giovedì 28 agosto 2008

Ritorno al lago

Quel che più mi stupisce quando arrivo in un luogo legato alla mia infanzia dopo anni di assenza, è la constatazione del cambiamento delle proporzioni tra me e le cose circostanti: è un fatto del tutto naturale e normale, eppure, quando ci si accorge dell’effettiva fallacia dei riferimenti ottici conservati in una qualche stanza della memoria, si resta perlomeno attoniti. Ancora prima di registrare i veri cambiamenti, ciò che c’era e non c’è più, quel che è nuovo e che magari stona ovvero dona miglioramento, pare che tutto sia diventato più piccolo, le distanze più brevi. Ricordo un episodio: dopo qualche anno, almeno un decennio per dir la verità, tornai a sciare in una località che solevo frequentare da bimbo; non mi stupii subito, ma durante la seconda discesa pensai che qualcosa non doveva funzionare per bene. Impostavo curve e traiettorie seguendo l’istinto legato a parametri vecchi, obsoleti, creati in base ad un corpo e ad una velocità ben diversi: quando sbagliai una stradina fermandomi ben più in basso, mi fermai per pensarci su e capire. Anni prima un mio vecchio allenatore mi fece notare che uno dei problemi che avrei dovuto affrontare nel rientro all’attività sportiva dopo l’anno di infortunio, era quello delle proporzioni: durante l’adolescenza dodici mesi sono tanti, i centimetri di altezza cambiano, gli occhi sarebbero stati legati ad una distanza dalla punta degli sci oramai errata e la posizione del busto, delle braccia, del capo ne avrebbero risentito in negativo. Bisognava convincere la vista ad adattarsi e a lasciare il corpo libero di pigliare posizioni più consone: tutti questi errori di posizione nello sport diventano zavorre fastidiose, ma, almeno, ci si accorge di loro in fretta, il difficile è correggerli; nella vita ordinaria, invece, li si stanano a stento, e perciò assumono tonalità curiose. La vita prosegue sempre e ovunque, indipendentemente dal fatto che noi ci siamo o no: quando guardo il Mella penso sempre che è qui da ben più tempo di me, e qui sarà pure quando io darò cibo ai vermi senza saperlo né volerlo; l’intruso sono io con i miei occhi che registrano un istante, o molti istanti, ma sempre minime frazioni del tutto insignificanti nella vita di un luogo; l’errore è illudersi che qualcosa possa restare invariato nel tempo, solo perché non ci siamo noi a certificarlo. La natura non si cura della presenza o dell’assenza dell’osservatore: fa il suo corso e, giustamente, se ne fotte. E poi ci si mette l’uomo a farneticare cambiamenti con l’isteria che gli è tipica, convinto che fare, distruggere, rifare, ridistruggere, cambiare sia sempre il comportamento migliore: il vecchio stona, sfasciamolo. Sotto sotto la natura, le piante, le radici, l’erba, i fiumi, i mari, i laghi e così via, se la ridono, ghignano del fesso che schiatterà nel breve volgere di qualche decennio, mentre loro lì erano, lì sono e lì restano, anzi, i vecchi spazi se li ripiglieranno con gli interessi.

Varco il cancello ancor che fosse tardi: mi sento già sbalestrato: l’antistaminico mi provoca sonnolenza e l’abituale apatia diventa uno scimmione abbarbicato sulla schiena. Con i miei non fingo allegrie che non ho: se il peso della recita è troppo pesante, scelgo il silenzio, altrimenti mi do ai soliti astrusi discorsi. La strada è stata un fastidio come ogni volta che non la conosco: divento pericoloso quando l’asfalto, le buche, le curve, le svolte sono note; allora scatta la mania della p.s. e l’occhio va sfrenato dall’orologio al cristallo; ma stamattina non ho passato gli ottanta, nemmeno quando a mia mamma pareva corressi. L’ultima variante, la stradina che non mai capito se sia privata o pubblica, mi ha già avvisato che non sarà una giornata ordinaria nella mia iper-reattiva mente e balocca.

Io e Simo la percorremmo in alcuni pomeriggi afosi col Ciao bianco con le ruote blu; nel paesello mica c’era granché, come ora del resto, e il cugino era riuscito a rinvenire barlumi d’esistenza feminina pure lì. Lo sterrato si copriva di polvere dietro di noi, i soliti vecchietti berciavano alla velocità maleducata: preferivo la bici, o a piedi; io sono sempre stato la contraddizione vivente: adoro la velocità, ma amo la lentezza, a seconda di momenti che non so distinguere in me, così come sono un misantropo senza problemi nella folla, un misogino che ammira le donne, un sedentario che fa mille addominali e così via.

Non ricordo i nomi di quelle ragazze, manco i capelli, solo il luogo, ma adesso c’è il pavé in paese, nella piazzetta dedicata ad un pittore: in alto domina una chiesa, ci andai solo una volta, ma mi resta solo l’impressione di noia: non cambia molto in quel minuscolo groviglio di abitazioni; tutto intorno sì, ville e villule una sull’altra, presepe smargiasso di ricchi epuloni attorno alla capanna originaria, al nucleo antico. Vecchi, vecchi ovunque; i giovani sono giù, sul lungolago a rendersi bronzei fottendo la pelle e giocando a chi cava le mutandine a chi; o alla macchina più grossa, al rumore più lacerante, alle narici più bianche.

Si apre piano il cancello, l’erba tra i sassi dell’ormai disomogeneo viale rivela la mancanza di cura e di affetto, nonché il trionfo del tempo e della natura: mentre aspetto di poter passare e locchio il mio Silla già in beghe col cane degli zii, rifletto in un angolo della mente sulla stradina: vabbè che non l’ho mai percorsa col Ford, ma perché s’è ristretta? La si faceva a palla colla Jeep, coi Merca, coi Bienvù; sarà finita in lavatrice? Parto e lambisco la piscina; voglio entrare in retro nel parcheggio sotto la villa, così da non fare manovra quando ripartirò e già questo minaccia la sanità mentale dei parenti, non certo più della mia presenza lì.

Dodici anni sono passati dalla mia ultima visita: con la Pandina fourforfour verde, amica di alcune avventure; portavo la mammina dalle sorelle; scegliemmo la città e non il passo del Cavallo come questa mattina; una giornata che non mi lasciò ricordi: non è che non mi piaccia venire qui, è che non è un posto mio; è un legame forzato… lo è stato, direi; ora non più: è un posto che evoca fasi di transizione, e recite ancora senza consapevolezze: qui non mi hanno mai visto.

Scarico le borse, la mia in taverna: fredda, come in quella mattina del lampadario rotto col cuscino dal Luca e frantumatosi sulle mie gambe; mi portarono di corsa all’ospedale per i punti ma mi ero tolto da solo i vetri riflettendo sul biancore dell’osso; ci ho dormito spesso, pure con qualche zio, e Simone; è un appartamento a sé stante, una parentesi nel regno delle tante madri e dei loro occhi. L’odore è sempre uguale, miscuglio di pelle dei divani, legno dei mobili e cloro della piscina; in un angolo palloni, salvagente, giochi per l’acqua: sono stati tanti a passar di qui bambini, prima e dopo di me. Io ero il più tranquillo, vivevo già maggiormente dentro che fuori. Lascio sul divano le mie cose e vado di sopra.

Silla è già preso dal suo mondo colorato di nuovi odori e dalla pugnace intenzione di montare il meticcio degli zii: mi convinco che è solo una manovra per proclamarsi dominatore, la sua solita, tipica degli esseri minuscoli che fan pagare all’orbe la loro tappaggine con regimi autoritari e camere a gas. Gli scalini sono stretti, ho l’impressione di prendermi una craniata con un ramo dell’ulivo: Luca saliva sempre da questa parte, mane e pome, con o senza giochi: -c’è Andrea? Lo sentivo dalla cucina mentre manducavo la colazione. Pensavo ai Masters-Dominatori dell’Universo, alla pista a quattro corsie, e alle… passanti che mi avevano sorriso, o che io avevo deciso che m’avevano sorriso, insomma ai volti che già allora lasciavo transitare senza fermarli. Poi scendevamo verso la sua villula: il cotto tutt’attorno, il vasto poggiolo, scale anche lì, la taverna, la piscina. Facevamo il bagno in quella degli zii la mattina, da lui il pomeriggio, perché il sole ci batteva più tempo.

Entro in casa: la televisione è cambiata; non la guardavo quasi mai; d’estate non c’è mai un cacchio da seguire e allora ero più brillante, le immagini non mi colpivano, nemmeno i suoni, i jingle dell’ammasso di ferraglia, della scatola-spargi-merda-verbosa. Quasi tutto è ancora al suo posto: la zia mi dice qualcosa sui cambiamenti ma non l’ascolto, lascio che siano i miei occhi a ravvisarli; i divani sono più piccoli, di traverso non ci starei comodo. Esco sul poggiolo.

Si domina visivamente il lago, una buona porzione di tristezza; ero con altri zii e cugini, il pallone volava sempre lontano e io lo inseguivo con il mio stile rana-stracca, efficace in ogni frangente ma lento: non riuscivo mai a trovare un appoggio per i piedi e per rifiatare; il lago è così… irregolare, infido, e non ci galleggi come al mare. E tutte quelle volte nei paesi del turismo lacustre, dietro sottane menefreghiste, con un cono gelato e le palle che girano a palla; la puzza, le barchette: sfottevo sempre un commilitone riguardo il lago di casa sua, non questo, ma uno più piccolo, figuriamoci… : -ma l’è ‘na poccia! E quello berciava di una dignità lacustre… è che lo vedo pari al Mella come qualità, cioè merda acquosa. E poi è chiuso, è una trappola tra i monti che qualche ghiacciaio o che ne so io ci ha regalato; sì vabbè, il microclima, i limoni, e che c’entra che pure Catullo ne parla? Altri tempi, altre storie, altri orgasmi. Puzza e puzza, ciabattoni, smargiassoni, villone, tamarroni carrozzati: visitai il campeggio dove un mio cugino passava le estati e io, uso e aduso a quelli… marittimi, e militari eh, ebbi un coccolone: ma dai! È l’aria: non c’è la salsedine, solo puzza di stronzi navigati qui lungo i fiumi e quelli, quelli sì, li conosco bene, Cristo ci vivo sopra, li vedo e li sento i liquami, gli scarti delle fabbriche, le fogne, i rimasugli delle pulizie dei camion, i bidoni, lo sporco, fate voi.

Il solito barcone naviga pacioso, quasi senza scia, son mille anni che fa quel tragitto… altre barche a vela disegnano teorie e trapezi; sotto noi, in riva al lago, giocano sempre a golf: li vedo zampettare con le scarpette di vernice bicolore seguiti dai trabiccoli colle mazze, o dai macchinini… ci vorrebbe un mutuo per l’iscrizione al clubbe. Volgo i lumi a destra: il cugino mi dice che nel casale laggiù, ci han fatto un bed&breakfast. Ci andammo a piedi molte volte, attraverso i vigneti e il granoturco; c’era una fontana e un miliardo di grilli: facevamo delle grandi gare a chi pisciava più lontano; Luca coi litri di acqua che si gargarizzava giù nel truglio ogni giorno, vinceva sempre. Simone mi ci portò con la Supercinque e non aveva ancora la patente: incrociai talvolta dei laidi serpenti. Risalgo con lo sguardo: mi mancano piante, troppi prati, devono averle devastate: oh, eccola, la casa delle galline ora tramutata in villula, sassi a vista: un barbaglio, dev’essere la piccola piscina, dove, certo, ci faranno le orge, conosco il tipo. Almeno, io ce le farei, potendo, con il grano, i capelli, il saper fare, i denti dritti. Sorrido. Poi su in alto, dietro la villa sbircio altre parvule abitazioni che un tempo non riuscivo a locchiare: anche qui subodoro il disboscamento. Non ricordavo che tutto fosse così vicino, potrei tirare un sasso nei domini sottostanti, ma anche farne a meno. Esco, con la scusa di cercare Silla: ancora prova la monta contro natura. In fondo al prato c’era una pianta miracolosa per le prugne che creava, meravigliose, buonissime: lo sapevo, non c’è shock, lo sapevo, l’hanno tagliata per farci un gazebo con sotto il tavolo ove pranzare e cenare, ed un fuoco. Preferivo la pianta, ci stava per diritto divino: la natura si riprenderà il suo spazio, solleverà le mattonelle, eroderà i sostegni, lei ha tempo, tutto quello che serve; non è qui in affitto, per pochi attimi, non ha fretta.

Giocavamo a freesbee, io facevo il portiere e lo bloccavo invero facendomi pure un po’ male alle mani, o a calcio con le piante come porta: ma non ci sono più nemmeno quelle. È ora del bagnetto, non voglio che la fame mi faccia passare la voglia di sguazzare un po’ come un ranocchio: sono tre anni che non nuoto, che non galleggio spostandomi, direi. Metto il mio costumino e ciabatto in riva alla piscina; i cugini giovini e abituati, già natano e si tuffano e spruzzano. Non ho imparato qui, ad onta dei vari tentativi: fu all’isola d’Elba, l’amata isola, che mi convinsi che potevo non annegare pure senza sostegni; avevo tredici anni e, come adesso, se non lo decidevo io, non facevo un cacchio: mi dissi: -nuota, e nuotai. Poi la paura mi abbandonò e raneggiai pure con dei bei metri d’acqua sotto, perché cosa fatta, capo ha.

Scendo dalla scaletta: in questa piscina, dove è bassa, è bassa davvero: mi arriva al bigolo; avanzo verso la profondità, lo so, ora si va giù, il freddo alla pancia mi rimembra certe diarree… bisogna che mi convinca e principi a nuotare sennò vien notte.

Entravamo sempre a bomba: almeno dopo essermi scoperto ranocchio. Pallone, pistole ad acqua, retini, maschere, un guazzabuglio di oggetti sparsi nell’azzurro; alcune cugine già da bimbette saltavano giù dal trampolino; campeggiava l’enorme camera d’aria del camion, quella con cui salvai un parente dall’annegamento: -ehi, ma stai annegando? Poi lo trascinai nell’acqua bassa e lo issai fuori, sul bordo, ove fece la balena, sputacchiando cloro. Spesso i più adulti, come minchioni, mi avevano spaventato; non ho mai tollerato obblighi, io devo convincermi da solo, poi divento il migliore, ma solo se lo decido io. Mia mamma fu gettata in piscina da un grandissimo cretino: si sfiorò l’omicidio; lo raggelò con una secchiata d’acqua; scherzi del cazzo. Rivedo le cugine adolescenti stese sulle salviette a rendersi bronzee, le sento ridere: ora sono piene di figli, forse non ricordano quelle carole, o forse sì, ma non ci fanno caso. Sott’acqua può essere qualunque epoca, lì è lo stesso, potrei uscire oggi come dieci anni fa, o venti, ma c’è troppo fresco sulla testa, non sono ricresciuti i capelli, sono sempre io.

Ero seduto sul bordo, col retino raccoglievo cadaveri di insetti suicidatisi per troppa gloria: Luca varcò il cancello con una tizia al fianco; me la presentò, le strinsi la mano e dimenticai il nome, come sempre. Era lì coi genitori, soci in qualche affare col babbo del Luca; nel pomeriggio andai da lui per il bagno e la vidi inarcarsi per tentare il tuffo: acerbi seni disegnavano il due pezzi, i capelli castani si incollarono sulle spalle: io non ho mai saputo come tuffarmi, non avevo leggerezza, leggiadria, grazia; lei sì, e strinsi le labbra nel solito diniego. Poi la gita al Vittoriale, noi tre sul sedile posteriore, Luca in mezzo: perché mi guardi così? Perché mi fissi? Perché la tua mano cerca la mia? Perché non vai a fare in culo? Già allora non vivevo, grazie ai miei cortocircuiti: nel silenzio e nella mancata reazione soffocai la simpatia: s’era solo poco più che bambini, ma io non ho mai imparato.

Ora sul bordo, lo stesso, guardo il cancello, ma non c’è Luca, è a Pisa a divenir medico, di quell’altra mica ho saputo più niente. Sorrido, sorrido sempre, dentro di me, sorrido all’inevitabilità del fato.

Pranzo: di fuori, sotto il gazebo, la tele accesa mi pare un insulto, lo è; nel pomeriggio vinco a stento il sonno, è l’antistaminico, sommato al cibo. Le ore scorrono lente attraverso i fantasmi di due bambini che giocano con ceste di Masters, con castelli-valigia, con macchinine, poi col piccì, coi ciddì, coi primi sogni. Nel pomeriggio il bagno non lo faccio, il cloro mi da fastidio alle nari e alla testa. Vado in visita alla villula che fu la domus gallinarum; graziosa, un piccolo paradiso, la piscinetta a sbalzo. Ma sono stanco, la cena è veloce: questo non è, non è mai stato un posto mio, manca pure la nonna, ci sono molti errori, e il più grande è nella mia testa. Si riparte, sul lago la coda solita. Il passo del Cavallo. Casa. La stessa vecchia storia.

domenica 17 agosto 2008

Semafori

Alcune mattine contavo i semafori ma, invariabilmente, verso il trentesimo perdevo il conto. Così cercavo di ripetere il tragitto nella mente e li ricontavo e peggioravo la situazione, visto che dovevo sommare i passati a quelli che stavo abbandonando durante la conta. Finché un sabato mattina d’agosto col traffico reso nullo dalle altrui vacanze, potei prendermela comoda ed essere preciso: tra accesi e spenti facevano quarantatre, più sei rotonde. E mi dissi: cavoli! Sono veramente tanti, ma davvero li passo tutti, e tutte le mattine? La cosa mi puzzava alquanto: possibile che all’arrivo, che fosse dell’andata o del ritorno non fa differenza, non tornassero mai i conti? Riavvolgevo la bobina mnemonica e stanavo fratture; eppure il traffico sempre congestionato avrebbe dovuto favorire l’attenzione, non avrei dovuto saltare qualche semaforo: se lo trovavo spento si passava liberamente e la faccenda mi avrebbe dato una minima gioia, altrimenti se verde, e che diamine!, l’avrei visto e distinto dal rosso; lo sanno le mani e i piedi ancora prima degli occhi. Si avviano meccanismi solo all’appropinquarsi dei semafori: nella mia vita ne ho saltato solo uno inconsapevolmente, ed era rosso, ma di quelli che ti fanno chiedere a che cacchio servano lì, ed infatti era nuovo, nel senso che il giorno prima era imbracato. Nell’ignorarlo ho provato una fitta e ho sentito un ghigno e mi sono auto-insultato. È quindi impossibile transitare davanti ad un semaforo e non vederlo, quindi mi sarei dovuto ricordare di tutti e quarantatre ogni volta, visto che non è che ci sia poi molto da fare quando si percorre una strada e sempre la stessa per due volte al giorno, a parte stare in campana.

Questa idea di contare i semafori mi venne dopo l’ennesimo buco mentale: ricordo che ero in coda, nei pressi del castello, fissavo la targa di quello davanti a me e d’un tratto precipitai nel presente: mi chiesi: -ma come ci sono arrivato, io, qui? Guardai a destra verso una signora che impelleva nelle terga di chi la precedeva, poi nello specchietto ed un’altra si ripassava il rossetto; l’orologio sul cruscotto dimostrava che erano passati tre quarti d’ora dalla partenza da casa, un tempo onestamente ragionevole, nella media: ma in me potevano essere dieci minuti, come mille. Dove ero stato? Oh, certo, sulla strada, nel traffico, certo. Fisicamente non poteva che essere così. Sei così fottutamente preso dalla battaglia tra pneumatici e lamiere che il tempo viaggia con te ma non te ne accorgi, la strada ti rotola sotto, le case si susseguono, le insegne, i cartelli pure, i volti di chi sorpassi o ti sorpassa, le loro parole o berci trascorrono e si perdono. Sotto la cappa di un viaggio normale, tutto dall’istante finisce nel dimenticatoio e non lascia traccia di sé. È l’anormalità a rompere l’incanto, a sormontarlo e ad installarsi pomposa nel ricordo: i tamponamenti, pure il mio, subito in coda (ehi, non ti avevo visto! – In coda? Mah) una macchina a cavalcioni di una rotonda nuova, uno scooter a terra tra i suoi vetri, un’ambulanza che corre tra gli ululati d’avviso, una manovra azzardata (di là dallo spartitraffico per non scontrarlo, poi, repente, di qua, attraverso il pertugio, la leggera scodata e la macchina s’assesta a fianco del camion che non m’aveva fatto strada), una manifestazione di protesta, la pioggia, la neve, la grandine (il mio cristallo, seicento euri). Elementi che sfottono l’ordinario e si fanno notare e ricordare. Altrimenti la normale esistenza passa e basta. Ecco perché finivo per non ricordare come ero giunto nel parcheggio, o a casa, la sera: se tutto filava liscio, perdevo coerenza tra tempo e luogo. Mi fissai sui semafori, come tappe, pietre miliari, eppure non erano mai gli stessi, numericamente uguali; finché, senza traffico, potevo contarli con precisione.

Se non li osservi attentamente, gli istanti della vita, passano e, con loro, gli anni, senza che ci si ricordi di loro, senza che segnino tappe: solo l’imprevisto, la maglia rotta, il varco, possono darci modo di riafferrare le redini, di accorgersi che non si è più padroni del tempo. Oppure fissarli per bene, i mesi, gli anni, fissarli così da farli tradire se stessi e rivelare la loro sostanza: nulla.

venerdì 8 agosto 2008

Mediocrità

Sono un mediocre, e in questo sapersi mediocre senza alcuna reazione attiva verso una qualche direzione, risiede il colmo della mia assurda mediocrità. Intendiamoci: non c’è mica né da vergognarsi né da scandalizzarsi di una tale autocoscienza; in tutta onestà, è di gran lunga maggiore il numero dei mediocri che di quello degli ottimi in questo bischero mondo: e non è l’accettazione a fare la differenza, quanto l’ignoranza. I più non sanno di essere dei mediocri e si autodipingono come speciali, particolari, interessanti oltremodo, e altre amenità: l’inganno poi trionfa quando altri mediocri par loro, li trattano come vorrebbero essere trattati, cioè da ottimi, salvo che, gli uni e gli altri, quando sono da soli, si considerano reciprocamente insignificanti e persino pessimi. Ma nel consesso dei mediocri, nessuno lo è, o almeno, nessuno considera il compagno come tale: si strusciano le gobbe a vicenda stendendo grandi coperte di complimenti così da stornare via l’impressione di pigliarsi per i fondelli. È tipico pure dei deboli riunirsi in crocchi e tramutare la debolezza in forza e poi andarsene per i fatti propri col santo pensiero che, in fondo, gli altri sono veramente deboli, ma noi no, si fa un po’ di scena, così per solidarietà.

È che la parola mediocrità ha questo non so che di dispregiativo, come sempre ben distante dal latino, dalla mediocritas che, come si sa, è una delle caratteristiche della maggioranza dei viventi: come si potrebbe pensare una società di soli ottimi e massimi? Eh, no; per due forti, duecento deboli. I mediocri sono necessari, come la malta, come il fango, come la merda, da concime. I fiori, belli, luminosi, atti ad essere storicizzati, sono in numero minore: una società di ottimi non esisterebbe mai, altrimenti sarebbe di soli mediocri, ma anche questa non avrebbe senso. C’è sempre bisogno di una minoranza che si elevi, indichi la via, istruisca o semplicemente faccia bella mostra di sé. Questa è la natura: un essere forte, geneticamente, c’è sempre, ed ha il sopravvento sul resto degli inferiori, ai quali toccano le briciole e con dignità! Sotto la cappa della natura tutto ha dignità: carnefice e vittima, superiore e inferiore, forte e debole: così deve essere e c’è ben poco da inviperirsi davanti all’inevitabile necessità. Ecco il punto: la mediocrità è tanto naturale quanto necessaria, e lo è pure la superiorità così come l’inferiorità.

Gli animali lo sanno e pare che non importi più di tanto a loro: il forte ha il sopravvento, il debole soccombe; l’istinto va verso la preservazione delle razze, dando maggior spazio alla migliore genetica, ma ricordando che la beffa è altrettanto inevitabile e quindi sempre ci saranno i peggiori, anche se le matrici saran state ottimali. Tutto così naturale.

Ma: gli animali mettono in gioco appunto le loro caratteristiche genetiche, e i migliori lo sono sempre da questo punto di vista, così il mediocre ha ben poco da recriminare per il suo stare sotto, ai margini, o nella massa che guarda il capo; i requisiti per essere un animale superiore sono dati dalla natura e in questa democraticità che crea un circolo di accettazione, riconoscimento, trionfo, risiede il trucco che ha permesso a tante specie di sopravvivere nei secoli e nei secoli, amen.

Fino all’essere superiore: l’uomo.

Ecco il problema: quali sono i parametri su cui si basa la creatura di Dio per stabilire una normale scala di valore? E, ancor peggio, come reagiscono quelli che si trovano al di sotto di altri? Più semplicemente: come si stabiliscono i superiori, i mediocri, gli inferiori e, ammesso che si riconoscano come tali, poi come reagiscono l’un verso l’altro? Purtroppo la natura c’entra poco. O nulla.

Non è la genetica a far di uno un essere superiore alla media, ovvero su di uno scalino sopra la mediocrità: altri i parametri che usa il nobile consesso umano, la comunità degli aventi diritti, i figli prediletti di Geova, i supposti padroni dell’orbe: non la forza fisica, non la salute, non le doti naturali, non i talenti mentali, non le capacità di studio, di lavoro, di apprendimento. Alcuni di questi fattori concorrono a creare, un giorno, il superiore, ma colui che la massa dei mediocri effettivi e pure degli inferiori, ritiene tale, lo è in funzione di un concetto orripilante: l’ostentazione di un successo, effimero o duraturo già poco se ne cale, nel presente, meglio se nell’immediato, hic et nunc, e più smargiasso è meglio è.

Il superiore oggigiorno è il vincitore, l’eroe, ma il dramma non è questo; infatti pure nell’antichità, e pure nel discorso naturale il migliore sopravanza il resto della marmaglia: la questione è il campo di battaglia, il contesto, i mezzi, le strategie, le cause che fanno di qualcuno un degno portatore d’alloro.

Ciascuno di noi sa chi pensa possa essere un superiore: applichiamo il concetto-piramide alla nostra quotidianità e ne traiamo una casistica che potrà pure essere strettamente personale, ma corrisponderà o, alla meglio, potrà essere adattata a quella di tanti altri. Senza menare il torrone oltremodo, va riconosciuto che esistono eroi sociali, comuni, epocali, quindi esseri supposti superiori appunto sociali, comuni ed epocali. Ogni età li forgia a sua immagine e somiglianza, quindi il superiore può benissimo essere pure l’emblema con cui identificare senza fallo un periodo storico.

Esiste, quindi, il tipo-essere superiore: la mediocrità invece è generalmente sempre il resto, fatta eccezione per l’inferiorità. Chiarisco pure che non v’è in ciò alcunché di morale-amorale: ripeto, dovrebbe essere naturale, non c’è in ballo la dignità personale, ma solo l’inevitabilità di tutto questo. Eppure proprio l’avvento della morale ha rovinato un fatto semplicemente costituzionale, convincendo i più che non è dignitoso, anzi è umiliante, sentirsi, essere inferiori ad altri. Poteva essere comunque un buon viatico: ciascuno deve pensare ad un modo per valorizzarsi accettando le proprie qualità come le magagne, i difetti e le deficienze. Le mancanze costituzionali avrebbero potuto essere la molla, una volta accettate come naturali e vissute serenamente, confrontate con le qualità altrui, che spinge verso le direzioni migliori.

Se ciascuno fosse stato abituato a prendere coscienza di sé ad ampio spettro, con seria e serena sincerità, tutti noi avremmo un orticello in cui sentirsi modestamente contenti e persino soddisfatti: questa è l’aurea mediocritas. Ma abbiamo avuto una forte influenza che proprio non poteva insegnarci l’orgoglio dell’inferiorità: per nascere, sedimentare e poi sopravvivere, questa ha creato un esercito di esseri che odiano la natura e la selezione naturale; persone che non devono accettare ma ambire, mai accontentarsi, piuttosto odiare, e, anche nella melma più abbietta, consolarsi pensando ad un futuro ribaltamento, ove gli ultimi saranno i primi e viceversa. Innestando la morale e l’arrivismo, tutto è andato in frantumi: la bellezza della vita non è più stata nel nascere, vivere e morire, sulla base di qualità-difetti naturali, ma nel vincere, nell’avere successo, se non ora, almeno dopo, nel vivere funestati dalla morale e nel morire sempre più in là, meglio se mai, confidando in una congerie di strumenti artificiali.

Il problema pratico sta nell’odio di chi nell’intimo si sa inferiore ma aspira alla superiorità: con quali mezzi, naturali o meno, uno sia diventato un ottimo, non importa più; se c’è arrivato lui ci devono arrivare tutti. Ecco dove casca l’asino: la grandezza deve essere per tutti, la bellezza, la sapienza, tutte le migliori qualità devono essere patrimonio comune, negando la semplice conseguenza che ciò che è posseduto da molti, non è proprio più straordinario, ma ordinario, quindi dozzinale, quindi mediocre. E se questa condivisione non si verifica lo si attribuisce ad una oltremondana ingiustizia, contro la quale reagire con violento rifiuto dell’ordine naturale e di quello soprannaturale, a seconda delle proprie tendenze filosofiche.

La lampante mediocrità, invece di essere accettata, o viene negata, o ficcata nel subconscio originando simpatici complessi, o violentata con patetici tentativi di superarla battendola: comunque con un occhio, oscurato dall’invidia, che punta verso il superiore.

Non si può proprio accettare di stare su gradini inferiori, bisogna sbavare guardando in tralice gli altri, non più fortunati, ma diversi, e nella diversità c’è anche l’essere migliore, e, per giunta, pure peggiore!

Cosa vado cianciando? Oh, semplice: sono un mediocre e accetto la mia mediocrità; ma la sorte mi ha dato fottuti occhi mentali per locchiare più su della superiorità, e più giù dell’inferiorità, per vedere la frattura in tutte le cose e l’inutilità fondamentale di essere e superiore e mediocre e inferiore. La natura colloca così, ma poi si creano cortocircuiti nella ragione e sorgono abiezioni ripugnanti esplicabili solo come errori: nel mio profondo c’è un errore fondamentale, una mancanza.

Alla personale mediocrità uno reagisce un po’ come vuole: non l’accetta e reagisce bendato per sbattere addosso a muri inevitabili; l’accetta e si conforma, ma la nega, altrimenti offeso; l’accetta, si conforma e l’ammette, ma io non li conosco questi tizi; l’accetta, rassegnato, si conforma e lascia ogni tavolo su cui si gioca la vita, e tale sono io. L’insoddisfazione di fondo sta nel deprecare la natura che mi fa atto a scardinare la menzogna ma inetto ad andare avanti, per cui in barlumi di lucidità, si preferirebbe la bella incoscienza, l’inconsapevolezza del saper destreggiarsi nel mondo; la rinuncia a tutto sta nell’annichilimento all’origine e alla fine, totale o al destrutturalismo; l’assenza di speranza non è disperazione, ma placida permanenza in una regione senza tempo, priva della malinconia per il passato, dell’attivismo del presente e della progettualità del futuro. Con una base naturale-fisica mediocre, un cervello non mediocre avrebbe potuto far poco, ma soprattutto avrebbe necessitato di una forza-speranza che invece non gli è mai appartenuta, così s’è permesso di squarciare il velo di Maja dimostrandosi abile, ma inabile a ricoprire il tutto e vivere. Il cane si morde la coda, il volto si fissa allo specchio, il sacco si chiude: non si può essere dei, non si può avere tutto, allora perché sacrificare la distorsione di non credere, per aggrapparsi al primo treno e dimenticare, o fingere di dimenticare, che si è morti ancorché deambulanti.