sabato 18 ottobre 2008

Morì il vecchio Blue,
e morì così forte
che in casa mia
sbatterono le porte.
Gli scavai una buca con una vanga dorata
lo calai con una catena argentata;
ad ogni anello gridai:
-Ehi, Blue, amato cane,
ehi tu!

(Canzone folk)

Io che ne ho sempre troppe di parole, questa volta ne son carente.
Ciao Silla, grazie di tutto il tuo amore, ci si vede...
... e il travaglio è sempre più duro.

Lucio Cornelio SILLA Felice
N. Parte 21/03/1999 +Calchere 17/10/2008

giovedì 16 ottobre 2008

continuazione del brogliaccio Turibio

Quanno ‘l treno prinzipiò a sferragliare e, pria lento, poi sempre più presto, se ne uscì dall’urbe, e il cemento lasciò spazio al verde e la campagna s’accompagnò al cielo del tutto azzurro, siccome nei dì di festa, quanno ormai i tetti e i giganti vitrei e grigi da lungi non sapean certo atterrire le menti bimbe, quanno il serpente a vagoni avea raggiunto la velocità da viaggio… Turibio chiuse gli occhi e soffiò dalle nari. Nello scompartimento l’era riuscito a trovar posto accanto al finestrino: tre sciure insciallate ciacolavano sui sedili attorno a lui, sui restanti due, un tizio con ventiquattrore pitonata locchiava nel corridoio le chiappette di tre studentesse, e, dinanzi ai sui raiban, un iovine pari al Navicella chinava la testa com’in preghiera e forse te tu potevi indovinare che l’aspettava, pur’illo, il maculato destino. Tanti, ora lo so, su quel treno viaggiavan incontro al signorsìssignore, ma, così compressi chi nel dolore, chi nella cagarella, non si riconoscean a naso: arebber imparato a farlo quarche luna chiù in là. L’ultima imago captiva nella sua retina pingeva la sua mammina nell’atto di crociarsi la fronte, sparse due grasse lagrime sul troppo belletto, e il pater, stretto un mignon di greggia nella manca, ghignava e gli somministrava continui occhiolini per una certa intesa che l’era cristallina solo in quella mente annebbiata.

Aprì gli occhi verso le cascine che volavano via verso il dimenticatoio, con covoni, trattori e rare vaccherelle: gli parve d’udir il cachinno del garzone, il fruscio della biancheria della massaia, il pane appena sfornato: tanti scherzi ti fa la mente quando viaggi e rattamente attraversi il vivente paesaggio. Il treno principiò a rallentare sì da lasciar liberi qualche giovini progettanti una bella giornata al lago Benaco; Turibio patì una lieve invidia, giù nel duodeno. Guardò la sua dirimpettaia: attraverso il belletto la sciura lo osservava materna: con istinto feminino l’aveva capito che il paino annava ‘a milite, e pure l’altro in là, propinquo all’uscita. O poveri virgulti strappati al suolo natio per essere mandati al macello, dentro decrepite caserme ove giuocar a far ‘a gherra! Sì, ‘a gherra de’ miei stivali! I baldi di principio secolo, in sul compimento de diciannovesimo anno, killì yes, che furon ispediti a sbrodolar budella, arti e zuintù ppè niun terreno, niun avanzamento sulla cartina; e se ei volean volgere all’amata baita, evitando inutil schioppettate, ce pesaa sor commandante a brancar ‘a berta e giustiziarli in nomine patriae da non molto reunita. Killi l’eran giovani ostie su altari immeritati; mica kisti, pieno il sacco sopra il pisello, e repleno ‘o portafoglio di freschi dindi. La cariatide gentile sorrideva ebete al Turibio: introitò le ossee dita nella giberna e ne trasse un fojetto che porse, manu tremante, al garzoncello: ei lo pijò, convinto der dorcetto, invece se trattaa d’una di kille immaginette raffiguranti pii individui e presunte testimoni dd’a fede: li santini tanto cari all’Agenzia per la Massificazione della Cultura Religiosa. Ancora la religione a ghermirlo carda, carda come le poppe della nutrice Gaeta; un fraticello d’o tertio ordine franciscano lo guatava iraccioso: gli parve zintomo di sfiga e tenerselo in saccoccia e gettarlo nel posacenere, oltre che n’offesa per la pia vecchierella; sicché se lo tenne e lo ascose nel portafoglio, tra le banconote, ove il zantino se sarebbe trovato a fagiuolo e se sarebbe dimenticato di menar gramo. Sorrise sperando di non dover offrire dindi.

Le sciure scesero alla successiva fermata, non senza lasciar un ricordo di loro: non preteser un osculo certo, ma toccaron le teste dei due tapini gracchiando un profondo: -coraggio! Turibio e lo sconosciuto si scambiarono un guardo d’intesa. Pure l’altro inquilino levò le tende, ma lo scompartimento non restò voto. Turibio scivolò via da finestrino e si accomodò davanti al cocondannato, accanto alla porta, dato che la successiva fermata la sarebbe stata loro. Ma il Destino volle pugnalare il core dei due fanciulli: salì un pingue gruppo di universitarie ciacolanti come al supermercato e quattro di loro si fiondarono sui quattro sedili liberi, appesantendoli di tumide chiappe. Il treno riprese il viaggio col solito suo sferragliamento; le barbelline non stopparono il loro ameno cicalare onde non disturbare i due sconosciuti tapini, anzi, accrebbero il volume, sì da far intendere senza fallo icchè comanda. Il povero Turibio non seppe imbrigliare i suoi lumi, non usi alle giovinine grazie libere dal giogo parentale: volò il guardo dalle poppe di una alla mignongonna dell’altra, e i sandaletti intravisti di chilla in parte al finestrino, laddove giusto pochi attimi prima, ancor sedea lui, quei calzari j’e fecer perder senno e cosenno e notti future. Quella accanto non se ponea il problema di urtarlo dato che l’era la men smilza, ad essere eufemisticamente buoni. E un colpo qui e uno là, finché il Navicella si piegò a farsi ancor più piccolo. L’eran vicende barbellonesche che volaan tumide al peccato, odorose di fondotinta e mascherate di mascara, l’ultimo per sentirsi –donna che la vale-; perline sagge e sapienti e sapide e sbrodolanti saliva e cachinni, infiniti riferimenti e parentesi tonde, quadre e graffe, da perdercisi dentro, almeno i profani, quelli che dal branco son esclusi, per contingenza, per etade, per capelli radi e rari e rarefatta ottusità. Roboavano istorie magne di Rodomonti carrozzati e Ruggeri ballerini, e Angeliche e Angioline, tutte troie ikk’ell’altre, mica loro, lor, no, sic sancte, coi boccoli appena, appena boccolati e le unghie pinte d’arcobaleno ‘mbriago. Non ci si capiva una fava: l’era, killo delle barbelle, un di quei monni, dda quali ‘l Turibio l’era, per natura naturante, escluso (il cane). Inutile tentar di capire o entrare nei discorsi. Marmillona, l’una certo la si chiamava icì, prese a locchiare i due sfigati: siccome le vecchierelle, le iovani l’avean intuito che si trattaa di futuri militi e presenti cacasotto; del resto il train l’era repleno, cannolo alla crema, di maculaturi. E prinzipiaron a occhieggiare malitiose e dardeggiare sapendo che i dù barbogi mica arebbero tentato l’approccio, tutti intesi a trattener le chiappe dal lordare le linde mutanne e il cocò, ex-lindo. Vollero far capire aa’sfigatelli che proprio, proprio in sul momento di smontare dal trenino, la si presentava l’occaso: proprio prima di venir imbrigliati dallo Stato Tiranno, così da piagne e piagne pigolando sul cuscino dd’a caserma, rimembrando quelle lasciate andare sine far seguire almeno il numero del telefono alle leggiadre occhiate. Tanto è granne ‘o potere vulvorio. Un guardo e te tu ti senti già padrone, ed invece, nun sei e nun sarai domino d’un cazzo de gnente. Tanto gentil e tanto onesta pare… il guardo… tutta la tattica d’omo preteso pleiboi, a farsi fottere dall’occhiata marmillona d’una splendida Cerbiattina. I’so. Voi vu’credetevi pure granni conquistatori: ‘na donna che la si fa conquistà senza averlo deciso lei medesima, o che io devo ancora vederla.

Città X. Il treno rallenta e si ferma; Turibio e friend (muto tutto il viaggio) sbarcano coi loro valigioni; le barbelline sghignazzano: al loro paino toccherà in futuro, ma lui arà più e più dignitade e lui conquisterà il monno facendole reine, almeno. Con le ginniche scarpe, il Navicella toccò il suolo: c’era da cercare il binario ove sarebbe partito il secondo treno, quello verso la cittade del servizio: non vi fu difficoltà, bastava seguire la marea bestemmiante.

Giuso dal treno la folla dei dannati, fattasi torrente, scivolava dalle scale verso il tunnel sottostate; indi si partiva in diversi fiumiciattoli, alcuni fuenti insino la foce, altri imboccavano ancora scale per pigliare nuovi binari, nuovi treni, nuove destinassiù. Zaini e borse di fogge diverse precedevano Turibio and friend: questo gli era rimasto incollato in un tandem di sfigatoni che però nello sfigamento generale non balzava certo all’occhio. S’era ancora al tempo dei berci e delle ghignate, onde covrire il cagamento reale: chi sbocconcellava pasti parati all’uopo dalle mammine, chi guatava istantanee della morosa certo, nel presente. a novanta innanzi ad un altro ganzo, chi contava le mance dei parenti, chi sbrindellava quotidiani sportivi, chi s’atteggiava a grand’omo esperto dd’o monno, e tutti, tutti, mollavan scoregge veritiere. Fischiò il treno tracotante: molto più piccolo del precedente sennon col maramaldeggio ferrato mica se potea fa’ notà. O’macchinista già lo sapeva che sarebber saliti i nuovi militi: li guatò dal finestrino tradendo una lagrima di invidia, per l’etade e per le occasioni perdute, come se, retonnando iovine non le arebbe perse ‘n’atra vorta! Tanto ci si crede cresciuti ed esperti, sol perché aumentano gli anni sur groppone. Tutti stipati nei vagoni, il nuovo viaggiò si iniziò e man mano che la destinazione s’appropinquava, scendeva le boci, sin a livello di sussurro, e, nel rallentamento, di silenzio catacombale. Giù li iovani! Ecco la cittade del primo servizio, ‘o Car. Turibio l’era silente oramai da ore: nessun verbo avea scambiato nell’ultimo iter; un groppone gli serraa gola e stomaco. Seguì i compagni di sventura siccome pecora ed in effetti, in più occasione, je parse dd’essere membro dd’un gregge; ed i pastori non tardoron a manifestarsi.

Il primo mezzo che Turibio notò fu il pullman verde: fermo in mezzo al piazzale davanti alla stazione dei treni, se ne stava placido, con la porta anteriore aperta; la posteriore, chiusa, stava a significare che tanto si entrava, quanto non si usciva più. Tutt’attorno jeep e camion. Soldati sorridenti e soldati seri: questi ultimi con mostrine complicate; il Turibio una qualche cognizione l’aveva, riconobbe gli ufficiali e li distinse dai militi semplici, l’era già un passo. Si mise in fila: lunga, sonnacchiosa, partiva singola e poi si divideva in altre minori, posizionate innanzi ai mezzi: la prima scrematura. Turibio finì in quella davanti al pullman e, chiamato siccome una pecora, ci entrò stringendo la sua borsa come arebbe stretto l’amante, ad averla. Pigiato come sardina sperò che tutta la prima recita finisse, ma non dovette invece attendere il termine del carico: il pullman se ne andò prima. La pancia brontolava, un biscottino sgranocchiato ascoso ai lumi dei militi protesi verso l’enorme cristallo del mezzo, bastò solo a ricordargli casa: ci pensava per la prima volta, ci avrebbe pensato molte altre. Non versò alcuna lagrima, seppur ne avesse una gran voglia. Non fu un viaggio lungo: attraversarono vie cittadine, strette e terminanti in semafori; fuori dal pullman la gente continuava la sua quotidianità, inconsapevole del dramma interiore delle reclute, o forse consapevole ma menefreghista; giovani pulzelle ciacolavano sui marciapiedi, bimbetti correvano con enormi cartelle sulle piccole schiene, vecchi rimbrottavano il tempo, lo Stato, il Giuridico, la Morte, la Malattia: invero, tutto come nella sua città, al paesello, ovunque. Dicevo, non un lungo travaglio: la caserma si manifestò prima in alte mura giallognole, poi in torrette e filo spinato, poi l’ingresso vero e proprio; il mezzo sputacchiò nel rallentamento e nella svolta dell’abile pilota; passata la sbarra, per l’occaso alzata, il Turibio vide il primo piazzale: quadrato come in tutte le caserme, fiancheggiato da edifici per tre lati e da una fila di alberi lungo il quarto, portava su di sé dei segni in giallo e in blu che ognuno dei condannati alla naja avrebbe imparato, sì da non farne le spese. Il pullman percorse due lati e innanzi all’ingresso di un magniloquente edificio, si fermò e si spense. Uno ad uno i pigiati fanciulli scesero e furono messi in file parallele, lungo delle linee rosse che Turibiò notò solo calpestandole. Giovani maculati e sbarbati con un cordone sulla spalla destra urlavano ordini a dei supposti sordi; non fu un caso rimembrare un certo film amato qualche anno prima, Full Metal qualcosa, e pure quello… quello col romanaccio, 365 all’alba: appunto. Chiamati a berci, quelli davanti a Turibio partivano con le loro borse e entravano nella caserma delle reclute, dato che tale era quell’edificio, sebbene, a dirla tutta, vi fossero ben altri 5 edifici, quattro di quali pure per burbette. Il Navicella attese il proprio turno e corse dentro, poi su lungo quattro rampe di scale, dietro ad altri facenti parte del medesimo destino, fino a fermarsi su un piano, il secondo, e raggiungere una camerata enorme, divisa sì in sottocamerate, ma da parer un tutt’uno. Giunto innanzi ad una branda attese ordini; ci buttò sopra la borsa e poi tese l’orecchio sperando udir il verbo –mangiare-; infatti un iperteso lo pronunciò tra altre vocali e consonanti: dovevano scendere e uscire, correre in ordine davanti alla mensa e attendere sempre in fila. Lunghe ore, lunghi giorni in fila, sempre in fila, si avviavano: una cosa alla volta, questo il segreto; ma ad impararlo ci si metton sempre scorni e botte al cranio e al cuore.

LA MENSA

Tra la calca e l’ordine militare non v’è differenza quantitativa ma qualitativa: l’orda maculata ristà avanti la mensa truppa, allineata in file da dieci per non so quanto. Il nuovo arrivato s’aggiunge all’ultima, mantenendo intatto l’allineamento: non favelle, non faville di sigheretta. Non berci, ma sussurri. Il caporale guata il tutto tra il sornione e l’addormentato, coperti gli occhi dal berretto piegato nella becca, dato che lui l’è viejo.

Quando arriva il turno tutta la fila cammina, non corre!, dentro l’edificio ove si manduca: ma l’è ancor presto, bisogna aspettare il dipanarsi della coda interna, pria di giugnere al cabaret marrone, e poi ai panini, posate, bicchieri; il tovagliolo cartaceo attende in pile bianche sui lunghi tavoli. Le reclute devono tenere in mano il berretto, guai indossarlo! Non si manca di rispetto ai vieji. La distribuzione del cibo è ratta e genera sospetti: il meglio giace nascosto, per i banfoni. Prendi quel che ti danno. Nelle caserme del Carr si magna bene, di solito: non si vuole che la burbetta si lamenti subito col papi e la mami; lo si ingozza, soprattutto dopo i vaccini; per questo tanti diventano grassi sotto naja. Il curioso l’è che si sta sempre per squadre: te tu non l’abbandoni la tua; sai che eventuali ritardi all’adunata, tuoi o dei tuoi compari, sarebbero materia di fuffe rampogne; si vuole evitare quei ameni dissertari degli istruttori circa valori quali puntualità, rispetto, condivisione della colpa e dell’espiazione. Tu t’attacchi al compagno di sventura e lui s’attacca a te, tandem di pisciasotto e cagoni, futuri najoni o menefreghisti, ma al Carr la barca l’è la stessa: si rema perché il mese passi in fretta.

Turibio una mattina prese la ciotola di metallo dal vassoio e lo porse al cameriere dietro il bancone: attento a non rovesciare niente, lo ripigliò con la ritta, pieno di latte e cacao; proseguì pigliando brioche e pane e marmellatini. Un cucchiaio di zuccaro e va ad un tavolo, immancabilmente coi camerata. Turibio para il panin co’marmalada, con gesti lenti e misurati: lo si usa tutto il tempo libero; piglia il cuccamo e lo immerge nel latte, quand’ecco che la superficie si guasta da sola, come se da sotto qualcuno volesse apparire: Turibio osserva rapito e stupito; posa il cuccamo nel cabaret: il latte tremola ancora all’apparir saputo d’una zampettina, poi un’antenna e il baccherozzo trova il bordo e si issa con perizia e forza, data l’armatura e il peso. Uscito si scuote dalle gocce lattee e si getta fuori dalla ciotola, sul cabaret: Turibio, lo spinge sul tavolo e poi in terra. Or che fare? Un’altra tazza mica te la empion, e poi non c’è più tempo per un’altra coda: non resta che dimenticar l’apparizione e magnar latte e pane, morir non se more, ppe lavacro dde baccherozzo birbone, probabilmente già defunto sotto il vibram di qualcuno.

LA PRIMA DOMENICA MATTINA

Era andato a messa: ppe evità di finir infognato in quarche mestierino rompiglioni, su in camerata, tipo pulire tutto il pavimento co’ scopino minuto. Non avea udito alcuna favella del nerovestito: tanto era il suo rigetto verso le amenità di chi sbravazzava sotto il nome del morto in croce. Dopo l’andate in pace, s’era fiondato su in camerata: la colazione fugace in mensa non l’era bastata, e già s’eran involate due ore; il dì precedente j’vean foracchiato i bracci co’siringhe, e il dubbio dell’avvelenamento preventivo j’era venuto. La fame lo abbrancava bastarda: si cambiò immantinente, da maculato a civis. Non dimenticò tessere e tesserini, e, senza cercar compari, corse giù dalle scale: giunto nel piazzale, rimembrò i rimbrotti possibili e prese a camminare compito e a guatare a ritta e a manca onde stanar qualcuno disposto a menar il pippo così pp’e passatempo. Per dodici mesi si sarebbe sentito sur groppone questo senso dde voler evitar ogne rogna. La carraia s’avvicinava e lo stomaco rullava i tamburi; la passò indenne e allora sì che prese a correre verso la città. Era la quarta uscita, la prima di giorno, ma Turibio non vide un cazzo: bramava solo l’agorà e i suoi bar appollaiati tutt’intorno. Manco ne scelse uno in particolare, entrò nel primo che gli capitò davanti alle punte dei piedi: pochi avventori, ma lui non vide i loro volti; si sedette e la cameriera, intuendo il dramma, arrivò rapida: Turibio ingurgitò un cappuccino con sei brioche; oggigiorno sarebbe ruinato economicamente. Alla quinta, i lumi levò dal fiero pasto e s’accorse d’un milite che fagocitava uno strudel immenso, due tavoli in là: lo chiamò e si fecer cenno d’intesa. L’ossigeno arrivò alla mente e Turibio vide la cameriera che pur lo avea servito: sorridente siccome il sole, si carezzaa il lunghi cavei, raccolti in crocchia sulla nuca; bionna com’il grano, volgea i cerulei strali verso la piazza: forse cercaa il paino, forse ‘a carrozza, forse nient’e nessuno. Due schiere di bianchi e ordinati denti non bloccavano il respiro dei sogni giovanili: le lunghe dita diafane preser a giuocar con una ciocca bionna, l’indice l’arrotondava esperto. Una mosca impertinente osò posarsi sui capelli e lei, stizzita, con un solo e preciso gesto della manca le fece capire di cercar indugio da un’altra parte; nel rapido movimento si disvelò il collo, lungo, e bianco di candida innocenza. Turibio pensò bene di mordere la sesta brioche e annegar l’illusione nel coma ipercalorico.