Ma prima che il sipario si chiuda e che l’orchestra suoni le ultime note bisogna parlare d’altro, ché in tutti i frutti c’è sempre la parte più buona, anche in quelli non poi così graditi; già ho avuto modo di raccontare la serata coi gentilissimi opossum, non restava che incontrare gli altri animali caratteristici del continente, non certo tutti e tanti eh, ma degli esemplari che potessero darmi almeno un’idea della diversità e della peculiarità della fauna locale. Mi impauriva l’idea di uno zoo, già fui coraggioso al andare all’acquario… coi gabbioni e i drogati animali depressi… ma il Nick mi rese, giorni or sono, certo dell’esistenza di questo santuario, ove si pigliano cura delle bestiole ferite, o ammalate, dove alcune le allevano in cattività per vedere che effetto fa, mah!, ed altre vivono selvatiche cioè normalmente, nell’enorme parco tutt’attorno. Quindi una specie di zoo, ma almeno coi crismi di piccolo ospedale, di centro studi, di ancora di salvataggio di esemplari in via di estinzione. Belle cose che ti fanno dimenticare per un po’ che a tenerli schiavi e a ferirli è poi l’animale supremo, l’opera principe di Geova, che ogni tanto si pente e tenta cure palliative, ma più spesso continua nel suo sterminio della natura e di animali che esistendo da molto prima di lui, dovrebbero avere ben più diritti, ben più rispetto. Comunque non potevo che andarci armato della mia macchina fotografica ed anche emozionato, religiosamente emozionato… perché so da sempre che l’unico momento in cui incontro la purezza è quando osservo negli occhi una bestiola, di che razza poi sia poco importa, e poi la nostalgia della dittatura del mio Silla la fa da padrona nel mio cuoricino. Quindi di mattina presto, io e Nick ci incamminiamo verso il posto dove dobbiamo prendere a noleggio una macchina…
Il solo pensiero di noleggiare una macchina, in Ausonia, mi avrebbe terrorizzato e per la cifra da sborsare e per l’altissima probabilità di avere anche un banale incidente e, infine, per i furti. Qui nessuno è santo, ma le strade sono veramente larghe e la densità di automobili non è manco da paragonare con la devastante Val Trompia. Nick, poi, è un buon pilota e ha guidato ambulanze, non corre, è attento e soprattutto ha già provato l’ebbrezza di stare al volante a destra, tenendo sempre la manca. Cosa per me inconcepibile; infatti appena salito sul pugno nell’occhio, cromaticamente parlando, che c’han dato, dalla parte dove in Ausonia si pilota, non trovandoci i comandi, vengo preso da capogiro e mi concentro sulla radio. Va subito detto che il buon Nick s’è dimenticato di portare qualche ciddì e già sudo pensando che toccherà alle sue ex colleghe, nostre compagne nel viaggio, scegliere della musica da ascoltare: stenderò un velo pietoso sull’argomento, sapendo, dato che scrivo giorni dopo, che nella sera ci saremmo rifatti… come spiegherò avanti. Quindi cominciamo a caracollare per le vione della città diretti verso la casa d’una delle pulzelle, dove, e come non aspettarselo, s’ha da aspettare la loro vestizione e la loro colazione e meno male che pure noi si mangia qualcosa.
Poi è la volta dell’affannosa ricerca della via giusta in un intrico di asfalto, semafori e cartelli che non ti dicono mai alcunché di giusto al momento opportuno, ma sempre dopo il tardi. Mi rifiuto di far da navigatore, non solo perché son l’ultimo arrivato in questo mondo, ma anche facile al malessere se leggo su un mezzo che si muove, che non sia il treno. Ma i due davanti sono bravi e pochi errori non vanificano il nostro piano di giungere sulla tal strada che porta sulla talaltra che va tortuosamente dipanandosi nella campagna su e giù per colli tra vigneti e piante che ricordano tante belle regioni dell’italica terra, ma più grandi, s’intende… e mucche e cavalli, che non mi pare d’essere dall’altra parte del mondo. Le fanciulle vorrebbero anche visitare le aziende vinicole, forse nel pomeriggio… ed io rifletto sulla tendenza della donna ad affezionarsi al nettare di Bacco e non mi bisogna molto a vederci un chiaro riferimento sessuale e rimembro le baccanti e Orazio e Eracle e i tempi andati dell’università, quando si rideva ogni giorno sbavando fiele sul mondo intero, femminile, maschile, religioso o musicale che sia. Poi Filippo Collins alla radio mi riporta al tempo dei capelli lunghi, dei sogni e i vigneti mi ricordano il lago di Garda, le zie, Luca e penso che già allora io capivo poco. Così, avvolto dal passato come da un pastrano nero, cerco di essere simpatico sperperando la dose quotidiana di battute, per evitare la serietà d’argomenti; tra una volta e l’altra e dei rettilinei in salita ovvero in discesa, si arriva al tanto agognato santuario e, parcheggiato, zompiamo all’aria aperta che l’è già mezzodì.
Appreso che per lo spettacolino degli uccelli predatori siamo in ritardo ma che ce ne sarà un altro nel pomeriggio, ci incamminiamo laddove ogni persona, dopo un po’ di macchina, deve andare: al bagno. Pronti e vuoti, di pancia e di urina, partiamo per il tour; la macchina fotografica è bella calda e ributta la sua urgenza di catturare brandelli di realtà ed eternarla in un cristallizzato attimo digitale; non la tengo più e principio ad immortalare un emu che dietro il recinto, passeggia e mangiucchia; mi pare un tacchinone, e pronto catturo un bel riccio gigante, che non so come si chiami: placido ed indolente si aggira cercando qualcosa, poi s’addentra in un cespuglio e chi lo vede più.
La prima svolta a sinistra ci porta al cospetto dell’animale tanto decantato quando si parla di questa terra: il peluche vivente con zampacce artigliate, che anni addietro mostrò di non gradire le carezze del papa di allora, roba da non dirsi visto che si trattava del rappresentante di dio, eppure il koala non lo riconobbe come tale; i due che vedo io stanno a fare il loro sport preferito: dormire abbrancati all’albero, stanchi forse d’essere mostrati ad assurdi esseri bipedi con cappelli e digitali. Io non sono attratto da questo essere, con due occhietti da cattivello, non mi par essere gran allegrone, al contrario del sodale opossum. Quindi m’incammino verso i canguri e già vedendo i primi vengo preso dal sospetto che quelli in mostra non siano esemplari tanto in salute: due stravaccati al sole, uno da solo mi volge la schiena, vado avanti e ne piglio uno che beve, almeno un’attività… motoria. Poveracci, altro che balzellare qua e là e tirare pedate e pugni, questi sembrano al ricovero per anziani. E ogni impressione viene confermata dalla piccola clinica che ti lasciano visitare, con tanto di microscopi, lastre, lettucci e pazienti per lo più alati, in degenza.
Ritorno all’aria per mangiarmi una mezza banana e per credere che vada tutto bene e che al mondo non esistano le malattie e gli incidenti; e poi si annuncia una grande attrazione: vedere il famoso ornitorinco, che qui chiamano platypus. Ti aspetti chissà quali dimensioni ed invece, entrato nella stanza buia, aldilà del vetro, vedi sguazzare come un forsennato un fantastico frugoletto marrone che sembra a mille altri animali che non ricordi all’attimo. E mai che stia fermo, forse attratto dal movimento, nuota in circolo, sparisce, riappare e speri vedere sparire la barriera e vederlo giocare libero… orny o platy che tu sia, una virtuale carezza a te e una misera comprensione per questa tua esistenza poco… spaziosa; cerco di fotografarlo ma il vetro e la sua frenesia rendono la cosa una titanica faccenda, ma mi basta, ché già i cattivi pensieri mi funestano. All’aria aperta pensiamo bene di mangiarci almeno un biscotto gelato, ma è che il mio complesso di prigionia globale mi ha distratto e ripenso all’Acquario e spero sbagliarmi reputando migliore la vita libera anche a prezzo di una morta più facile e probabile; forse pensano che il mondo sia così, forse ogni tanto li lasciano liberi, forse… forse non lo sono nemmeno io tanto libero e quell’ornitorinco, a suo modo, si stava divertendo, ma il vetro…
Proseguiamo verso il temutissimo diavolo della Tasmania e mi rianimo ricordando il cartone animato e pensando che questo lo terranno a bada con fatica… ed infatti un cartello sconsiglia di toccare la barriere, ché v’è l’elettricità. E dagli coi pensieri del cavolo… dei lager… e dov’è questo demonio? Ah, là nella tana, che fa? Dorme… ma dormono tutti della grossa qui, ehi!, su, fai qualcosa, attacca una giga, aggredisci qualcuno, su… si sveglia, sbadiglia, si risistema ed io clic, clic, porca tr… , quando mai lo rivedrò un diavolo… dormi, dormi, và… .
Facciamo un sentierino giusto in tempo per vedere un altro di quei ricci giganti, gli echidna, ora so come si chiamano, ed alcuni pellicani, prima di arrivare alla domo di un altro vanto di qui. E che fa? Dorme, immaginarsi, e il guardiano sbofonchia qualcosa nella sua lingua ed io maledico l’orario e il giusto sonno. Ma attendiamo e mentre tutti sono voltati il principino, l’obesetto wombat esce poco agilmente dalla sua tana e lo catturo così, mentre va verso il fiero pasto adocchiando i rompipalle di turno. E viene a mangiare vicino al pubblico festante, l’orsacchiottone artigliato pure lui da non scherzarci, eppure i bimbi lo accarezzano e io capisco: l’hanno allevato in prigione, questo qui pensa che per la sua specie vada così la vita, bah, meno male che i cartelli stradali al mattino, dicendoci di stare attenti ai wombats, come ai canguri, m’avevano anche informato che per molti di loro la vera vita, la lotta e la morte per alcune conquiste… ci sono. Bello il wombat, comunque.
Ma al peggio non c’è fine ed i rettili che io adoro, dietro i vetri ti danno tutta la dimensione della potenzialità repressa, chiusa per darne una fottuta idea a noi; davanti a piccoli coccodrillini immobili, perplessi… davanti ad uno di loro che mi fissa come io fossi il vuoto e l’orrore, io con la mia merdosissima digitale che gli flescio gli occhi fatti per predare, davanti alla sua immobile superiorità che altro devo fare se non biascicare un’inutile –scusami… -? Ma una piccola vendetta la vedo compiersi allo spettacolino degli uccelli predatori: dopo le pantomime e gli ululati di piacere del pubblico radunato in un piccolo anfiteatro, dopo gli svolazzi e le simulazioni di attacco e volo in picchiata al contrario, dopo la dimostrazione di intelligenza dei pennuti, e chi ne aveva bisogno?, dopo tutto ciò, due non tornano indietro e si danno alla macchia: finalmente rido anche se so che li ripiglieranno e saranno lacrime dolenti per i tapini, ma intanto un saggio l’han dato, chi ha orecchie per intendere, intenda e l’ultimo chiuda la porta.
Dopo le mirabolanti imprese dei rapaci e la fuga dei due, tocca ad un panzuto dopolavorista che bercia qualcosa sui boomerang, fa piangere una bimba e sgambetta agile come il wombat sotto gli occhi dei pochi rimasti nel teatrino; io attendo e finalmente lancia l’arma dei progenitori… forse una volta riusciva a farlo tornare a sé e a ripigliarlo, forse quando aveva chili in meno e capelli, forse è bravo, chi lo sa, fatto sta che la fame incombe come un animale predatore e noi si esce dall’anfiteatro e si va verso l’uscita; per poco non ci dimentichiamo dei cani del deserto, dei dingoes, epperdiana!, andiamo a vedere ‘sti dingoes… cani, pastori col colore della volpe, ma cani cui forse il mio Silla bagnerebbe il naso, il mio MajinBù! Lui sì che dorme di rado… oddio, al diavolo non lo presterei mai come amico… . E i souvenir? Ebbé, come non fare una capatina nel negozio… ci trovo, giusto, giusto un cappellino alla pescatora buono per sostituire il mio ormai liso, e poi porta scritto Australia, così anche gli ottentotti capiranno dove sono stato in questi giorni.
Parliamo della vinery? Anche no, che palle, io da ex barista non amo il vino, c’è giusto da ricordare una bella ragazza coi capelli rossi, la pelle diafana con lievi efelidi e gli occhi verdi, figlia di Bacchino innamorato… ed una bella foto che riesco a fare, con l’orribile profilo della City lontana, oltre le colline coi vigneti, come uno spettro, una larva che forse meglio sarebbe se non esistesse. Run, run, run… cantavano i The Velvet Underground… e torniamo verso le nostre tane, con ancora della cacofonia nella radio e le fanciulle che ci abbandonano a rate. Così io e il Nick si può coronare la giornata con sbaffatta al merdonald, ove, famelico come un lupo triumplino (!), sbrano due famose schifezze tipiche del luogo ed ingoio le patatine, mia croce e delizia dai tempi andati, ancora da quando a Bolzano usavo andare ogni tanto in questi locali a mangiarle goloso e perennemente magro.
A tarda sera profittiamo della macchina pagata per un giro nelle vie più decantate del nostro quartiere e finalmente abbiamo con noi i ciddì, presi al volo a casa, così vaghiamo con l’immenso Corelli, come si dice dalle mie parti, a palla, con i finestrini giù, da veri tamarri, seminando Bellezza allo stato puro anche in questo postaccio, dimenticato dalla nostra reina quando tracciava le cartine con le sue ubicazioni. Alcuni autoctoni si voltano orripilati da ciò che non possono capire e mi chiedo cosa possa mai indicare a questi sciagurati, la parola –barocco-. Poi mi concentro sul violino e dimentico di essere in canguronia e le luci nella notte australe mi sembrano quelle dell’amata-odiata valle del mio natale, e sorrido al pensiero di quando correvo come un pazzo colla station, tornando dal vomitevole lavoro, Corelli alto nelle casse e radicato nel cuore, o Bach, o Telemann… e De André che dovrebbe pagare per i suoi delitti, con quella meravigliosa –Canzone dell’amore perduto- e l’incipit rapinato al grande Telemann… mi sento baroccamente decadente e quand’è così poco importa ove sia il corpo, la mente segue le note e brama altezze che non può raggiungere, bellezze che non può capire e non vuole tornar giù, ne vuole ancora come l’eroina per l’eroinomane, vuole il clavicembalo, il flauto, la tromba e una lacrima chiosa sul non sapere suonare alcun strumento. Poi il pezzo finisce… come tutte le cose, belle o brutte, finiscono; porterò a casa nel cuore il ricordo degli occhi del piccolo coccodrillo… li conserverò nelle ossa.