martedì 11 marzo 2008

Sfoghi onanistici

Mi chiamate da afflati notturni:

Pervenne, pervenne!

Sì, pur ora, al toupet corvino, al dilaniar d’altrui programma, bavose le cagne al fiero pasto cartaceo.

Ei fu.

Quest’è. Securo sulla scranna, fatto securo da sé anni addietro: non pote essere trono per vizio di forma.

Quanti si tegnon or là sú gran regi

E lo son sanza corona ma coi palagi, colle corti, colle auree quadrighe siccome biechi mosconi attenti all’uman sterco (di diamanti ne nascon ben pochi).

tra un alalà di scherani,

la povera plebaglia innaffiata dal seme mortuario: ovunque i birri presi per saccenti, gli sgherri per capaci, i bravi per benefattori; pure ganze come martiri del vaniloquio, callipigie, siliconate, diafane, lampadate, ramate, bailamme compulsivo.

ed io me ne andrò zitto

sì, sì, muto e solingo sul suolo natio: conti sodali sugli scaffali e fuffa nella capoccia.

domenica 2 marzo 2008

Turibio(4)

Già lo so, già lo so, mi direte: eccolo lì, l’anticlericale, uso e aduso ai più beceri luoghi comuni, sparafregnacce a ufo, sbrodolatore foioso di minchiate contro li umili servitori dde’l bon Iesù; già, già, certo, se ei fusser sol umìli sclavi del Salvatore, pronti ad addossarse o’fardello della Croce, ad imitazione der Cireneo, a rassembrà l’imago sofferente der Crucifisso, icchè io arei dda dì? Gnente, gnente oserei contrapporre, manco arei da dissentire. Ma senza fissar su portoni dde cattedrali o domi una quarche tesi e protestà menando il pippo e cagionando scissioni, a lo ver dire de motivazione un pochetto economica, ammantata de religioso sdegno, senza, dico, salir sur pulpito e sbraità d’evangelica chimera, io dico: ogni qual volta se impiccian nel non spirituale, nel non religiosamente morale, quanno sforano dd’a fede e si sforuncolano nella politica o nell’etica personale et relativa, mihimet sbattono li cojoni. Detto questo, direte: dù, tre casi, al massimo quattro de soprusi su li pargoli e su li deboli; oh, certo: quinni bastevoli. Ma queste le son mie dissertazioni al de fora del seminato: il Turibio ‘na mattina annava a pijà l’autobus ppe la scola, quanno, passando sotto le finestre de la domo d’o parroco, ei sentì le tapparelle sollevarse, e quinni pensò di tributar lo iusto saluto e buondì al iovine nero-vestito; s’arrestò e attese: libero il pertugio, una mano salì ad aprire le finestre sì da far passare l’aria pura delle primiere ore; quand’ecco che a respirar pieni polmoni non addivenne il petto villoso del curato e neppure la sua ispida barba del dopo notte, ma, a li oculi del Navicella, si svelaron dù zinne e crini bionni attorno diafano volto dd’a femmena ch’ei conosceva e sapeva fidanzata e sur punto de scavallà lo sacer matrimonio. Restò siccome sasso e incrociò il guardo colla barbella dde diciott’anni: chista lo spernacchiò chiosando con gesto e parole: -‘azzo vuoi? Turibio levò i tacchi e svolacchiò tra i mille pensieri alla fermata della corriera. Chisto il seconno motivo; il primiero quarche anno pria: covò a lungo e si schiuse a pulcino poi gallo: il dubbio così cantò tre volte nel suo cuore e si sommò ad altri suoi simili e ruppe il velo della certezza infantile, della fede e della speranza: de la carità no, che chilla bisogna tenersela stretta e mostrarla talvolta il questo monno dde lupi e de tajiole dd’er cazzo. In nuce l’è ‘na cavolata, ad esser sinceri: ma come spesso accade, son i più piccoli particolari che ci sparnazzano il core, e nella picciola ferita passa l’aigua, la si ghiaccia, e al novo calore si sgela allargando ‘a frattura infin alla rottura definitiva, in barba alle colle e allo scotch pissicologico. Ma pria d’addentrarci un poco nell’episodio imputato, lasciatemi rinnovellar il tempo della mia iovine etade e universitaria, quando con conti sodali suggeo il succo brumoso della sapienza altrui e quanno er monno ritonno e le sue quistioni problematiche e lavorative, l’era cosa altrui, e li nostri calli prestavan ovra ai leggeri piedini immacolati di cerbiatte diafane e corvine, e oltre la siepe nessun infinito patire, nessuna morte e degenerazione ancor ghignavan, ma cristalline risate e odorosi sfarfallii di barbelle, passere, di menadi e baccanti callipigie, zinnute e foriere di lievi contatti con brandelli come lacerti di Madonna Bellezza: e noi sclavi ancorché servi, attendavam la stilla come l’arsura la goccia di pioggia. In quel tempo quasi aureo, almen argenteo, ognun ricettava ammaestramenti e poi li condivideva tra bighellonauti, poggiando i gomiti su tavoli di bar, o dello spizzico, magnando a quattro palmenti chi riso e chi pasta, gargarizzandoci dietro aigua non di fonte: io seguitavo etiam historia del Cristianesimo saepe solo, con la bon’alma del profisur, ché voleo raddoppiar ‘l corso e pijà er fojetto allorato proprio con chilla materia; e mi sbrodolavo giù nel cavo orale lunghi sermoni colle palpebre spalancate pure senza gli spilloni: durante la primiera tappa s’affrontò magna cum peritia el Concilio tridentino e la mie recchie stavan all’erta, pronte a pijà succulente e magari pruriginose nuove con le quali pasteggiare e ghignare nel tempo del traccheggio bighellonico. E s’arrivò così alla quistione del celibato dde preti, che pria non l’era regula vincolante ma ciascheduno s’arrabattaa come ei credea; e c’era pure chilla problematica della confessione sì personale che lo stolato el voleà saì tutto tutto, ma prope töt, li particulari sovrattutto, etiam chilli sessuali, e molti nerovestiti se mettean tanto vicini alla fedele che i labbri se sfioravan, figurarse le mani, e i petti, gionto io, libidinoso. E i padri conciliari se scavezzaron le cabezze onde rinvenir soluzioni e limiti: annateve a legger vui, che se ridde! Ma l’è vera cosa, strombazzavan troppo i corvetti del Signür, quinni me parve che non la fusse questione dde vietà i rapporti intimi colle donne, ma dde limitarli. Ma non l’è mai stata prerogativa d’o cattolica mente, la ragione umana e comprensiva: sic spararon contro Natura (già ella ghignaa e ghigna) e scelser il divieto e mal j’e ‘ncolse. Poveri stolati con tutte quelle sottane attorno, chille zinne materne e ballonzolanti, chille menopause e chilli bollori non sbolliti coi mariti rapti dar calcio, d’a caccia al fringuello poarello. E ‘l preticello divien rattamente mastio nella foia feminina, e ‘l dubbio, o ‘l diablo, o la tentassiù ebefrenica, eh, la và mondata, e qual mijor aspersorio dde purezza del subiotto ascoso dalla nera veste? L’omo l’è omo seppur paladino dda fede; e je se rizza, nun me dite dde no pure a illo, e la femena, se la vole, la pija, altro che opposizione stoica. Da cui si penserebbe al gesto umano e ragionevole: lassateli pijà mogliera e che zompino solo con chilla, svuotando santamente le balotas tra le coltri matrimoniali. E che cambia? Mica certo il ministero, la sustantia la sarebbe identica, magari più veritiera; e poi aver ‘na femmena ppe’ baita stornerebbe la nefasta tentazione de le altre passere che le volerebber in altri cieli ppe altre panie, la ce penserebbe la popputa uffiziale a cacciar dal nido le arpie, iovani o mature che le sian. Oh, come son filantropo! Comunque quel curatello se spretò e pijò moije, e fijò, ma non con chilla giovine, ma con un’altra e in un altro paess. No! Il semen che poi germogliò ne la pianta del dubbio nefasto fu gettato nel campo pectoris del Turibio da altra mano e tempo addietro e, ripeto, la vi parrà chiù minchionata che altro. Accadde che al fanciullo gran timenza e rispetto generaa il ciborio colla pisside addentro: quanno accompagnaa il sacerdos a pijarla durante ‘l sacrifizio, il Navicella guataa estasiato chillo che spalancaa ‘l tabernacolo; l’era la luce arancione che ogni volta suscitava un enfiagione nel core iovine suo: già nei primi anni del suo chierchettato s’era convinto che là dentro, oltre la porticina dorata nun c’era solo il sacro e prezioso contenitore di particole, ma Iddio stesso, o la colomba de lo Spirito Santo, almeno. Così non si avvicinava mai troppo a quella misteriosa nicchia, quand’era aperta. Ma un pomeriggio che l’era col prete in sacristia a parare la messa serotina, questi lo chiamò e lo spedì a prender proprio la pisside e gli diede tra le mani la sacra chiave; il Turibio sentì la terra aprirsi sotto le scarpe di ginnastica: ma come aprire quel tabernacolo senza rischiare il furmine divino, il colpo tra le scapole del Dio degli ebrei, chillo che s’incazaa arquanto: e iusto due ddì prima a scola l’era apparso siccome a Lurd un iornaletto con diavolesse prone e suggenti da villosi priapi, e lui non s’era ancor confessato! Ma non si potea disubbidir al prete: omo morto che cammina, se podria dire in chel caso. Il Navicella posò uno dopo l’altro, piedi marmorei da un quintale, insino agli scalini che, in numero di tre, parver centomila, e, tra sudore e tremore, potè poggiare le mani sulla picciola porta aureo-argentea. La chiave nella leva: ei tremò, e mordendo i labbri, l’infilò nella toppa; ruotò dopo mill’anni due vorte a destra, udì il clic: serrò gli occhi spalancando e attendendo il fulmine e la morte istantanea; poi, dato che non puzzaa di brusciato, aprì a fessura i lumi e locchiò timoroso dentro il ciborio: le pareti metalliche riflettean la luce arancione e tranquilla la pisside stava lì, sola e inoffensiva. Ma dov’era il Dio? Assente? Non in casa? Allungò la ritta e la carpì: la stanzetta mignon si mostrò vuota: una luce per niente divina ma molto artificiale stazionava sul fondo: non uno strale. Ma allora, tutte quelle paure? Quel tremolio ancestrale? Frutto di condizionamento pissicologico? Richiuse il tabernacolo e portò il contenitore al prete. Non cambiò subito: volsero nel cielo i soli e gli apolli e le lune, pria che nulla fosse più come prima, e, certo, quell’assenza del cattivo sterminatore dde Sodoma e Gomorra, o del buon pater che ricovra ‘e pecorelle smarrite nell’ovile, quella mancata fulminata der peccatore Navicella… contò molto nel suo cuore ingenuo, e s’assommò a i dissertari del russo epilettico, dei franzesi, del californiano, dell’austriaco, del toscano… e così via, che nulla mai vien da sé o da solo, ma semper in bona o cattiva, comunque compagnia.