venerdì 29 giugno 2007

Ciao Nick, ovunque tu sia...

Ma prima che il sipario si chiuda e che l’orchestra suoni le ultime note bisogna parlare d’altro, ché in tutti i frutti c’è sempre la parte più buona, anche in quelli non poi così graditi; già ho avuto modo di raccontare la serata coi gentilissimi opossum, non restava che incontrare gli altri animali caratteristici del continente, non certo tutti e tanti eh, ma degli esemplari che potessero darmi almeno un’idea della diversità e della peculiarità della fauna locale. Mi impauriva l’idea di uno zoo, già fui coraggioso al andare all’acquario… coi gabbioni e i drogati animali depressi… ma il Nick mi rese, giorni or sono, certo dell’esistenza di questo santuario, ove si pigliano cura delle bestiole ferite, o ammalate, dove alcune le allevano in cattività per vedere che effetto fa, mah!, ed altre vivono selvatiche cioè normalmente, nell’enorme parco tutt’attorno. Quindi una specie di zoo, ma almeno coi crismi di piccolo ospedale, di centro studi, di ancora di salvataggio di esemplari in via di estinzione. Belle cose che ti fanno dimenticare per un po’ che a tenerli schiavi e a ferirli è poi l’animale supremo, l’opera principe di Geova, che ogni tanto si pente e tenta cure palliative, ma più spesso continua nel suo sterminio della natura e di animali che esistendo da molto prima di lui, dovrebbero avere ben più diritti, ben più rispetto. Comunque non potevo che andarci armato della mia macchina fotografica ed anche emozionato, religiosamente emozionato… perché so da sempre che l’unico momento in cui incontro la purezza è quando osservo negli occhi una bestiola, di che razza poi sia poco importa, e poi la nostalgia della dittatura del mio Silla la fa da padrona nel mio cuoricino. Quindi di mattina presto, io e Nick ci incamminiamo verso il posto dove dobbiamo prendere a noleggio una macchina…

Il solo pensiero di noleggiare una macchina, in Ausonia, mi avrebbe terrorizzato e per la cifra da sborsare e per l’altissima probabilità di avere anche un banale incidente e, infine, per i furti. Qui nessuno è santo, ma le strade sono veramente larghe e la densità di automobili non è manco da paragonare con la devastante Val Trompia. Nick, poi, è un buon pilota e ha guidato ambulanze, non corre, è attento e soprattutto ha già provato l’ebbrezza di stare al volante a destra, tenendo sempre la manca. Cosa per me inconcepibile; infatti appena salito sul pugno nell’occhio, cromaticamente parlando, che c’han dato, dalla parte dove in Ausonia si pilota, non trovandoci i comandi, vengo preso da capogiro e mi concentro sulla radio. Va subito detto che il buon Nick s’è dimenticato di portare qualche ciddì e già sudo pensando che toccherà alle sue ex colleghe, nostre compagne nel viaggio, scegliere della musica da ascoltare: stenderò un velo pietoso sull’argomento, sapendo, dato che scrivo giorni dopo, che nella sera ci saremmo rifatti… come spiegherò avanti. Quindi cominciamo a caracollare per le vione della città diretti verso la casa d’una delle pulzelle, dove, e come non aspettarselo, s’ha da aspettare la loro vestizione e la loro colazione e meno male che pure noi si mangia qualcosa.

Poi è la volta dell’affannosa ricerca della via giusta in un intrico di asfalto, semafori e cartelli che non ti dicono mai alcunché di giusto al momento opportuno, ma sempre dopo il tardi. Mi rifiuto di far da navigatore, non solo perché son l’ultimo arrivato in questo mondo, ma anche facile al malessere se leggo su un mezzo che si muove, che non sia il treno. Ma i due davanti sono bravi e pochi errori non vanificano il nostro piano di giungere sulla tal strada che porta sulla talaltra che va tortuosamente dipanandosi nella campagna su e giù per colli tra vigneti e piante che ricordano tante belle regioni dell’italica terra, ma più grandi, s’intende… e mucche e cavalli, che non mi pare d’essere dall’altra parte del mondo. Le fanciulle vorrebbero anche visitare le aziende vinicole, forse nel pomeriggio… ed io rifletto sulla tendenza della donna ad affezionarsi al nettare di Bacco e non mi bisogna molto a vederci un chiaro riferimento sessuale e rimembro le baccanti e Orazio e Eracle e i tempi andati dell’università, quando si rideva ogni giorno sbavando fiele sul mondo intero, femminile, maschile, religioso o musicale che sia. Poi Filippo Collins alla radio mi riporta al tempo dei capelli lunghi, dei sogni e i vigneti mi ricordano il lago di Garda, le zie, Luca e penso che già allora io capivo poco. Così, avvolto dal passato come da un pastrano nero, cerco di essere simpatico sperperando la dose quotidiana di battute, per evitare la serietà d’argomenti; tra una volta e l’altra e dei rettilinei in salita ovvero in discesa, si arriva al tanto agognato santuario e, parcheggiato, zompiamo all’aria aperta che l’è già mezzodì.

Appreso che per lo spettacolino degli uccelli predatori siamo in ritardo ma che ce ne sarà un altro nel pomeriggio, ci incamminiamo laddove ogni persona, dopo un po’ di macchina, deve andare: al bagno. Pronti e vuoti, di pancia e di urina, partiamo per il tour; la macchina fotografica è bella calda e ributta la sua urgenza di catturare brandelli di realtà ed eternarla in un cristallizzato attimo digitale; non la tengo più e principio ad immortalare un emu che dietro il recinto, passeggia e mangiucchia; mi pare un tacchinone, e pronto catturo un bel riccio gigante, che non so come si chiami: placido ed indolente si aggira cercando qualcosa, poi s’addentra in un cespuglio e chi lo vede più.

La prima svolta a sinistra ci porta al cospetto dell’animale tanto decantato quando si parla di questa terra: il peluche vivente con zampacce artigliate, che anni addietro mostrò di non gradire le carezze del papa di allora, roba da non dirsi visto che si trattava del rappresentante di dio, eppure il koala non lo riconobbe come tale; i due che vedo io stanno a fare il loro sport preferito: dormire abbrancati all’albero, stanchi forse d’essere mostrati ad assurdi esseri bipedi con cappelli e digitali. Io non sono attratto da questo essere, con due occhietti da cattivello, non mi par essere gran allegrone, al contrario del sodale opossum. Quindi m’incammino verso i canguri e già vedendo i primi vengo preso dal sospetto che quelli in mostra non siano esemplari tanto in salute: due stravaccati al sole, uno da solo mi volge la schiena, vado avanti e ne piglio uno che beve, almeno un’attività… motoria. Poveracci, altro che balzellare qua e là e tirare pedate e pugni, questi sembrano al ricovero per anziani. E ogni impressione viene confermata dalla piccola clinica che ti lasciano visitare, con tanto di microscopi, lastre, lettucci e pazienti per lo più alati, in degenza.

Ritorno all’aria per mangiarmi una mezza banana e per credere che vada tutto bene e che al mondo non esistano le malattie e gli incidenti; e poi si annuncia una grande attrazione: vedere il famoso ornitorinco, che qui chiamano platypus. Ti aspetti chissà quali dimensioni ed invece, entrato nella stanza buia, aldilà del vetro, vedi sguazzare come un forsennato un fantastico frugoletto marrone che sembra a mille altri animali che non ricordi all’attimo. E mai che stia fermo, forse attratto dal movimento, nuota in circolo, sparisce, riappare e speri vedere sparire la barriera e vederlo giocare libero… orny o platy che tu sia, una virtuale carezza a te e una misera comprensione per questa tua esistenza poco… spaziosa; cerco di fotografarlo ma il vetro e la sua frenesia rendono la cosa una titanica faccenda, ma mi basta, ché già i cattivi pensieri mi funestano. All’aria aperta pensiamo bene di mangiarci almeno un biscotto gelato, ma è che il mio complesso di prigionia globale mi ha distratto e ripenso all’Acquario e spero sbagliarmi reputando migliore la vita libera anche a prezzo di una morta più facile e probabile; forse pensano che il mondo sia così, forse ogni tanto li lasciano liberi, forse… forse non lo sono nemmeno io tanto libero e quell’ornitorinco, a suo modo, si stava divertendo, ma il vetro…

Proseguiamo verso il temutissimo diavolo della Tasmania e mi rianimo ricordando il cartone animato e pensando che questo lo terranno a bada con fatica… ed infatti un cartello sconsiglia di toccare la barriere, ché v’è l’elettricità. E dagli coi pensieri del cavolo… dei lager… e dov’è questo demonio? Ah, là nella tana, che fa? Dorme… ma dormono tutti della grossa qui, ehi!, su, fai qualcosa, attacca una giga, aggredisci qualcuno, su… si sveglia, sbadiglia, si risistema ed io clic, clic, porca tr… , quando mai lo rivedrò un diavolo… dormi, dormi, và… .

Facciamo un sentierino giusto in tempo per vedere un altro di quei ricci giganti, gli echidna, ora so come si chiamano, ed alcuni pellicani, prima di arrivare alla domo di un altro vanto di qui. E che fa? Dorme, immaginarsi, e il guardiano sbofonchia qualcosa nella sua lingua ed io maledico l’orario e il giusto sonno. Ma attendiamo e mentre tutti sono voltati il principino, l’obesetto wombat esce poco agilmente dalla sua tana e lo catturo così, mentre va verso il fiero pasto adocchiando i rompipalle di turno. E viene a mangiare vicino al pubblico festante, l’orsacchiottone artigliato pure lui da non scherzarci, eppure i bimbi lo accarezzano e io capisco: l’hanno allevato in prigione, questo qui pensa che per la sua specie vada così la vita, bah, meno male che i cartelli stradali al mattino, dicendoci di stare attenti ai wombats, come ai canguri, m’avevano anche informato che per molti di loro la vera vita, la lotta e la morte per alcune conquiste… ci sono. Bello il wombat, comunque.

Ma al peggio non c’è fine ed i rettili che io adoro, dietro i vetri ti danno tutta la dimensione della potenzialità repressa, chiusa per darne una fottuta idea a noi; davanti a piccoli coccodrillini immobili, perplessi… davanti ad uno di loro che mi fissa come io fossi il vuoto e l’orrore, io con la mia merdosissima digitale che gli flescio gli occhi fatti per predare, davanti alla sua immobile superiorità che altro devo fare se non biascicare un’inutile –scusami… -? Ma una piccola vendetta la vedo compiersi allo spettacolino degli uccelli predatori: dopo le pantomime e gli ululati di piacere del pubblico radunato in un piccolo anfiteatro, dopo gli svolazzi e le simulazioni di attacco e volo in picchiata al contrario, dopo la dimostrazione di intelligenza dei pennuti, e chi ne aveva bisogno?, dopo tutto ciò, due non tornano indietro e si danno alla macchia: finalmente rido anche se so che li ripiglieranno e saranno lacrime dolenti per i tapini, ma intanto un saggio l’han dato, chi ha orecchie per intendere, intenda e l’ultimo chiuda la porta.

Dopo le mirabolanti imprese dei rapaci e la fuga dei due, tocca ad un panzuto dopolavorista che bercia qualcosa sui boomerang, fa piangere una bimba e sgambetta agile come il wombat sotto gli occhi dei pochi rimasti nel teatrino; io attendo e finalmente lancia l’arma dei progenitori… forse una volta riusciva a farlo tornare a sé e a ripigliarlo, forse quando aveva chili in meno e capelli, forse è bravo, chi lo sa, fatto sta che la fame incombe come un animale predatore e noi si esce dall’anfiteatro e si va verso l’uscita; per poco non ci dimentichiamo dei cani del deserto, dei dingoes, epperdiana!, andiamo a vedere ‘sti dingoes… cani, pastori col colore della volpe, ma cani cui forse il mio Silla bagnerebbe il naso, il mio MajinBù! Lui sì che dorme di rado… oddio, al diavolo non lo presterei mai come amico… . E i souvenir? Ebbé, come non fare una capatina nel negozio… ci trovo, giusto, giusto un cappellino alla pescatora buono per sostituire il mio ormai liso, e poi porta scritto Australia, così anche gli ottentotti capiranno dove sono stato in questi giorni.

Parliamo della vinery? Anche no, che palle, io da ex barista non amo il vino, c’è giusto da ricordare una bella ragazza coi capelli rossi, la pelle diafana con lievi efelidi e gli occhi verdi, figlia di Bacchino innamorato… ed una bella foto che riesco a fare, con l’orribile profilo della City lontana, oltre le colline coi vigneti, come uno spettro, una larva che forse meglio sarebbe se non esistesse. Run, run, run… cantavano i The Velvet Underground… e torniamo verso le nostre tane, con ancora della cacofonia nella radio e le fanciulle che ci abbandonano a rate. Così io e il Nick si può coronare la giornata con sbaffatta al merdonald, ove, famelico come un lupo triumplino (!), sbrano due famose schifezze tipiche del luogo ed ingoio le patatine, mia croce e delizia dai tempi andati, ancora da quando a Bolzano usavo andare ogni tanto in questi locali a mangiarle goloso e perennemente magro.

A tarda sera profittiamo della macchina pagata per un giro nelle vie più decantate del nostro quartiere e finalmente abbiamo con noi i ciddì, presi al volo a casa, così vaghiamo con l’immenso Corelli, come si dice dalle mie parti, a palla, con i finestrini giù, da veri tamarri, seminando Bellezza allo stato puro anche in questo postaccio, dimenticato dalla nostra reina quando tracciava le cartine con le sue ubicazioni. Alcuni autoctoni si voltano orripilati da ciò che non possono capire e mi chiedo cosa possa mai indicare a questi sciagurati, la parola –barocco-. Poi mi concentro sul violino e dimentico di essere in canguronia e le luci nella notte australe mi sembrano quelle dell’amata-odiata valle del mio natale, e sorrido al pensiero di quando correvo come un pazzo colla station, tornando dal vomitevole lavoro, Corelli alto nelle casse e radicato nel cuore, o Bach, o Telemann… e De André che dovrebbe pagare per i suoi delitti, con quella meravigliosa –Canzone dell’amore perduto- e l’incipit rapinato al grande Telemann… mi sento baroccamente decadente e quand’è così poco importa ove sia il corpo, la mente segue le note e brama altezze che non può raggiungere, bellezze che non può capire e non vuole tornar giù, ne vuole ancora come l’eroina per l’eroinomane, vuole il clavicembalo, il flauto, la tromba e una lacrima chiosa sul non sapere suonare alcun strumento. Poi il pezzo finisce… come tutte le cose, belle o brutte, finiscono; porterò a casa nel cuore il ricordo degli occhi del piccolo coccodrillo… li conserverò nelle ossa.

giovedì 28 giugno 2007

31/12/2005

Quindi anche in fondo alla Terra, o in cima, da questo punto di vista, arriva l’ultimo dell’anno. Ti aspetteresti un sacco di differenze, un modo diverso, meno pressante e stupido di celebrare la fine convenzionale di un numero. Magari, ti dici, qui, in un mondo un po’ più giovane e meno eroso dalla furia dei tempi (!), magari qui brindano sobriamente con un ameno sorriso, magari se ne sbattono allegramente e son più legati ad altre tradizioni di memoria aborigena… . Magari, appunto. Si esce, io e Nick, col nostro zaino di ultimi dell’anno beceri ed ausonicamente stanchi, col pensiero dominante che s’ha da passare anche questa notte; volti verso la piaggia, ben sapendo che non troveremo uomini con famosi impermeabili blu, e nemmeno Catone. Passiamo lontani dall’antico Luna Park, pensate che orgoglio!, sicché entriamo di sbieco nel bailamme sulla beach: e che vi deve dire un umile, e timido narratore? S’era ai primi gironi, quelli dove la puzza non è poi così molesta e non costringe a ripararsi dietro a coperchi di grandi avelli… molta gente, penso, ora, mentre scrivo, mi pare poca… , e molto giovane, con qualche sparuto anziano molle sul prato e qualche famigliola, bimbo e carrozzina. La maggioranza, iovani… e bottigliette vuote e corse sulla rena e urla e baci rapiti dù ore prima dell’opportuno e noi ci si siede un attimo. Guardo e trasecolo nella mia dolorosa ignoranza nel sapere datare le persone, se non si taglia loro il cranio, sì da contar gli anelli… : gli ometti tradiscono la loro ioventù e la loro fottuta urgenza d’essere omini, coi vestiti alla moda e la paina a tre quarti e mi par di essere in Val Trompia non fosse per la dominante lingua macellara; ma le fanciulle… improbabili donne nel belletto esagerato e non più bambine coi seni alla mercé degli sguardi e i fianchi tradenti birra e fumo. Ma Nick ha amici da qualche altra parte, sicché si cambia idea e si sale su di un tram: qui si scende nel lercio, con una prima chiazza di vomito saltata per caso, una seconda per consiglio ed una terza sullo scalino per scendere. Chi pulirà domattina? Penso, pratico; mentre tutti i nuovi arrivi storcono il naso come se fossero sempre vissuti nella candeggina, suvvia l’è l’ultem de l’an! Semel in anno licet… mai creduto, comunque leggo gli auguri di Franceschino dalla terra Ausonia e penso che lui passerà il suo ultimo, pieno di sbornia e fiche, anche se lassù nevicherà. E si stringeranno al caldo, per dio. Scendiamo e l’orror vacui si impossessa della città: ci si muove a stento, tra mille razze e mille puzze e mi dico che anch’io darò del mio; si và in avanti, verso nessun avanti però ed al primo posto creduto convenuto, non c’è nessuno dei conosciuti. E Nick messaggia e cerca ed io dietro, schiacciato dalla paura di restar sperduto nel pelago umano; si riparte e l’ostacolo è arduo e ci vuol impedire il nostro fatale andare: un concertino, una massa bipede che staziona innanzi ed un rivo interno nel quale ci dibattiamo per passare, tra i miei insulti nella lingua madre coverti dal berciare del presunto cantante e dei confermati ubriachi, ma siamo sotto il ponte e ci saliamo, sbagliando, ed era certo, il lato. –Abbiamo dieci minuti per andar di là- mi dice il Nick ed io maledico la sorte ria e vessatrice che in questo posto mi fa solo camminatore; ma è un po’ più semplice, se solo un faro non mi impedisse mezzo campo visivo… ricordo Apocalypse Now e sento i Doors… ma non è questa la fine, amico… siamo di là ed a meno tre dal gong troviamo i sodali di Nick, che carpisce attimo ed occasione per vivaci scambi opinionistici con virgo veneranda cangura. E poi bum! Venti minuti di fuochi d’artifizio e il capolavoro cinematografico mi torna tra le palle degli occhi, e m’aspetto conigliette… e bum! e bum! Colorati fantasiosi e chissà quanto costosi… e oooh d’ammirazione, io vedo la guerra coi suoi scoppi ed i suoi colori… traccianti nel buio mortifero e oooh per l’ennesima scia colorata tra il fumo e l’orribile puzzo suo e mi volto in cerca di Barbariccia e Farfarello e Behemot ed Azazello e Fagotto-Korovev… ma non ho la lestezza utile a coglierli in flagrante. Venti minuti smargiassoni e tronfi… poi si placa lo iubilo della folla e dei cuori e possono tornare a sgarganazzare alcolici. Finiti li fuochi tutto riprende a muoversi… e urlano eppiniuiear dovunque e a chiunque, seh, vedrete mai che nuovo anno… ancora crocchi pieni di birra e vino, abbracci di figli di qualcuno con prole di qualcun altro, dimentichi dei volti dei loro padri. Giovini baccanti, che non riuscirebbero a sradicare una pianta di fragole, mi passan davanti come sarabande pazze e gighe sgangherate… poi camminiamo verso qualcosa che non so, riesco ad ottenere al mercato nero dell’acqua e percepisco le risate… poi arriviamo giusto in tempo per vedere baldi frutti di questa terra delle possibilità, pisciare davanti ad un hotel… e Freud, aveva ragione, tutta la demenza si riduce alle dimensioni e all’esibizione del pene e questi qui sono ancora al piacere di emettere piscio… dove, dove siete Aglaia, Talia, Sofrosine… dove Judy, dove Ann, dove i dorati giovini dell’età dell’oro, dove gli eroi, dove Calipso, dove Pelia e Giasone, dov’è parcheggiata Argo, dove Caligola e Nerone, dove Cola di Rienzo e dove Capaneo, dove Vanni Fucci e papa Sandrino Borja… ???? Dov’è mediocrità e sfacelo, qui è casa mia. Non cambia niente in migliaia di chilometri, manco seppellissero queste città sotto la lava, spunterebbero le guglie dei macdonald e quelle delle church… . Per gionta ci si mette un caldo mai provato che durante il dì avea raggiunto i quarantatre gradi e che di notte ti fa parer d’essere in agosto ma a mezzogiorno a riminiriccionecattolica. Ed il vento… ma nella bufera infernale cangura nessuna Francesca e nessun Paolo vengono a raccontare del loro triste amore. È più non andiamo avante e torniamo a dormire. Qualcosa di giusto.

lunedì 25 giugno 2007

17:14 BS-Marcheno: pensieri sconnessi

Vorrei anche io saper parlare degli anni della scuola, un po’ come Venditti, rendendo chiaro che a tutti accadono le stesse cose e che quindi non c’è proprio nulla di straordinario; così nella vita di noi solitomini che ci crediamo di fare, dire, pensare qualcosa di unico, di vivere vite uniche, salvo poi che, quando ci confrontiamo con gli altri… le stesse cose, da dire: -ehi, sei già stato qui; oppure un deja vù, un bieco trucco della mente per proteggersi dal fatto che tutti vanno nello stesso verso. Guardavo le aule, oggi, passeggiando per l’università, e sentivo i battiti di nervosismo di un tempo, ma non era più il mio, era quello dell’occhialuto alla finestra con gli appunti in mano, proiezione reale del ricordo di me stesso; sentivo il chiacchiericcio delle fiche infilate in infradito colorate e camicette leggere sui seni balbettanti d’emozione: anche così, sei già stato qui, anni fa. Guardo il tempo che passa e il ripetersi delle illusioni: che sia questo che mi respinge dalla scuola, dalla terza fascia, la serie c? Vedere orde di ragazzi ripetere movimenti, parole, bestemmie, giochi, errori, pianti che pure io… vissi? Sentire il tempo strisciare fuori dalle aule, giù dalle scale e tintinnare alla campanella? In fondo, nella solitudine onanistica Crono è più lento: batte sulle lastre della camera, alla porta, nelle casse dello stereo; ma non c’è negli occhi di chi vive la presunta edificazione culturale: non c’è perché non ci sono io davanti a notarlo.

Chi non si è innamorato di quella del primo banco? Già; alle medie aveva i capelli biondi e le poppe già sode; all’università era corvina, diafana e leggevamo Parini, senza che fosse galeotto. Tutto come copione. Non mi sono mai soffermato a pensare: -e se… ; è una mossa cretina farlo, perché se avessi fatto diversamente… il finale sarebbe lo stesso di tant’altri miei coetanei che con me giocavano alle sgàe, scambiavano le figurine e sbirciavano i primi porno. Non c’è mai granché di nuovo, nella sostanza almeno: sfumature dello stesso arrabattarsi. C’è un tempo per una cosa, poi uno per un’altra, magari per il contrario: e tutto con lo stesso comun denominatore. L’illusione? Il liocorno? La medusa? L’idra? La chimera? Forse la vita. Poi nel decantare della capacità di credere… ognuno vede la giusta proporzione, la pallottolina, il pulviscolo… che ognuno di noi è di fronte al mondo, all’universo; che ho fatto poi di… non dico straordinario, ma almeno nuovo? Eh, niente. E come mai in tanti corrono verso la definizione di sé come facente parte di una categoria? Impiegato, insegnante, marito, moglie, ricco, stronzo? E prima ci arrivano, meglio stanno, o credono di stare. Sì, Gibran, sembra che la vita non sia altro che nascita, matrimonio e morte, e quelli che s’azzardano a parlare di qualcosa di diverso, ancora siano ghettizzati. Omogeneità di intenti, destini: ma non basta la natura a farci solitomini, tanti Sisifo con tanti massi da far rotolare su e poi giù? Occorre forzarla? Negli altri, destini che potrebbero essere miei. Forse no. Fondare la causa sul nulla, sull’unico, sul sé… e sapere di non essere altro che… un altro.

domenica 24 giugno 2007

A flower?

Parto da Montaigne, dallo scrivere che non provoca tormento ma nasce dal tormento. Ci credevo, nella procellosa adolescenza, quando pensavo che l’età dell’oro sarebbe arrivata e che un dì i fiumi di latte e miele sarebbero rullati giù sotto casa e le barbelline m’avrebbero atteso festanti davanti al portone di casa. E sui banchi del liceo lasciavo che il presunto tormento, generato persino artificialmente dietro la lieve sottana bionda, ché si studiava lo dolce stil novo e si guatava buscando la Beatrice da portare appresso l’aorta, lasciavo dunque che le passioncelle producessero materia siccome li bubboni tipici dell’etade e della nutella. Persino in Patavia scambiavo il tremolar della marina per spirito creatore… ma di maculato conciato appresi che, a lo ver dire, l’era tutta un questione di implosione interna, esclusivamente una faccenda personale. Il prodotto estrinsecato non corrispondeva mai al sentire, proprio perché mi gabbava l’idea di vergare il sentimento ignudo e crudo, ignorando che se non lo si fa salire su tutt’altra carrozza, lo si veste con abiti e maschere e gli si fa dire altro da sé ma che nasconda, in nuce, il sé vero e proprio, il sentimento va a farsi fottere. (pausa: Lemmy il grande bercia: march or die; e se fossi dipartito senza conoscere lui, o Leo, o Rino… ?) Tutto lo scritto è pura finzione: si maschera il sentito e si butta giù un’accozzaglia di fantasime che rechino un barlume di quel che si vuol comunicare. Italo avea ragione, la Medusa la locchi con lo scudo, di riflesso… altrimenti te tu diventi petra e l’è bella e finita l’impresa. Sicché se guardi il sentimento dritto nelle palle degli occhi, lo sbagli del tutto, ché si nasconde e perdi, dacché non lo stani più. Tana libera tutti. Così ci ho provato: pigliavo un casus belli, una scusa di indignazione, uno spunto dalla realtà becera e un altro dai grandi modelli, e imbastivo una vicenda che la dovea essere nient’altro che la scorza che cela la polpa, il pensiero, la convinzione, ‘a teoria buggiarona. Ho provato col teatro, col prosimetro… ma è solo sbrattando sulla carta la Strana Urbe che ho capito che da raccontare non avevo un cazzo di niente, e ben di più mi bisognava sfogare la pentola a pressione con estemporanee venute cerebrali. In effetti, o che storia mai si può raccontare? Senza voler minchionare il lettore con baggianate… ché ti basta spiluccare l’ultimo dei quotidiani per aver più materia di quanta ne abbia partorita Stefano Re e ‘o piccì suo. Ma, o dei dell’empireo, le vicende sono nella vita, o perché mai qualcuno deve inventarsele e qualcun altro deve leggerle? Per l’economia, le tasche, i dindi tintinnanti? Ah, sì, Mammona. Quindi io non ho un bel niente da scrivere, eppure nel cervello sento un fru fru tra le fratte, e sbuca fuori la berciata, da cristallizzare lì sul foglio, o sullo schermo, ché non se ne può più fare a meno, bastarda tecnologia. Sicché quando il mio DaviDino mi dice: devi scrivere qualcosa in cui pur’io compaia, ebbene io non lo so che vergare; e torno pischello sui banchi, quando l’era lo dì del tema: cominciai in terza liceo a fare così: pigliavo il titolo, lo leggevo due, tre volte e poi mi stiracchiavo le membra sulla sedia e pensavo, viaggiavo nelle segrete della mente alla ricerca di appigli. Me ne stavo così a riflettere una buona mezzora, poi, raunate idee buone e pessime, abbrancavo la penna e giù di un botto tutto il rimasto nello scolapasta. Poi rileggevo onde evitare macroscopiche fregnacce e via a copiare in bella. Un’altra rilettura anti-errori, e stop. Consegna. Un ora e mezza, persino troppo. Feci così anche all’università, mi toccò attendere la fine delle due ore per poter tornare dal buon Michele e sberciacchiare per l’urbe. Il professore, così come accadeva al liceo, mi guardò attonito: ma quando riesci ad imbastire tre, quattro idee (che di per sé son vecchie quanto Matusa) in un decente italiano, e piantala lì, chiosa dignitosamente e basta: altro che torte a strati di fregnacce, ingigantite di fuffa. Così rifletto: io e Davide. E potrei parlare del lavoro, delle ghignate, degli sci da montare o di quelle cazzo di racchette che vuol farmi imparare a raccordare, delle pizze, dei pasti dai suoi, o dei nostri finti rimproveri reciproci, delle sigherette che gli incatramano i polmoni e ammorbano l’aere, o dei videogiochi con sterminio di massa. E potrei dirne di cose… eppure caracollo dal particolare al generale: quante cose non riesco a dirgli nonostante le tante ore insieme; quante cose un individuo non riesce a dire ad un altro anche se passano otto e più ore nelle stesse stanze. Quanta incomunicabilità in ‘sto monno globalizzato, frenetico nel far sì che tutti sappiano tutto… quello che si può far sapere e che di solito non vale un cazzo. Sì, perché le cose, i pensieri dominanti… a quanti, e quando li si dicono?

A flower?

lunedì 18 giugno 2007

Riletture

Per la quarta volta finisco I promessi sposi e per la quarta volta don Abbondio, ben contento della morte di Rodrigo e filosofeggiante circa la bontà della peste (quanto realismo, buon Alessandro!), benedice i due non-protagonisti del romanzo. Già, perché finché non ebbi la fortuna di seguire il corso di Letteratura italiana 2 (che bontà divina sforava nell’ottocento), mica lo consideravo granché… quello che, depurato alquanto della mia malsana grettezza, poi ho amato come un capolavoro, tanto da entrare di diritto nell’unico progetto letterario che oramai sembra scamparla, in questo mio caracollare tremebondo verso i pascoli del cielo: le riletture. Fui fulminato (o furminato), ma non sulla via di Damasco, qualche estate fa, allorquando veleggiavo verso la fine dei Demoni del Dosto per la seconda volta: chiusi il volume e lo poggiai per terra; guardai il Mella rotolare a valle pietre e taniche, pensai: o che cazzo val più la pena di leggere? Quando ci si imbatte in siffatta grandezza… che resta? Cosa ci può essere ancora che non si può non conoscere pria di dipartire? Mi pascevo di ingenuità, dato che ancor mi mancava l’orgasmo mentale del Circolo Pickwick (Ori, ori, ori… ) e alcuni poemetti che Michele sa… ma la sensazione che ciascuno di noi abbia, o debba avere, un gruppo di testi da leggere, rileggere, ririleggere… , era ormai sedimentata in me. E di cose nuove da allora ne ho lette, ma sempre mi trovavo a desiderare ardentemente di tornare all’usata tavola, ove, con conti sodali, manducare il cibo del sapere e del non sapere, del bello, del vero e dell’ardente cuore menzognero. Amici di una vita, taverne e smargiassate cui aderire o rifiutare… il biglietto, rispedito al mittente. E la perniciosa trama! Qual nefasto desiderio il foiso voler sapere come la va a finire la faccenda! Quali prelibatezze sfuggono nella fretta di arrivare in fondo… in questo mi venne in aiuto Alì Oco, quando coi suoi capolavori, ben mi fece certo che la trama non conta un cazzo nella grandezza eterna dell’opera, ma forse solo in quella estemporanea. Per dire: che Stavroghin s’impicchi l’è ‘na cosa che colpisce nella prima lettura, ma poi, quando finalmente si draga il testo, ben più si carca la rete delle parole di Kirillov, o di Satov. Ed in effetti l’assassinio della Balducci tiene banco… ma quella gallina… i coltelli alla cintola, non restano forse lì, inchiodati alla memoria più che saper chi l’ha accoppata? O il giallone nella Cognizione, ben più eterno del matricidio vero o supposto. Allora: si legge per levarsi di torno la trama; si rilegge per gustar il capitolo; si rilegge per amore della frase; si ririlegge per follia della parola. Quando son nel letto e il corpo è sotto le coperte, piglio il testo e mi ritrovo a tavola con Ivan ed Alesa: già lo so che diranno, ma è il come che sbaracca la mente: cosa di nuovo può ragguagliare il Grande Inquisitore? Che resta più da dire, da leggere, dopo? Forse solo ridire, rileggere… per sperare di capire un po’di più, un po’ meglio.

lunedì 11 giugno 2007

15 minuti

Non mi è mai stata simpatica l’arte di Andy Warhol. Anzi, di arte sua non saprei nemmeno parlarne, uno perché sono ignorante, due perché sono empaticamente legato ad altri, veri artisti: tutto a causa di limitata formazione, sicuro come che un uovo è un uovo; se guardo le sue opere, non sento niente. Ma qualche tempo fa, questo tizio è entrato nelle mie simpatie a causa dell’album della banana, di quel capolavoro che lui ha prodotto, condizionato e reso distinguibile anche graficamente, con quel bel frutto giallo in copertina. E qui si presenta una riflessione: pare che l’Andy abbia imposto la sua pupilla Nico, tra i mugugni dei tossici Velvet. Vivaddio, lungimirante Warhol, che dire: la genialità altrui la sapeva ben distinguere! Che sarebbe mai l’album senza la bellissima, algida, gotica Nico? Che diamine di sapore avrebbe Femme Fatale e quel coretto da bimbi fatti… lei è una femmina fatale, alle spalle della dea diafana? Certo, tanta parte, forse tutta, del capolavoro va ai Velvet, a quell’immenso genio di Lou… ma anche qui, il Warhol ci ha visto bene, come bene ci vedrà Bowie. Quindi bravo Andy, una grande cosa l’hai fatta, e che dirti sennon grazie. Ma poi mi sovviene un suo pensiero, famoso come l’erba gatta: i quindici minuti, il quarto d’ora di fama che Warhol disse patrimonio della vita di tutti. In passato collegai questo concetto solo al contesto della fama; id est, mi chiedevo, ma intenderà che a ciascuno tocca un po’ di celebrità… che ne so, a scuola, nel comune di residenza, nella regione, nella nazione, nell’universo… ovvero nella sua balzana mente? Magari l’ha anche specificato e io non lo so perché non so un cazzo. E messo così il concetto mi pareva banalotto. Come dire: e vabbè, sarà vero, del resto che cambia? Invece m’è parso lecito ampliarlo, e da pensiero è diventato profezia, foriera di cupa tristezza. Non tutti hanno un quarto d’ora di celebrità nella vita, ma: tutti vogliono questi quindici minuti; li pretendono, li comprano, li strappano… ammazzano per averli. Quella che ho sempre visto come la benzina della violenza, la noia nefasta, ha trovato il fiammifero per accendersi ed esplodere: la matta bestialitade di chi cova la bramosia di essere conosciuto, ammirato, odiato, purché visto. Ohi, il Warhol tutto questa tirannia dei mezzi mediatici di oggi… mica la conosceva; la intuiva, forse. Ora tutti vogliono apparire, sbraitare un –ciao mamma! Non basta più; la fama… dai mille occhi sulle piume, così pomposa! tutti la desiderano a qualunque prezzo. Eh, Andy… dicevi che spettavano ad ogni omiciattolo i quindici minuti? Magari fosse una cosa solo così, automatica, naturale… ma questa volontà, questa violenza per apparire… l’avevi pensata? Penso di sì. E ci ghignavi, come, del resto ci ghigno io, fin a che non ne sono la vittima. matta bestialitade di chi cova la bramosia di essere conosciuto, ammirato, odiato, purché visto. 'e ciascuno ha un po'...bel f

domenica 10 giugno 2007

È che tu sei dei Gemelli.

È che tu sei dei Gemelli.

Quante volte, sin dal mio avvento sulla Terra, mi son sentito dire questa cosa: sei dei Gemelli. A crederci nei segni zodiacali. Ed è veramente indecente, crederci. A tirare righe tra puntini lontani, ovvero stelle vive, moriture, morte e ravvisarvi figure… non si fa gran reato; ma attribuire influenze, vederci previsioni di destini, di giornate e malattie… eppure l’ultima mia debolezza fisica m’ha riportato indietro nel tempo, allorquando bighellonando in una libreria, incocciai in un volume gigantesco che, già dalla copertina, smargiassava profezie. Curioso lo sbirciai e nella sezione dedicata ai miei Gemini vi trovai un lungo elenco di malattie tipiche, anzi certe, dei nati nei primi giorni di giugno: e v’era anche l’asma, sorella cara, e la debolezza delle orecchie e tant’altre, così per non sbagliare. Solamente che in questi caldi giorni mi scopro fottutamente vulnerabile nei padiglioni acustici, e rimembro quel librone e il giorno in cui, orgoglione, lessi che pure il divin Durante l’era nato, per sua stessa ammissione, sotto il segno di Castore e Polluce. Eccoli qui, i figli di Leda, i Dioscuri. Così alla mia collega fanatica d’astrologia, che in breve volgere di qualche minuto mi ghettizzò nel suo oblio mentale perché lei coi segni d’aria non va d’accordo, riferisco che il mio bracciale ferreo con due serpi abbracciate, altro non rappresenta che i due Gemelli di mitica etade. Ma non ci credo: quella di Dante l’era solo curiosità; così come che Angelina Jolie è nata nel mio stesso giorno: un caso, quali mai punti in comune posso avere io con il Sommo, o con la Bellezza incarnata? Nati sotto lo stesso cielo? Eh, eh… eppure… diverse facce, maschere… ebbene sì, attori consumati nella dozzinale vita. Fa parte anche questo delle caratteristiche; ed in aria io ci campo, con la testa persa dietro a discorsi senza costrutto, pieni senza sbocco. Ed un giorno la collega mi dice di punto in bianco: oggi con te non parlo che c’hai Venere nel segno. O che vuol dire? Venere callipigia nel segno? E dov’è? Lei e le sue naticuzze, che satireggerei volentieri, zampettandole dietro ammirato e sbaveggiante… mica la vedo Afrodituccia… . Oppure: ah, oggi ti entra Saturno: ma chi, Crono? Il mangia figli? Ma per Diana, lasciamo perdere… ci preferirei Giove, Zeus, nel segno… che magari mi mostra come trasformarmi… in toro e farmi cavalcare Europa, che l’era grangnocca, o in cigno… di nuovo Leda, di nuovo Castore e Polluce, i Gemelli. Sei dei Gemelli; ma non ci credo, ascendente Bilancia. (aaahh, hai due, quattro facce… lungi da me, vade retro; che gran cazzate!) Lasciamo il cielo alle stelle, agli alieni, ai giocherelloni in cerca di acqua coi miliardi dei contribuenti. Lasciamo il cielo ai divini.

Sei dei Gemelli. Ancora?