo lezzo

ogni grado più molesto ed invece

lesto il materno cibo nella strozza

s’auna ed agogna lo sbocco.

Beccheggio ma approdo coi tristi lumi

rapiti dalla spira esterna di libertà

intuita e vagheggio la vaga etade

del cazzeggio nei calli della Leonessa.

Poi ancora sì lungi da me il niveo

timer che timbra l’attimo in cui

ingobbito rauno le forze per pignere

su per l’erta ripa l’eterno masso.

Son già punito che saccente latra

la sirena.

L’orrore: un piede sulla carcassa, stesa con accurato ordine sull’erba, di un orso bruno. Il ghigno, non dell’orso ma dell’eroico fucilatore, tronfio del suo trionfo e del trofeo. La vittima sacrificale dell’iddio pestilenziale sporge i bulbi oculari verso il buio della ragione squarciato dall’intuita ed ora, si spera, percepita serenità pastorale con altri… plantigradi, o lupi, volpi… vittime pur loro d’altri scherani del messo oscenamente scemo che scimiottescamente usa brandire sputafuoco, ché la daga colla panza sballonzolante poco s’ammoglia. Sopra ostia e carnefice, il cielo cristallizzato dalla fotografia: credo vorrebbe svanirsene… via e cedere il passo alle tenebre dell’Orco per inghiottire e cacare fuor dall’orifizio, lorde di liquame e merda e bitume e fresche rose ialle… , le quattro ossa costrette a sorreggere per troppi anni un bipede per fottutissimo caso.

Una riflessione: lo spray per attirare la vittima; odore di femmina in calore, l’ignaro essere s’avvicina fiducioso di poter creare famiglia con cui protrarre innanzi la sua millenaria stirpe quand’ecco dalle frasche spunta il cornuto marito d’una veloce svuotaminchia, rifle-munito fa pam pam e chi natura fece superiore, giace a terra dopo inesistente lotta per la sopravvivenza. Poi io brevetto odor di fica e me ne vò pel monno infame a spruzzare qua e là ed attiro più gonzi io che topi quel pifferaio e com’illo li guido verso ‘na rupe e giù che ruzzolano siccome li porci evangelici. Ma il mio l’è un sogno; quello spray l’è la realtà.

Di là dal vetro

il sibilo e lento

il figlio d’Africa

biancheggia le sputafuoco.

Fuori signoreggia il tuono

ed ora parca ora priva

d’inibizione scroscia

ma è acqua d’illusioni

sopitesi oramai di frescura.

Sale caldo tra gli occhi

m’inganno pensandolo sangue

ma la corona di spine

dell’uomo di pezza

fa solo …..ire.

Bercia il batrace

sbattacchiando la panza

eruttando lapilli di bava

e proiettili salini;

contrae i lumicini a spillo

e cosparge d’offese la Trascendenza

cui non crede poiché crede

a quel che vede, e vede

danaro? Complotti? Spiedi?

Ogni occhiata verso lo stereo da un orario sempre più vicino alle sei e cinquantasette, allorquando la radio prenderà vita, la campana scampanerà una prima volta, poi una seconda ed io porrò le piante dei piedi per terra cercando le ciabatte con cui ciabattare nel cesso, liberare il fratello del suo fardello e poi dirigere la carcassa in cucina, ove sbranare latte, cacao, pane e fetta biscottata. Poi la lavanda dei denti e del torace, della faccia e la seduta sul trono bianco, cercando di mollare un pargoletto marrone. La vestizione, gli ultimi preparativi, le scale, la macchina, il papà che apre il portone sul giorno che di nuovo non prospetta nulla. Abitudini? Chi non ha le sue abitudini? L’abitudine a vivere ci fa dimenticare la morte, disse un tizio; l’abitudine a pensare alla morte ti fa considerare la vita un’anticamera; l’atrio, sporco e puzzolente, ove qualcuno fuma, altri scoreggiano, altri guardano le crepe nei muri. Altri buscano il sollievo nella solitudine.

Vorrei incontrarti fuori dai cancelli d’una fabbrica,

vorrei trovarti seduta sugli scalini a sonnecchiare,

vorrei dirti –buongiorno, e che sia breve il giorno-,

vorrei varcare con te la soglia del mondo bigio,

vorrei avere pronto il ricordo azzurro dei tuoi occhi,

vorrei sentire la tua voce nel frastuono delle macchine,

vorrei intuire il tuo profumo agonizzante nel fetore,

vorrei pensarti vicina, compagna, collega, sorella,

vorrei, ma non ci sei e sodale è la solita signora

dal nero manto, ossuta, di poche e lapidarie parole,

un tempo trista mietitrice…

Quando passi da un mondo all’altro, resti un po’ così… attonito; poi ti guardi attorno e la mente cerca di adattarsi applicando i soliti criteri per sopravvivere. Se riesce a farlo poi prova a darsi da fare cercando brandelli di sollievo, lacerti di qualche timido petalo non ancora appassito: e fallito un tentativo, fallito un secondo… principia a non avere più la voglia di provarci e si siede nel fondo… dove il secolo è il minuto. Si spegne, la mente, ultimo stadio del pacchetto sicurezza che la natura fornisce, talvolta; si rannicchia nell’angolo più buio attendendo la sera, la quiete, ove almeno la fantasia può sollevarsi e compensare la brutta realtà, ove il sogno sfiata… la pentola a pressione che ti pare lì lì per esplodere. E cerca gli amici, la mente, Carloemilio, Teofilo, Durante, Genio… al ballo mascherato della celebrità. E Suzie, Marianne, Sally col suo pesciolino, che non è quello del pagliaccio… e tutti insieme si va dove le creature strisciano sul tappeto, e le scale a chiocciola salgono sghembe, a trovare l’Artemisia Gigante e l’Ermafrodito e Rael, alla corte del re Cremisi cantando a squarcia gola –Johnny Barleycorn deve morire!-, attraverso una terra rosa e grigia, e Rino, Bizio, Ivan, Alan, Demetrio e i fantasmi della gioventù di Jim, Sid, Lou, Bob, Pete… ricordano che tutti, tutti moriamo a stento.

Immergi l’ennesimo calcio… che farà tua moglie appena alzata, che già le lenzuola dalla tua parte sono fredde? Ed il bambino, pacioso nel mordicchiarsi la mano, guarderà il soffitto bianco ed il lampadario colle api colorate appese per distrarlo? E la macchina del caffè sarà ancora sul fornello, macchiato dall’improvvisa eruzione, che forse la mosca ringrazia la tua sbadataggine, maledetta tra qualche ora dalla consorte? Poi osservi il calcio sgocciolare… e sgocciola via anche la tua di vita, tra le dita sempre meno leste ad afferrarne le fila, tra gli occhi meno attenti alle velette, tra le maglie ogni volta più strette ed i capelli radi… sulla radura ch’ormai il pettine trascura. Ripeti l’operazione, ed i colpi sul tavolo per fissare l’oggetto mortale, per sineddoche. Ed i passi… che n’è del tuo di sogno? Della terra patria lontana, della voce di tua madre tra i sirti? E la paga, quando ti darà la paga? Già spesa, giù, giù nel sifone consumistico del si deve, non si può farne a meno. Qualche soldo in più, qualche spesa in più, la ruota che non vedi, l’ingranaggio che non ti credi, che giri perché altri girano e perché altri ancora girino. Quattro ore passano, poi altre quattro e gli straordinari, ché non si sa mai. A casa la giornata è passata, un’altra apparirà per sparire. Tutto gira, un altro calcio, le rughe, i passi, le sigarette.

Ov’è Chiara il passerone?

Ove la maestrina?

Ov’è Zora la vampira?

E la cerbiatta leggera?

Ove Fotide la tanta e

Laetitia?

Ove Bighellonauti cari e

ove le carole i ghigni i berci e

i caffè?

Ove i calli dell’urbe

moje de’ re dela savana?

E ove Susan, Marianne, Berta, Aida?

Ove l’etade del pensiero che si pensa e

l’es, l’ego e il super ego,

la tesi, l’antitesi, la sintesi?

Ov’è il sogno e Calderon?

Ove le fole, le fantasime, le ubbie

le strolaghe?

Attorno al falò di Tommy Joad?

A tavola con san Pio V?

Sguazzavo in un’acqua non mia. Favorito dalla contingenza prima dei ventidue, m’ero permesso di sentirmi in una pozza diversa, soddisfacente benché ascosa alle genti. E m’ero assuefatto, seppur sentendo sempre in me un certo qual presagio, un campanellino che talvolta trillava per ricordarmi che il tempo poteva e doveva scadere. Pur sapendolo, pur pensandolo, mi son lasciato sorprendere. Ed abbattere. Preso di forza e rimesso nell’ambiente che mi dovea essere naturale ho principiato a boccheggiare, non riconoscendo più le natie mura della solitudo. Spiazzato sapendo dove il bomber avrebbe tirata la pelota e mai goal mi punse di più. Ingenuo? No: la scema mente che abbarbicata alle fole della vita pinta a parole, non s’avvede presta dei fatti, maggiormente letali. Sicché nello stagno che mi s’era destinato vent’anni or sono, per dire, m’è pigliato il panico: sembrava non essermi familiare nulla eppure v’era il mio ancestrale odore, il lezzo della decomposizione mentale avviata sui banchi della scola e solo ascosa e velata dalla supposta compagnia carnale. Che forse dovrei ringraziarlo il fato per avermi fatto risparmiare dindi, con cui rispondere al richiamo della foresta e svelare l’inganno sotto el dorce miele. Con ciò che pure le lenti sui lumi mi doveano avvisare di propinqua cecità e li cavei sempre più all’aura scarsi, sibillarmi l’abbandono: eh, ma ci dovevo cascare e ce son cascato, da perone marcio. Piano piano però principio a vederci chiaro, a riconoscere le fanciulle mura, le catene, le sbarre ove volevo chiavare er core mio. Ora che torno nell’ambiente che m’ero cercato ancora non so come guardare gli ormai passati scorni d’aver creduto realtà quella che vedevo. Si raccoglie ciò che si semina, e se non si semina niente, niente si raccoglie, lapalissiano. Sento uno strano stordimento, una leggera nausea, come se vedessi qualcosa senza capire cosa sia e nemmeno volessi capirlo eppure restandone soggiogato. In quale tempo vivo io? In quale stagione?

Una mossa, quella giusta: confine tra una partita vinta ed una persa. Uno fallace, l’altro che non può sbagliare mai. C’è solo la sconfitta nell’orizzonte del primo, non speranze, non sogni, ma il progetto per perdere il più tardi possibile. Il finale è scontato; prima una lenta, nella migliore delle ipotesi, ma continua perdita di posizioni, materiali, capacità; ma se appunto l’esito ben si sa quello che sarà, non v’è illusione, non angoscia, non pretese disilluse, solo la lotta per cedere meno in fretta di quel che parrebbe. Tutto nell’ottica della sconfitta assume un valore diverso, un non valore, data la sua inutilità al fine dell’esito; ma almeno è quello che è, nudo e crudo, scevro di false toghe illusorie: qualcosa che può esserci come non esserci, senza influire, senza svolgere questo grande ruolo che invece nelle pretese solite gli viene attribuito. Nessuna disperazione, nessuna rinuncia, nessuna soddisfazione. Una calma nel sottosuolo.

martedì 23 ottobre 2007

22/10/2007

Lunedì. Le chiese sono chiuse. Esercizi commerciali per lo smercio di fole e speranze e argomenti di cose che non appaiono. I battenti lignei in fronte a noi: chiusi. E come facevo a spiegarti la pianta del Duomo Vecchio con parole che non conosco? Senza mostrarti il respiro rappreso giù nella segreta di tempi lontani, senza locchiare l’occhio di Geova, senza la croce aurea, senza il doppio filare di banchi, ove non puoi che sentire il lamento di fedeli delusi per parusie mai verificatesi? Chiusi, i templi dei cristiani chiusi come negozi di chincaglierie… e poi non pensar male, non associare commercio e smercio, e monete tintinnanti nelle cassette in giro per terre teutoniche, per far incazzare monaci separatisti senza manco volerlo, né pensarlo. Aperta, la natura, e i fasti esterni di romana memoria, illusione d’essere nella città eterna, grazie a chi lavora come per un puzzle con pochi mezzi e qualche fiducia. Bianco o rosato, l’originale? E non mi fai questa domanda, sotto il cielo grigio che rende l’aria più calda per noi, perché si possa andare a spasso su sassi ove incespichi, ben lungi dal volerti reggere alle triunfline braccia. E la scacchiera, oramai simbolo di sodalità perse in terre cangure, in patrie teutoniche, in paeselli di bassa nebbia, in corride coi tori e toreri… e io qui a mostrartela, sì da farti entrare nella cerchia che lo sa, che sa di antichi bighelloni seduti sul bianco a farsi una partitina, con il gladio appoggiato ove ora solo corone di metallo permettono che tutto non caschi in un tonfo scazonte. Il poggiolo, t’è piaciuto il poggiolo affacciato ove la bomba trafisse il perbenismo e i sogni di qualche gioventù mai più prossima alla senectute? I neri matti e la campana, una piazza vuota, qualche sparuto piccione senza manco la voglia di cacare. E la bianca scalinata? Non l’avevo mai… scalata, né mai avrei pensato di farlo in un giorno di ottobre. E ritornare sui passi mattutini, lungo le vie verso il pezzo d’Africa colonizzante ove sferragliano via treni sempre in ritardo. E quel pensiero legato all’addio o all’arrivederci: ci pensavo ancora prima di vederti: come ci si saluterà? Si ripetono i passi, i tocchi sull’asfalto, i cappuccini e le macchinine dentro vetrine, esposte da bimbi adulti. Poi via verso il tramonto, verso il giorno successivo, tra il solito da farsi, tra il dire cose il cui valore sfugge come neve primaverile. Non sono ritornato indietro, non faccio mai le cose giuste, non mi riesce la tombola, manco scommetto. Ma certo ci ho pensato: ed è un po’ come farlo, lo sai, volevo ritornare sui brevi passi e ripetere il saluto. Ma poi? Riparte il teatrino, le marionette guardano i fili sconsolate, Sisifo ripiglia la pietra: il momento della consapevolezza è durato un dì. In dolce compagnia. (A Lori, per la quale tutto è chiaro)

sabato 13 ottobre 2007

Mah

Scrivere…

Quando la voce ti si abbassa sottosuolo, quando la testa duole e il cuore stantuffa olio di gomito.

Scrivere… anche quattro pensieri in croce.

Sento le mie parole volare via falene notturne, cazzate diurne. Vuote di senso e di destinazione.

Le ascolto: partorite dalla contingenza, in seguito ad una domanda, ad una esigenza, ad un qualche istinto di sopravvivenza. Parole incestuose. Parole handicappate. Parole amorfe. La colonia degli Amorfi.

Scrivere… e non sentire altro che una goccia nell’acquaio riempito di liquido salato, altro che fontana malata.

Scrivere… ma se non ci sei… che cazzo scrivi?

Scrivere… per non morire, ma si muore un poco, per vivere. Le parole ribolliscono dentro, poi sbucano fuori, nate morte: e fluttuano via, anime. Psicopompo verboso.

Scrivere… ad un crocicchio c’è un crocchio che scricchiola sussurri e voci di corridoio. C’è una crepa ovunque. Appoggiato alla lavagna: there’s a crack in everywhere. È così che la luce passa.

Scrivere… bisogna accendere il lume. Porca troia, la mia mente è in un cul de sac.

lunedì 8 ottobre 2007

Il presente


Non è chi non veda il semaforo rosso nella mia testa

domenica 30 settembre 2007

30/09/2007


TANTI AUGURI LORI!!!!!
BUON COMPLEANNO!!!!!!!!!!!!!!!!
(E IMPARA DAGLI AUSSI A LEGARE LA BICI IN QUELLA MEDIOLANO DA BERE!!!)


giovedì 27 settembre 2007

A present

Lei non ti dice mai da dove è saltata fuori.

È solo ieri, non importa se è passato,

mentre il sole brilla

e nella notte buia

nessuno lo sa, lei viene e va…

Arrivederci Ruby Tuesday

Chi ti po’ catturare in un nome

se muti con ogni nuovo giorno?

Finché mi mancherai.

Non ci si chiede perché voglia essere così libera.

Lei ti dirà:-è l’unico modo per vivere.

Non puoi metterla in catene

dentro una vita che sai vuota.

E nulla vale un tale prezzo.

“Non c’è tempo da perdere” ha sussurrato,

“piglia i tuoi sogni prima che scivolino via

morendo ogni volta,

perdi i tuoi sogni e perderai il senno

è ingiusta la vita, vero?”.

Arrivederci Ruby Tuesday

Chi ti può cristallizzare in parole

se muti con il corso d’Apollo?”

Finché indulgerò nel ricordo.

Liberissima traduzione del capolavoro dei Rolling Stones, Ruby Tuesday: ho pigliato anch'io il soprannome usato da Jagger e Richards e dedico canzone e testo ad una fanciulla in partenza. Perchè Ruby le si addice? Lei lo sa. Perchè martedì? Sa pure questo.
Buon viaggio Stefy, che Apollo ti benedica.

mercoledì 26 settembre 2007

Aperitivo

Non ci volevo andare, cazzo! No! Non ci volevo andare! Teste David cum Sibilla, o Majin Bù, o… Odino, qualcuno che testimoni che io non ci volevo andare ci sarà, epperdio! Che se poi non mi volete credere, allora andate a farvi fottere, o non leggete, dato che della vostra comprensione, o pietà, o… o critica, m’importa ‘na sega elettrica. Ma ci sono andato: tutti a dirmi: -e sei un misantropo –e morirai nella tua polvere –e non sai vivere – e non sai che ti perdi… e cagate così che ben conoscete, miei tre-quattro lettori, miei cagacazzi soliti, trinciagiudizi da botteghino del salame d’asino, con rispetto per l’orecchiuto sodale, germano, esempio di lungimiranza imbecille e stoica. E ci sono andato: che ci devo fare? Me ne sto lì davanti al quindicipollici aziendale per otto ore a menare il can per l’aia, a spulciare quattro bolle di a da in per con su tra fra… a cercare donnine prone nella rete e scaricarmele sulla chiavetta onde sognar di chiavar colle medesime, mentre, seduto nella mia tana, brandisco il fratello di nessuna battaglia, di nessuna presa della Bastiglia, a pagamento o per volontario spalanco di cosce olezzose e ingannatrici. Otto ore di scaricamento merda giù per la discesa della Santa Madre Azienda e pause e pranzo e banana e brioches, sempre nelle tasche della Piovra Tentacolare Economica. Ma a voi ikkè ve frega? Ecco, sì, li vedevo ciacolare come sempre, levando la mia pelata sopra lo schermo cosicché i lumi facessero il loro servizio, dico, li guatavo fare un cazzo pure loro, ma lavorare di lingua, saliva, denti, mani, sudore e mentula ritta e subina grondante… alquanto, tutti lì alla scrivania della Vippi che se la chiamassi io così me menerebbe il pippo per ore denunziandomi al capo, al capo del capo, alla Santa Inquisizione, agli amici suoi guaglioni. La passeraccia se ne stava di tre quarti sulla sua sua cadrega rossa ottenuta con fellazioni straordinarie, il gomito sulla nivea scrivania, il biondo crine gemmato scarmigliato ad hoc, la camicetta aperta giusto per mostrar la valle tra le due poppe della Mesopotamia che vide alle sue falde più di un Isacco di Ninive… rossa, ‘a camiscetta soa, la microgonna nera sulle cosce diafane e li tacchi da zoccola de ‘a Mandolosa… tutto bene in vista, merce alla mercè de li colleghi libidinosi ma privi di possibilitate armeno fin quanno la barbella c’avrà l’età e la pelle per li yacht, poi però, si nun l’arà truat er gonzo ricco da spellà, mo je toccherà er colleghino, o er spazzino per scovolognà ‘a subina e mantener la sua tracotanza. Insomma la Vippi teneva banco sbavazzando attorno e i lapilli di bava li coglievan felici i dù zozzoni der marchetingo aziendale, il Vanni e il Poppi, la valchiria della valle raminga, la Giuni, e il nano puzzolente e gaio, il Bucio. Id est: tutto l’offizio braveggiava al table della Vippi, tranne me, pelato, occhialuto, mezzosegaiolo. Raggiunsi la picture d’una slava impallinata da un verro e ghignando serafico risollevai i lumi verso la Vippi iusto in time per vedere l’assenza delle mutandine e udire un gridolino di piacere dacché il nano puzzone s’era preso la briga di estrarre qualcosa di prezioso dal suo giocondo taschino, frate del gonnellino di Eta Beta, ma ferente sole minchiate. Giudicai la Vippi passabile anche dal verro… ma solo perché sono foioso, invidioso, sfigato, boaro, e finito, valligiano. Loro, cittadini, la crema della società, del consorzio umano, del monno impiegatizio e vattelapesca. Pure la Giuni, solita a dirmi oltre il ciao ordinario anche frasi come: -ekke cazzo fai?... pure lei gridolinava in preda ad un orgasmo tantrico che nun saccio che vor dì. Bah, salvata la foto, me ne stiracchiai la schiena, facendo cric-croc… e sentii la profferta del Vanni: -Aperitivo? No, minchia, no, l’aperitivo, no! Tutto, gas nervino, napalm nel culo, ma no l’aperitivo, no! Cominciai ad occultarmi, a sparire: bastardi, lo sapevano che odio l’aperitivo, ma son di strada, pezzi di merda, mi invitano per ridermi in faccia, per soffocarmi nel loro verbo mostruoso, per spingermi al suicidio. Ogni volta mi invitano, balocco da sbaloccarsi prima di ire nelle villule loro, nei pubi, nelle palestre, o dove vanno a passare la serata loro must, very, very must. E ogni volta: ho il cagotto, ho fretta, ho un impegno, è tardi… e sfottono di più. Ma l’ultima, giusto due sere fa, m’ero ingabbiato da solo, avevo detto: la prossima volta vengo, ma cristo, perdonatemi, pensavo di morire ieri, o che morissero tutti loro. E Ei loro.biato da solo, avevo detto: la prossima volta vengo, ma cristo, perdonatemi, pensavo di morire ieri, o che morissero tu invece no. Eccoli: -sì, dai, ape, ci si vede là, okkei, poi si va… . No, non guardatemi, non guardatemi, bastardi… sempre più giù, avevo visto uno scarafaggio sotto il case… e invece: - ehi, A., stasse vieni anche tu! Ricordi? La Giuni, troia fottuta di ganna: - ah, eh, ecco ho un impegno… . –eh, no, caro, stasse vieni pure tu. Il Poppi, mefistofelico fijo de ‘na mignotta. Così, cari vicini e lontani, levai il mio bolso cadavere e sull’attenti dissi che sì, ci sarei andato, parola è parola. –Evviva! Chiosò la Vippi già ghignando, lurida spompa gessati aziendali. E ci andai, come vi dissi. Trillò il campanello e tutti uscimmo, io ultimo, lontano, appestato, testa china. Loro davanti a berciare sempre e comunque, ad imperlinarsi scambievolmente, a tessersi elogi e progettare inculate scambievoli, schiavi ipocriti merdosi. Il bar era poco lungi, grandio, almeno quello: io sempre dietro, cane bastonato, seguivo il lezzo delle barbelle e la bauscia dei paini, liete loro carole, alti loro cachinni. E bestemmiavo in me, iddio, li santi quattro evangelisti, angeli, arcangeli, troni, potestà, virtù e dominazioni, e quanno ‘a Candida s’era impaurita… giungemmo al loco d’ogne intelletto muto: il Bar Strogolo, pullulante di impiegati allo sbando, e tintinnante come una legione di cristalli di Boemia, il ritrovo prima delle missioni uterine e cardiovascolari di quei cittadini principi dell’umana spezzie. E c’era un table libero, porcogiuda, manco a farlo apposta: via di filato verso le sedie, giù i culoni, ecco il vespillone col farfallino verde, ecco le ordinazioni, carte per la conversazione per tutti, e bacardiaperolgingercrodinocolbianco e patatine e olive e vaffanculo. Gighe e sarabande, sudore e ghigni, poppe che sobbalzavano, scroti che sgrondanavano, saliva a flutti, esse sbiascicate a vanvera, passere deflorate e pippi spippottati, senza sosta, senza ritegno, senza sacramento. E io lì, solo nella pazza folla di coglioni, scoglionato e represso, fumiginante sulla cabezza e loro giù di macchine, palestre, night, yacht, tennis, uccigucci, coccoscianel, mascara, pizzi merletti e tanto, tanto sperma profuso a profusione, che nun je manca ‘a fame a ‘sti zozzoni. Ecco, c’ero andato perché dovessi sentirmi inferiore, indegno, inetto. Fuggii. Pagai tutto io. Nessun grazie. Tutto dovuto. Prosit. Merda a gogo.

domenica 23 settembre 2007

Inside

Sono un autodidatta. In qualunque cosa è molto di più quello che ho imparato da solo che ciò che invece m’è stato insegnato; non c’è alcun compiacimento, solo la riflessione che l’innata tendenza alla solitudine s’è portata appresso questo onanismo multiforme e sfrenato. Non che io abbia mai negato al verbo o all’azione altrui di giovarmi o almeno condizionarmi: nelle basi, nella costruzione della struttura influisce molto, troppo, il lavorio di fattori esterni che, se tali restassero, esterni, tanto male non riuscirebbero a farlo: ma quando s’impongono come interni, il danno è già fatto. A tal proposito mi ha sempre incupito il senso di impotenza nemmeno percepito: quando si è bambini, si è pasta inconsapevole nelle mani altrui senza poter opporre niente, ma senza nemmeno sapere che si dovrebbe fare una qualche opposizione; si è in balia degli eventi, della struttura sottostante gli educatori, oramai esseri non più consapevoli delle loro fratture interne, ovvero consci, ma capaci solo di bendaggi persino più dannosi della ferita stessa. In effetti io non ho mai aderito al cerchio della vita, al ripetersi delle stesse cose: solo perché mi sembra banale: delicta maiorumque immeritus lues, è già tutto lì, nella sapienza latina che scopiazzava la greca che scopiazzava l’orientale e così via. Ma al semplice tapino che importa tutto ciò? Non ci si può curare di ogni pettirosso caduto, finisce che ci si cura o ci si potrebbe curare solo di sé, pettirossone caduto e splattato sulla via di una vita qualunque. Quali danni sono stati fatti in me? È possibile distinguere il danno provocato dall’esterno dalla qualità innata? Penso di no, sarebbe un vantaggio eccessivo per quei bighelloni di psicologi intenti a dipanare la matassa dell’es-ego-superego, conditi dai vari complessi con un pizzico di vanità nel transfert. Gli anni da chierichetto, il catechismo m’hanno forse impedito di riuscire a vedere oltre la farsa, oltre lo sfarzo, oltre il superficiale e vederci niente? O la scuola stessa: piena di nefandezze e purulenta di ignoranza; quali vie m’ha sbarrato? Un professore alle medie disse ai miei che io ero diffidente: quindi non mi fidavo… i miei se la presero, al contrario già allora a me sembrò giusto: proprio così, non mi fidavo di principio di nessuno, di nessuna verità, di nessuna opinione… senza averla sviscerata, ora direi destrutturizzata, ma da piccolo che ne sapevo? Conoscevo solo un’impressione: l’incomprensione; non degli altri verso me, ma mia verso gli altri: non mi era chiaro il perché sbatacchiassero per alcune questioni, perché si facessero certe domande, perché non vedessero oltre… oltre cosa, non sapevo spiegarmelo. Imparai a leggere, a scrivere ma non capivo perché si desse così tanta importanza a cose che mi parevano naturali. Ho il sospetto che le continue malattie m’avessero educato più di persone in carne ed ossa: ha ragione Fante, in merito a se stesso e a Dostoevskji: la malattia ti pone in un certo qual modo in stretta parentela con la sofferenza, tua ma anche altrui, e in definitiva ti affianca anche al sentimento della caducità del tempo, della precarietà dell’esistenza, al sentimento della morte. Io non saprei dire chi altri sennon le malattie, m’abbian potuto inculcare nel cervello che niente dura, niente è così importante… tutto muore, perché altrimenti non sarebbe nemmeno vivo. Per questi pensieri non ravviso cause esterne, fatta eccezione per i libri: ma quelli vengono più tardi, dopo i pensieri di un bambino, in realtà solo abbozzi, niente di formulato ed elaborato, ma sensazioni, forti ma non decifrabili. La fragilità: sono sempre stato e lo sono tuttora, un essere fragile: eppure non si spiegherebbe il perché io non abbia mai rinunciato a quello che mi si chiedeva di fare o che per un attimo volevo fare; non si può scavalcare la questione che da qualche parte sono andato e sono arrivato. Ho sempre fatto tutto senza sentirlo veramente, senza crederlo essenziale, fondamentale, importante, ma solo così, perché andava fatto: tanto poi tornavo nel mio mondo che per tanto tempo è stato pieno di ninnoli, almeno finché anche questo universo consolatorio s’è svelato per quel che è: nulla. Quindi, da una parte la capacità di fare quello che serve, dall’altra l’incapacità di credere: la prima sì, mi sembra frutto di mani altrui che han agito sulla mia pasta, o dell’ambiente stesso, delle circostanze. Ma la seconda: nichilismo di fondo, interiore; relativismo innato; l’Assurdo: sfiduciato ma non disperato; negatore ma non rinunciatario; insoddisfatto cosciente. Marinaio di un vascello alla deriva. Oh, non naufragare.

mercoledì 19 settembre 2007

18 settembre 2007

Seduti sui gradini dentro al Duomo Vecchio guardavamo il dipinto di un’altra età: nell’aria la gregoriana melodia che non riuscivo a non pensarla frutto di un mezzo fuori luogo, uno stereo inappropriato. Ti chiesi: cosa viene a cercare la gente qui dentro? Un'altra avrebbe risposto: la fede, senza sapere di che si tratta. Tu mi dicesti: vogliono solo dirsi di esserci entrati, di averlo visto. Hai ragione: quante persone fanno una cosa solo così, per dirsi ecco l'ho fatta. Mi piacciono i contrasti: io, non certo il principe dei fedeli, incapace di abbrancarne anche una a caso, di fede, dentro le chiese mi sento sempre a mio agio, non sento alcunché di diverso dall’aria fredda e dall’odore di cera o di incenso, non vedo altro che dipinti, sculture, e, se ci rifletto, bugie. Ma mi trogolo ove è richiesto il vuoto, per riempirlo d’assenso. Attraverso il profilo dei tuoi ricci, il crocifisso: quello lì, esemplifica la vita, che non è solo un correre verso la morte, ma un salire il Golgota, con la propria croce sulle spalle: non ti ho aggiunto che solitamente di Simoni di Cirene non ce ne sono, perché forse tu ne troverai. Con una persona intelligente anche quattro chiacchiere sono interessanti, anche in un Duomo, anche in una cripta che sempre mi narrerà del tuo volto. C’è uno stacco tra la realtà e il sogno? Il varco è qui? Camminavo con te sentendomi come sempre avanti di dieci anni, quando tutto è ricordo sbiadito, i volti ombre, gli odori impossibili da richiamare. Non recidere forbice quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non fare del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre. Eppure va così, nonostante l’opposizione: col tempo l’acqua scava buchi nella roccia; ma il tempo non è che un filo che sfugge via tra le dita sempre meno precise. Il silenzio, la pausa bianca tra le parole: ricorderai il berciare pseudopolitico di quel predicatore in piazza? Anche lui troppe pause: ci deve pensare su. Ed intanto lassù lo sfottono. Come la vita, che ghigna mane e sera, alle spalle di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ancora Montale, sempre le stesse cose. Bisogna saper ascoltare: i genitori, gli insegnanti, il guaito del cane, il sussurro dei vecchi, il fischio del vento, il richiamo della natura; c’è però di più nel non detto che nel detto; o nel dimenticato, perché forse ci si ricorda solamente di quel che fa più comodo, o meno male. Non lo so, io non so niente. Una panchina: ricordi la vecchia davanti a noi? Ha ragione Svevo, il tempo si cristallizza e non vivono più giorni campali; ma non serve essere vecchi, basta guardarlo il tempo, la freccia che dall’arco scocca, e frettolosa fugge verso il bersaglio, non è che la stessa freccia che, se se ne chiedesse il senso, cadrebbe a terra inerme. I tori? I luoghi comuni, per esserlo, comuni, devon corrispondere alla verità. La cognizione del dolore: volevo scriverci la data, come ricordo di un dì, o di una estate intera, stand by me. Per chiudere, la scacchiera: ricordatene, è lì, e lì resterà dopo di noi, sempre che un qualche accidente non le capiti; a quel livello del terreno, un’altra vita, ma gli stessi problemi legati al tempo, al da farsi, al da dirsi, alle pause senza senso. Ci giocavano col legno, credo anch’io, e forse han levato al testa e sopra loro sono apparsi due volti sognanti, uno sotto la pelata, l’altro sotto i ricci rossi. Il tempo: nient’altro che illusione; e la corriera blu, e il bus arancio eccetera eccetera. Come un santino, protettore solo supposto: nella terra dei cazzi e dei tori ci vengo come pensiero, finché evaporerò come l’acqua sull’asfalto dopo la tempesta. (A Stefy)

lunedì 17 settembre 2007

Centro Commerciale (bozza)

In una giornata qualunque d’una vita qualunque, entro nel Centro Commerciale, paradiso del travaso di euri dalle tasche alle casse o da carte di… discredito alle banche prodighe di prestiti favorevoli per il contribuente – elettore che abbiamo in mente noi e che, sicuramente, avete in mente anche voi; dico, entro nel limbo alle quindici precise, o tre pomeridiane, e già il passaggio al primo girone dopo l’atrio comprendente Bar, Spizzico ed Edicola, mi fa brancolare come corpo in rivolta brancola. Gigi mi guarda perplesso, lo rassicuro nella mia moribondità dovuta al nuovo locale pieno di gente, gli faccio un gesto d’assenso e lui si volta.

Nel limbo trogolano esseri purulenti e già s’accapigliano al banco del Bar per avere quella brioche foruncolosa di crema giallognola; guardo una signorina a fiori brandire lo scontrino sbavando che il numero dice chiaramente lei essere l’eletta e l’altro, un bambino cresciuto a crema di cioccolato dacché il culone lo tiene un po’ troppo indietro, paventa diritti sociali ed etici. Volgo i miei tristi lumi ed ad un tavolo una mammina è intenta ad infilare un cucchiaino pieno di gelato nella boccuccia d’un neonato che presto dilagherà cacca molle nel pannolone, il papi non li osserva ma è invece intento a guardare qualcosa nell’Edicola: cerco di seguire il raggio della sua vista ed incoccio un calendario del duemilatre dove una barbellona ammicca intelligenza e profondità salubre: beh, mio caro, pulisciti la bavetta, il tuo di danno l’hai fatto, facci una croce sopra e corri a casa per controllare al televideo la Borsa dove sicuramente avrai perso qualche identità pecuniaria. Ma nel limbo poi male non si sta, in fondo anch’io apprezzo molto un caffè ed in Edicola qualche libro dormirà saporitamente il sonno di chi sa che non gli romperanno i marroni, a differenza dell’inserto contenente la duecentottesima parte del galeone della flotta dell’illustrissimo re di Pomponia.

Gigi è già più avanti e mi faccio lesto per raggiungerlo nel primo girone che celebra l’acquisto di ciò che il caro amico cerca: le Scarpe. Mostruose quantità di colori, odori, stringhe e strap, cuoio, pelle e tessuto con gomma e… e che ne so io ancora… camminiamo rasentando pile di scatole ed il volto di Gigi mi chiarisce che nulla lo chiama per davvero, e mi spiace, giacché io di voci ne sento tante, ingannatrici, di scarpe che promettono comodità, velocità e grande durata; peccato che a queste mirabilie io faccia attenzione come alle profezie dei vegetariani… troppa grazia mi stordisce, ce ne fossero di meno potrei valutare, giudicare, ma così… che ci capisci? Ne prendo una, destra, e quella sorride: -ehi, m’hai scelta!-, ma che dici, facevo così per darmi un tono, pussa via, torna al tuo posto megera! Gigi è sempre più sconsolato, sicché mi faccio avanti e suggerisco di proseguire il viaggio visto che poi potremo tornare indietro, noi sì, non come Dante in ben più fatal andare!

Baldanzosi avanziamo nel girone dei Vestiti di varie fogge: fa sbalordire la bella divisione tra quelli per ricchi, quelli per gente “di un certo livello” e i restanti, per gli straccioni. Trasecolo ma l’amico mi conduce nei mediani e scodinzolo dietro a lui; non appena osservo delle magliette con malcelata attenzione una forte sirena trapassa l’aere e i timpani degli astanti: due checche mi si fanno appresso: -lei! Lei non è alla moda! Si vergogni! Favorisca uscire e si rechi immantinente al reparto straccioni di sinistra!-, balbetto che quelle cose lì mica mi parevano così belle, ma di fronte ad un cazzotto promesso sbaracco via e mi accuccio nel posto assegnatomi dalla sorte ria e vessatrice. Tutti tirano un sospiro di sollievo pari al mio quando vinsi una battaglia contro un virus nel mio computer ed applaudono ai cerberi fricchettoni; Gigi solidale mi raggiunge impettito vibrando il pugno in alto in segno di vendetta: lui ci poteva stare in quanto individuo visto spesso in locali alla moda, io no, merdina cogli occhiali e vestiti frusti e rifrusti. Eppure le cose nel reparto straccioni tanto brutte non sembrano e neppure i prezzi paiono bassi, ma tant’è che non ce ne frega un cippirimerlo e saltiamo nel nuovo girone.

Subito mi sento più a mio agio, covando in me il caro fanciullino di sempre, attorniato da giochi di ogni risma percepisco maggiore affinità spirituale; purtroppo questi posti danno il meglio di loro solo negli angoli nascosti dove i ludi elettronici e le bambole robot non ci possono stare sennò chi le vede! Guai a trovare in evidenza ancora qualcosa di semplice e di sentimentale, che ecceda i microchip ed i personaggi dei manga; ma almeno nel bailamme delle jeep miniaturizzate a reazione e ai cani semi automatici con piscia incorporata e pronta ad innaffiare i finti stipiti… ci si può illudere e fantasticare un po’. Spero che i bimbi li lascino ancora arrivare al di là delle immagini della tivvù, dei monitor lcd, oltre la fisicità in plastica di un super Sayan in dimensioni reali (?), per scoprire dietro le tende della imposta pseudo-ragione, le distese senza confini del sogno, della fantasia personale, dell’illusione prospettica e delle dolci nenie.

Mi riscuote Gigi dal mio torpore davanti ad alcune macchinine di metallo, noi si cercava una scacchiera… ed è una piccola sorpresa trovarla… ma, poi, gli scacchi sono un gioco? Bramerei esserne un sufficiente, almeno, praticante, ma troppa matematica, calcolo… e perdo, perdo. Ma sì, andiamo oltre, altri inganni ci attendono sornioni: no, qui no! Non ci voglio entrare! Mi sento male solo ad avvicinarmi al girone dei Profumi… e che colori strafottenti ed infingardi! Guardo candele bizzarre e ricordo il Priapo ma nessun sorriso sale sul mio volto, troppo molesta l’aria violentata da invisibili mostri con nomi francesi adducenti ad alcove di eunuchi, o alle tane delle madame Dorè. Ficco lo spaventato naso all’interno della mia maglietta, meglio l’odore del mio sudore che un lezzo di barbellona immersa in fragole e viole e rosmarino e andiamocene, perdio, che qui si schiatta!

Passiamo dinnanzi ad una vetrina: spiaggia assolata… come potrebbe essere diversamente? Palma perfettamente inclinata, un uccellaccio osserva l’infinita ilarità di tre disadattati in pedalò, “Vai in pedalò alle Bahamas!”, bello slogan, accattivante e malato di epatite nel cielo blu pre-buco nell’ozono, “Con Carontour!” e nessuno che li batta con occhi di bragia, ‘sti tangheri. Siamo nel settore Viaggi e là un cartellone ceruleo promette certo sentiero per Shangri-là, certo nel senso di sicuro, eh, beh, basterebbe tirarsi un colpo e ci vai di sicuro, proprio! … qua, qua, che c’è? Un mese a Vimini e Piccione, eh che bello, a trecentoeurivittoealloggio, ullallà! Ma che vedono i miei miopi lumi? Entriamo scodinzolando curiosi e chiediamo illuminazioni all’addetta tettuta niente male, -veh, todo bien… - ehi cara, non siamo mica cazzi e tori no’altri! Ah, sì, perdonata… chissà perché c’avea parlato in ispanico? –Interessati all’offerta Vimini?- Direi cara, le risponde il Gigi; lei sbatte le cigliette e frulla il culetto: -sì, trecentoeurituttocompreso!- Ooohhh di stupooore… -ma… - eccolo il ma! - …le righette piccine, le avete lette?- Nooo… , usciamo lesti come ghiaccio secco sulla superficie e leggiamo: “Obbligo di entrata tutte le sere nelle trentacinque discoteche del gruppo Tenkule” a trentaeurisineconsumasiù, ah, là, la fregatura. Rientro, signorina, la mi scusi ma, trentacinque disco in un mese? –Beh, voi siete veloci, si vede dal profilo…- squittisce, ah, eiaculatio precox! Ma subitamente due mastini giungono alle spalle indispettiti dalle parole barbare, noi si esce agili e presti molto e mandiamo a cagare la Tenkule e le sue fabbriche tuonanti falsa musica e ripiene di polvere… .

Il percorso si fa lungo nel tempo e nello spazio; come si possano contenere tante primizie in una sola costruzione è davvero una curiosa questione: un tempo per un prodotto un posto, almeno per un genere, dico, un luogo ove gente specializzata, artigiana, erede magari dell’antico mestiere, t’accoglieva e forse ti spennava di più, ma con strana soddisfazione reciproca, ora tutto in un medesimo locale, microuniverso con un suo raziocinio, certo, ma forse un po’ troppo con evidente intento succhia soldi e pazienza e rodi-bile di poveri padri di famiglia intenti anche a far quadrare i conti.

I passi miei si fanno meno sicuri e meno vogliosi, il nuovo girone è meno interessante per me, ma lo spettacolo umano mi riconcilia col pessimismo cosmico; veloce un’adolescente vestita come il suo idolo berciante Pritney Stiars, id est con baghetta culminante in un finto gioiellino da ovo de Pasqua, occhiali fascianti e trucco da battona, ciabatte e quant’altro, veloce come un bradipo fradicio pigola alla cassa recando nelle manine laccate un sacco traboccante dolci, pesato pochi istanti prima da un intontito saccarosio con grembiule bianco. Mi stupiscono sempre i croccantini, tanto ini da essere un metro per due, ed anche le mandorle che mi pare non abbian tempo, cioè non si capisce quando possano essere state prodotte; pochi mesi or sono mi dissero che rosse van bene per la laurea… forse meglio si confarebbero per un donatore o per una nel suo ciclo, bah, e bianche per il matrimonio, eh già, la verginità, la purezza, certo e azzurre per che so… , il battesimo e nere per il trapasso. Mah. Qua i Dolci trionfano in legioni schierate per la battaglia, in ammassi di orde di liquirizia, bailamme di cioccolata al latte e diabete e colesterolo cattivo e liposuzione… ah, il gelato, c’è anche quello oltre una fila di culi torturati dai tanga in corda di lino e ciabatte anche qui… odio la gente in ciabatte, soprattutto i maschi must… colle infradito attentatrici della salute del pollicione. Una volta io e Mick incontrammo un o di questi eroi moderni con simili calzature e canotta cinghialesca in università: dico, io tollero di tutto, ammetto persino che uno o una si becchi la merda in faccia per quattro stacchetti in tivvù, ma, perdio, nel luogo dove si dovrebbe bere la cultura… in ciabatte, un maschio per di più, coi piedacci pelosi ed il sodale mi disse che quello aveva fatto un esame poco prima… che insulto infame. Fame? Questi qui nel girone Dolci mica sono affamati, questi son tossici e non c’entra la serotonina ed il desiderio di felicità, loro trogolano e sbafano per abitudine, vizio per dipendenza, senza gusto e discernimento; purché sia dolce e sballi il fegato… ingoiano zuccheri ed ogni tanto li ridonano al mondo esterno tramite culo brufoloso e via water… ma poche volte, dati gli zainetti incorporati nei fianchi e attorno le cosce.

Andiamo, andiamo, passiamo in un altro gironcello và… ma di questo non vorrei parlare, m’offende… offendendo il gusto oggettivo della bellezza, soprattutto quando la carne naturale è diafanamente eccelsa… beh, parlo delle mefistofeliche Lampade abbronzanti o riducenti a color mogano, poi a giallognolo epatite, quando i sapientoni che se le fanno lasciano passare troppo tempo tra un omicidio di pigmenti ed un altro. La luce azzurra trapela dalla porta del Paradiso del Sole, pare di sentir odore di carne abbrustolita e salsicce mal cotte e riscaldate poi nel microonde; vedo oltre la vetrata, volti assenti di prezzemolini delle disco e merce da yacht; le mie braccia ed il mio volto urlano pallore contro di loro e mi sovviene come d’incanto e per delizia il volto della Beart… queste lampadate, poarine, non capiscono un fico secco di estetica e manco di salute, ma tant’è che la fiera delle vanità trionfa smargiassando sirene e rumbe ed io e Gigi caracolliamo nell’ottavo girone.

A dir lo vero questo ed il nono andrebbero fusi, almeno lo son sempre stati, fin tanto che l’oggetto venduto nell’ultimo non s’è preso un posto al sole e da grande dominatore della quotidiana gazzarra, s’è impossessato di un girone intero. L’ottavo celebra la vendita dell’iddio Computer e di altre corbellerie elettroniche: s’entra e si osserva i nuovi prodotti che già che son lì, sono vecchi; la nuova velocità che è lenta per il Gioco venduto su quegli scaffali… vedo una banda di pixel attraversare il girone minacciando uno Stereo, subito dei decibel accorrono preoccupati e la rissa che ne consegue è sedata da un paziente Decoder Digitale Terrestre. Mi volto sperando di trovare qualcosa del canadese errante ma il grugno di un tizio che dice di cantare in un gruppo… avverbiale mi smorza il coraggio e la voglia di andare bighellonando tra Cd disgustosi. Non c’è patria in questi posti, non c’è pace ma solo transazioni, carte di credito e di debito, sogni virtuali pessimi anche quelli perché provenienti da subconsci prefabbricati, da strutture in plexiglas e cacca.

Chiamo Gigi, dico, per me è ok, è tempo di offrire omaggi al grande divo dei centri commerciali e a capo chino, umili e contriti passiamo il varco e strisciamo devoti davanti al dio Cellulare; s’intona alto un Guglielmo Tell con campanelli tailandesi ed un eunuco mi fa certo che si tratta dell’ultimo must nelle suonerie, ma va solo nel Minkja 2457bis turbo in lega lamellare, con tasti in pelle di zulù adolescente; qualcosa non mi quadra ma quel culo squadra troppo noi altri, così, tanto per fare qualcosa, mi sposto verso una vetrina e vedo il modello che spedisce i fax, fa le fotocopie, lava e stira e nel modello rosa, se le resta del tempo libero, si diletta in fellationes… impallidisco e guardo quello con rivoltella opzionale, oppure con obice; rimembro il coltellino di Paperino che tutto aveva tranne una lama, sorrido e profano la sacralità… l’eunuco corre verso noi con un Uzi puntato sui nostri zebedei, rantolo un’ultima domanda… -ma l’Uzi è irakeno o iraniano? E poi, grondante di sudore per la veloce fuga a gambe levate, ho la fortuna di riprendermi nel garage, accanto all’auto di Gigi che, sbalestrato come me, mi ricorda che le scarpe per le nozze del suo collega di lavoro non le ha prese e così ci tocca un altro Centro Commerciale.

lunedì 10 settembre 2007

Un ospite

Mi sorprese che leggevo Topolino, testa appoggiata al del resto inutile cuscino, dato che io dormo piatto come una sogliola, sulla soglia della morte attesa ogni notte. C’era Paperoga che disastrava la vita di Paolino Paperino indicandogli un nuovo lavoro e la mia bocca tirava un sorriso, quando sopra gli occhi mi colpì il nero pastrano: seduto dinnanzi al mio piccì, gomito appoggiato sulla lignea protuberanza che regge la tastiera, come un atro messo infernale, mi guardava attraverso occhi che non saprei dire qual colore mai avessero: un naso adunco e una bocca sghemba in un sofferente silenzio; artigli tra i capelli e altri sul pomolo della sedia, l’indice alzato come se richiamasse la mia attenzione. Non mi prese il panico seppur il cuore mi palpitasse giambico; in effetti la bocca prese a seccarsi nella dimenticanza di deglutire: ancora l’atavica sensazione di inevitabilità. Attraverso secondi come secoli battei le palpebre e in piena comprensione principiai a considerare quale borsa usare per il viaggio: quello percepì il mio pensiero e scosse le ossa in diniego: -sono di passaggio. Uh, pensavo fosse rauco, colpa dei Monty Python. Invece pare vento di settembre, come le impressioni: a dirla tutta, non ricorda alcuna inflessione, alcun tono, alcunché. Beh, quindi, che cacchio voleva? Un sorriso, mi parve. –Sono stanco. Ti guardo e sono stanco. Sai oggi ho preso un pezzo grosso, m’è toccato andarci io, nessun messo minore ci voleva andare; come con quell’altro, quello che tu chiami Balena Bianca, due, tre, nove volte m’avevan scomodato… e non voleva venire. Sono stanco. Lascia che stia qui un secondo ad osservarti, tu che non sei un cazzo, non hai e non avrai scuse per evitarmi. Mi parve volgare ‘sta cosa, eppure aveva ragione. Lo fissavo rapito da una stanchezza che comprendevo. Mi dicevo: senza lui nessun senso; eppure quant’odio. –Sì, mi odiano. Non si può prescindere da me, e mi odiano. Sbatacchiano come ossessi quando mi presento, o quanto tocca ai miei bravi: ormai resto spesso a casa, delego. In tempi mediocri come questi, non c’è sugo, non ci si sente apprezzati, non ci si diverte. Nessuno capisce che se io non arrivo nulla prima sarebbe. Si voltò alzando un poco il bavero, svelando nessun corpo: lesto cercai i calzari che sempre m’hanno incuriosito: logori sandali, forse quelli che calcarono il Golgotha dietro a Colui. Guardava l’Urlo. –Mi ricorda la mia giovinezza. Non ridere, fui giovine. Colui? Uno straccione, piena la testa di vecchie favole, e tu che credi a quel discorso sulla montagna… illuso coglione. Non c’è che dire: volgaruccio. –Pensa per te che alle volti assembri uno scaricatore di porto, e berci di poppe, culi, fiche, merda… e non sai un cazzo di niente. Già. –Ascolti sempre musica… Cerco te, o il senso di te. –Sono davanti all’alba, dietro l’imbrunire, nella pioggia, o nel sole ardente… sono il Senso e sono stanco… di esserlo e di non essere capito. Ora vado, ci si vede. Sicuro, sicuro come che un uovo è un uovo. Paperoga ha vinto, Paperino ha nuovi debiti da saldare. Via il cuscino, ci devo pensare. ( A Lori, che ci pensa.)

domenica 9 settembre 2007

Trip

In un giorno d’estate

raggiunsi la vetta di un monte.

Stanco affaticato e felice.

Per caso notai un vecchio,

seduto accumulava piccole pietre.

Lo chiamai ma non rispose.

Chiamai più e più volte

mai rispose.

Avvicinatomi gli parlai:

-Ehi vecchio, chi aspetti?-

Quello guardò in alto

e non sorrise.

Guardai anch’io in alto

e non sorrisi.

-Forse, forse non passeranno più –

Così disse come un sibilo di vento.

Davanti a lui cresceva il cumulo di pietre.

Mi sedetti e cominciai il mio.

Sentendomi vecchio in eterno

(In effetti se dovessi pensare all’inizio del mio travaglio… le parole sopra son quelle che ricordo più… vere. Era il 1997.)

Lo spumeggiante gorgoglìo

dell’indaffarato fiume

s’agita nella mia testa

e non trova uscita.

Qual mastino nel serraglio

scuote la catena arrugginita

e latra al suo dio,

qual giallo canarino

sullo stecchetto abbandonato

sbircia la marcia verzura

io pure non so se devo

(o posso) rassegnarmi.

(Al Mella e a me seduto alla mia scrivania intento a studiare.)

Appare tumultuosamente bestiale

il desiderio

quale fiera dietro le frasche

aspetta la preda

tale il mio corpo desia

l’azione

e brama il bottino sol come

fin dell’arrembaggio

(Waitin’ for E. Pensavo a come descrivere l’eccitazione… rampante, ma pure il vuoto dopo la venuta. )

Quando cade una stilla

nell’acquaio riempito

veloce traspare il volto

che la mente ancor più presta

cancella, sì che io

non lo vedo mai.

(Pensando a C. Ma in effetti è il tentativo di richiamare volti, recisi dalle forbici)

Quando guardo il cielo

non vedo l’azzurro: vedo lei.

Quando guardo le montagne

non vedo le rocce: vedo lei.

Quando guardo un prato

non vedo l’erba: vedo lei.

Quando guardo il mare

non vedo l’acqua: vedo lei.

Quando guardo lei vedo il mondo

e mi volto dall’altra parte.

(Periodo stilnovistico; Masem ricorderà; 1993. Ho sempre voluto bene a quest’accozzaglia di parole, dato che ho sempre fatto così: mi son voltato dall’altra parte)

Amo passeggiare per i prati mentre

nubi benevole solcano l’orizzonte

dei miei pensieri e

ricordare che sono come

erba bagnata da

acqua celeste.

(Giocando col mio nome)

Il dissidio delle emozioni:

onde flagellate dal vento

urlano contro le carene

le vele strappate accusano

l’incauto marinaio morituro.

Cozzano tra loro le nubi

orride crepe straziano la notte

li diresti tutti infuriati

gli inquilini dell’Olimpo.

Sogna, marinaio, il porto

la bettola e il boccale pieno

l’orrendo lezzo delle banchine

il profumo delle cosce a pagamento.

Inutilmente alzi gli occhi

ed elemosini la salvezza

paga il prezzo dell’ardire

cola a picco col tuo legno

Proserpina forse per te riderà.

(Ero a lezione; ricordo solo questo)

Capitavano all’imbrunire

trotterellando bizzose

sulla rena fradicia.

Nascosto dietro le barche

ne osservavo stupito

…le danze.

Sciabordavano le onde

cancellando i segni

mentre le creature

scomparivano lievi.

Tornavo a letto

almeno più felice.

(Omaggio alle carpet Crawlers)

Verrò a prenderti colla cinghia

e legherò il tuo cuore al palo

dove le cagne bramose

lo sbraneranno finché i tuoi

singulti non svaniranno in una

orribile pozza di silenzio.

(Ultimi rantoli… )

Guarda com’entra se ti fidi

guarda i neri infidi capelli

tra i fermagli abbinati con cura

ai zingari colori delle vesti, guarda

le labbra carnalmente rosse tra

le bianche coorti, guarda

gli occhi scrutatori accorti

e giù il gioiello sulla caviglia

guardala mentre danza, mentre

ride, ascoltala mentre parla

ché te tu non la rivedrai mai più,

canaglia.

(Ah, porcogiuda, come era bella!)

Rotola l’asfalto sotto le gomme

fendendo l’orribile lezzo

delle marmitte delle ciminiere delle sigarette

rapide luci lasciano aloni

il cervello registra per il prossimo incubo

scoppi di clacson appresso al verde

strisciate di freni avanti al rosso

-… il cielo domani sarà azzurro

le nuvole bianche e il mare

amareggiato amoreggerà colla spiaggia…

… il nuovo singolo del Burlador… -

cartelli arancio ed ostacoli bicolori

Giano bifronte spaletta ai due serpi

contrari ed affiancati per divergere e

incontrarsi ancora ove s’infiora il rondò

nessun silenzio seppure serpeggi la solitudine

ammantata di lamiere e plastica

-… il killer ha portato il cadavere

in sacchetti per la spesa e distribuiti

in vari cassonetti senza avvisare…

… il nuovo mascara per il futuro… -

occhi puntati avanti a non perdere l’attimo

il varco ed essere più rapidi alla volta

mani e piedi mossi dall’abitudine

la mente sorpresa d’essere lì ma

giunti da dove? attraverso quali strade?

(Un esperimento; ma Giano bifronte detto di un vigile mi piace, così come “si infiora il rondò”: a dirla tutta, io amo le frasi, Lori, le frasi son tutto; Stefy, le trame non importano una sega, contano le parole, i detti, la scarna struttura: che m’importa cosa effettivamente uno vuole dire? Ci si cela dietro le immagini: quelli bravi stanno accucciati dietro le loro frasi e ghignano dei critici, caro Misha, scrittori falliti, i critici: io continuo a funzionare come una pentola a pressione, o come un brufolo da schiacciare, come una masturbazione da fare. Prima o poi la mente finirà di caricarsi, come la pelle invecchia, la pignatta arrugginisce, il pisello non tira più: Questa è la vita.)

sabato 1 settembre 2007

Per Lori: un pensiero

Non è molto facile parlati del mio rapporto con Meyrink. È parlare di un giovane liceale e brufoloso che cercava di buscare il levante verso il ponente, che imbrattava la giovinezza con letturacce kinghiane e che pigliava sollievo con Poe. E che un giorno si imbatte nei Racconti agghiaccianti, nelle 100paginemillelire. Non fu illuminazione, ma riconoscimento di fratellanza ed ispirazione di… vita, almeno nel racconto dell’asceta che stringe forte nel pugno la sfera di ferro e prova un forte dolore… finché uno gli dice che se avesse aperto la mano la sofferenza sarebbe passata. Provai una tale simpatia anni più tardi con la Bibbia di Rajneesh (non ricordo come si scrive). Su una bancarella mi imbattei pure nel Cardinale Napellus, altri racconti, ma era già amore. Dovrei parlarti di un ragazzo militare che giunge a Bolzano e non sa come fregare il tempo: i Pascoli del cielo di Johnny Steinbeck… mi ridiedero la gioia interiore e volevo leggere solo Furore. Poi mi feci ordinare il Golem… ma arrivò la Notte di Valpurga e non ti dico l’emozione: mai una scopata mi ha reso felice come quando la lessi per la prima volta. E fu il destino giocondo a regalarmi in piazza Walter il Golem: mi aspettava timido, timido, in mezzo a scarti mentali di oscuri pippoidi. Li ho letti tre volte entrambi e che dirti: quello che amo… è l’ambiente, l’atmosfera lugubre, cupa, sinistra, magica, semita, di Praga, la Golemstadt. E quel cappello pieno della storia di Pernath. E Meyrink dedito alla Cabala che l’ha salvato dal suicidio e la creatura del rabbino in giro per Praga e io, pieno del sogno di morire in quelle strade, fottuto tra i capelli rossi di una leggiadra fanciulla. Ma nella mia vita conta di più la Notte: troppo del mio cuore batte su quel tamburo, o nella Daliborka, con Ottokar e Polixena, ma non posso raccontare di più. Sì, i Demoni, i Fratelli, l’Idiota, l’Uomo ridicolo… ma anche l’austriaco di Praga: cosa sarei io senza il Dosto, senza Steinbeck, Camus, Meyrink, appunto, e Dante, Montale, Cervantes, Turgenev, Gogol, Svevo, diomio, Carloemiliogaddus! Non sarei… tutto qui. Leggi la Notte, quando la trovi. Chi non è come Zrcadlo, in questa vita, o in altre. È tutto così ineluttabile, e decadente, e finito.