lunedì 21 settembre 2009

Risveglio tipico

Mi sveglio alla mattina e sento che potrei dire con infallibile certezza quello che accadrà entro sera: poi rifletto che, proprio per averlo pensato, quel qualcosa non si materializzerà. Così sorrido nella consapevolezza che, anche se sapessimo prevedere il futuro, saremmo perduti comunque: come Merlino che conosceva data e causa della sua morte e, contemporaneamente, viveva nell’ineluttabile fluire degli eventi; quando incontrò la donna che avrebbe cagionato la sua fine, non oppose alcuna resistenza: non avrebbe certo potuto.

Così finisce la razionalità: giù nel sifone del water, sempre che la Casualità tiri la catenella.

Non ci sono rumori nella mia camera, almeno oggettivi, come il tic-toc di una sveglia, o cose così: c’è il fiume all’esterno, ma quello non lo sento da anni, come il suono dell’aria che dovrà pure esserci, mica appena quando si fa vento; dico, pure il refolo un suo accento deve averlo, ma non l’odo.

In camera mia regna il silenzio oggettivo: è quello soggettivo a spadroneggiare, l’orrido acufene. Non smette mai, ha un livello medio, tripartito e costante e, a seconda dello stress, della pressione atmosferica e/o sanguigna, sale in concerti di scrosci, fischi e sortite di stridii. Così sollevo le palpebre e principio a notare il rumorio interno. Levo la testa e si mette in moto il naso: pruriti e necessità di svuotare i canali, i cunicoli, sì che l’aria novella possa fluire garrula su e giù, lungo vie che immagino giungere fino al poco ossigenato cervello.

Meglio alzarsi e ciabattare al bagno e poi in cucina.

C’è indifferenza nelle case di primo mattino: gli oggetti dormono più a lungo di noi tapini. L’aria notturna ristagna sui mobili, sui quadri, sulle foglie delle ridicole piante di mia mamma: non c’è attesa di qualche cambiamento, potrebbero restarsene lì per sempre: oh, certo, le piante morirebbero, ma non se ne accorgerebbe nessuno.

Accendo la luce in cucina offendendone gli abitanti nascosti. Una mosca, convinta di spadroneggiare, si leva presta e la locchio nell’abile suo planare sul tavolo, con lieve strafottenza. Al lago imparai a pigliarle con la mano: ti avvicini sornione, attendi la distrazione del nemico e poi parti; se avviene all’unisono con la volontà dell’insetto, te lo trovi nel pugno e lo sbatti sul pavimento in esplosioni di organi vitali. Crudele: le mosche sono più vecchie di noi bislacchi bipedi, potrebbero insegnarci mille cose e poi altre mille, ma farebbero anche un bel gesto evitando di sorvolare la mia pelata in ghirigori acrobatici. Tra me e la mosca il divario genetico è enorme e, prima o poi, qualcuno splatterà il sottoscritto ma io so che inevitabile: questo è l’unico vantaggio di una mente razionale ed evoluta.

Preso da queste belle e profonde riflessioni m’ingozzo di pane e latte e caffè e fetta biscottata.

Che giorno è? Un altro giorno perfetto? Senza bere sangria nel parco? Lontana la strada risuona di marmitte e motori sbuffanti: c’è chi vive per davvero e chi, buon per lui, ignora il caso. Dovrei afferrare una bandiera e sventolarla dal balcone, nell’indifferenza delle piante, del Mella, delle trote, dei passeri e dell’airone girovago. E delle montagne, lì prima e dopo di me. La mosca ne sapeva di cose, perciò l’ho ammazzata. Vecchio inconscio.