sabato 14 novembre 2009

Abbandono 2

Fermo come una pietra miliare sul ciglio della Statale, A guardava il monotono traffico del sabato pomeriggio: argonauti verso il Vello d’oro accudito gelosamente nei Centri Commerciali, mamme a pigliare i loro pupi dopo la catechesi, dopolavoranti sulla rotta del campo a sei per scaricare l’energia repressa nella settimana correndo e tirando ai garretti contendendosi la pelota, semplici perditempo come lui, bimbe in troppo belletto e poca sottana, stranieri dietro ad invisibili fili di misteriosi doveri.
Lontana la ruota della vita cigolava nel suo eterno moto. Eppure lui, immoto, pareva evaporato dal presente e sbalestrato in un qualche passato, o futuro, chissà.
Si scosse solo perché Apollo aveva mutato opinione e riscaldava un po’ più in là e si spostò pure lui; dall’altro lato della strada la Cooperativa gli parve un cadavere abbandonato perché nessuno sa che farsene: anni addietro era un attivo mini-market e pure A c’era entrato spesso, per sé per esigenze altrui. Ricordò la cassiera, florida bionda poi smagrita e involata in un altro paese dietro alle fiaccole nuziali. Il profumo del persciutto cotto gli sembrò svolazzare sotto le nari come un tempo fa: pia illusione, come quando ci si fa certi d’aver sentito voci o sussurri nel buio della notte ed è invece la disperata solitudine.
La serranda della Coop non tradiva dubbi nella sua fatiscenza, nella ruggine decorata con polvere nera; un vetusto dagherrotipo si frappose tra la realtà e il ricordo: i binari del tram che scendeva da T verso l’urbe, tutto in bianconero e A si ritrovò a formulare una domanda a se stesso: perché mai s’era rinunciato al tram? Non sarebbe stato ancora comodo sferragliare verso i calli cittadini senza i rompimenti di palle del traffico?
Un trullo dal suo cellulare: un sms, un suo sms, un altro? No, un volgare scherzo della tecnologia: era una copia fluttuante nell’etere di quello ricevuto in mattinata, quello definitivo, lapidario: -è finita! Con punto esclamativo per innalzare la voce in grido, bercio. Faceva seguito ad una telefonata della sera precedente, in cui lui s’era impegnato nella parte dell’innamorato ferito e aveva inscenato sgrondamenti di sangue dal cuore e di lagrime dagli occhi pesti di dolore. Ma lo sapeva bene che era finita. E non quel giorno ma sei mesi prima, quando lei era salita sull’aereo per Albione colla scusa dell’Orgasmus.
Due giorni prima, passeggiando per il paese senza meta veruna, s’era imbattuto nel P: i soliti ameni saluti e commenti sulle vicende calcistiche e poi il saggio carpentiere gli disse: -oh, ieri ho visto la tua R, giù in posta; sempre quei fianchi eh, da stantuffo, eh, beato te. Ma non l’era partita? E ad A era pure toccato di inventarsi delle fanfaluche così a braccio per non far capire che scendeva dalle nuvole come un perone marcio. Quindi era tornata e lui non ne sapeva un cacchio. Tornato a casa la faccenda non gli parve più così maleducata, anzi prevedibile, naturale, dovuta. E appollaiato in poltrona sapeva che così le cose vanno.
Poi lei era andata a casa sua: l’aveva vista dalla finestra in soggiorno; solita macchina rossa con le fiancate decorate da graffiti teppistici e gomme lisce come l’olio. Era scesa in un effluvio di rossi capelli e shampoo, in gonna corta e calze colorate, viola-nero, e tacchi. Borsetta sempre appesa alla spalla e ciondolante, manco aveva suonato alla porta: era entrata e basta.
Infatti nella sua vita era entrata e basta.
Donne come R non bussano mai, non chiedono il permesso: pigliano. E poi, quando mutano idea, se ne vanno lasciando dietro si loro code di panico e cuori spezzati.
Vedendola per la prima volta, in un negozio di articoli sportivi, A le aveva osservato le caviglie: erano tipiche di fanciulle che camminano, che non stanno ferme e ricordò il grande americano quando scrisse dei fianchi che salgono su per le scale degli aerei. Al bar vicino al negozio l’aveva conosciuta, dato che gli pareva gran peccato lasciar fuggire via quella cascata di capelli rossi; e s’erano frequentati. Lei faceva l’università e vantava dieci anni di meno di A; lui le offrì la sua conoscenza artistica e, finché questa le bastò, andarono d’accordo, ma non d’amore, eh. Quello, l’amore, lei lo faceva più per dovere che per trasporto emotivo o piacere: anche in ciò che sarebbe dovuto essere naturale si tradiva l’artificiale o artificioso. Giocava alla ragazza del libero pensatore. Ma quando s’accorse che più che libero era nullo cominciò a sbattere le ali per il suo inevitabile volo.
A le disse spesso, soprattutto osservandole i boccoli sbarazzini sulle spalle, che lei sarebbe partita e che era innaturale il suo restare radicata al paesello: qualcuno sarebbe sempre rimasto ancorato alle proprie radici e qualcun altro doveva invece rispondere al vecchio dovere di visitare il mondo e le genti. Lei sorrideva onesta.
Quando si presentò l’occasione dell’Orgasmus a sorridere fu lui: -vai.
R tremava dall’emozione perché avrebbe potuto finalmente levarsi dalle pastoie della famiglia, dai pesi: -vieni anche tu, vivremo insieme. Qui lui allargò le braccia e le mimò un volo impossibile. Ciò che seccò abbastanza A fu il vuoto chiedere di aspettarla, di non tradirla, di darle fiducia: lei avrebbe mantenuto fede alla loro storia. Quanto di tutto questo c’è di naturale? Nemmeno R credeva in quelle frasi belle e finte, nelle rose senza vita proprio perché durino in eterno.
Fu un errore scuotere la testa? Non fu disprezzo, ma obbedienza alle leggi di natura.
L’accompagnò all’aeroporto perché così s’addiceva ad un moroso; l’abbracciò prima che lei passasse il controllo del passaporto e poi se ne andò senza aspettare il decollo.
Poi il vuoto; nessuna telefonata, nessuna mail: così le aveva chiesto, timbrando di fatto la fine della storia.
Sulla strada era scesa l’ombra della sera, poiché il biondo Apollo s’era imboscato dietro i monti; A cancellò pure il doppio sms. Aveva finto una offesa di rito, la sera prima, chiamandola: gli sembrava giusto non accontentarsi dell’addio che lei gli aveva detto venendo a casa sua, tutta trionfante, nella sua bellezza di rubino. -non mi hai mai cercata? è finita, e la colpa è tua!
A la guardava dal basso verso l’alto, visto che manco s’era alzato dal divano: il seno sembrava cresciuto e le labbra più carnose: era bella e conturbante come un bacchico carnevale; l’avrebbe morsa volentieri e, lì per lì, la desiderava. Ma più potè la freddezza che il digiuno. –vabbene, è finita, come ti avevo detto. Lei era rimasta un secondo più del previsto ad osservarlo, così ebete, inetto. Poi era uscita sibilando: -sfigato. E aveva sbattuto la porta. Classico.
Poi A l’aveva chiamata per giocare all’amato deluso e al cuore infranto, ma più per noia che per sentito dovere. Manco aveva avuto la giusta intonazione: le parlava di dolore e vedeva i fianchi stantuffanti con altrui anche. E quando si trovò a sorridere chiuse la comunicazione.
Poi, alla mattina, l’sms; replicato nel pomeriggio, per celia.
A si avviò verso casa, dove nulla lo aspettava e dove lui non s’aspettava più nulla.

giovedì 12 novembre 2009

Abbandono

L'aveva guardata bene fissa negli occhi cerulei, cercando mentalmente nell'archivio letterario qualche bella frase romantica, o post-romantica. Afferrarle le mani pareva esagerato: chiunque avrebbe così stanato l'affettazione. I secondi passavano come sempre inconsapevoli del rimuginio del suo cervello; poi in un'altra stanza il trillo giocondo di un cellulare e lei si era alzata rompendo di fatto nessuna comunicazione: e lui l'aveva osservata ancheggiare in poca stoffa e a piedi nudi verso la cucina. Vista da dietro faceva sempre una figura migliore che da davanti, con quell'ingeneroso seno e gli occhi sempre troppo spalancati in doppia ellisse, o triplo “o”, mettendoci pure la bocca solitamente pronta a pigliare mosche.
Tutti questi benigni pensieri gli sfarfallavano veloci nella testa come estemporanei sottotitoli, ove il titolo l'era bello fissato: lasciata bionda mozzafiato (analmente parlando et cum gratia).
Quindi giustificazioni a strati di torta perché scelte perentorie, da vero uomo, mica ne sapeva mai prendere: e continuava a guardarsi attorno mentre lei parlava al cellulare, di là, in cucina. E cercava consensi, lui, dai soprammobili o dai poster appesi alle pareti: cantanti di dubbia fama e lattine di cocacola in improbabili collage post-moderni. Finché s'era fissato col guardo su una saggia mosca; savia perché planata bel lungi dalle sue mani assassine; gli parve muovere sua costa e proferire verbo: -ma tu, sfigato, una così, e quanno mai te tu la ritrovi? Vero. E quando l'aveva trovata?
A quel tempo non guardava più nessuna: vinto dalla sua umana, troppo umana, inettitudine, aveva deciso di non osservare più niente che non potesse poi avere (sennon pagando); cosa o persona faceva lo stesso. Così coi gomiti ben piantati sul tavolo di quella birreria, ciarlava coi sodali di macchine, moto e siccome d'aria fritta e non si curava del contorno, né di altri clienti, né di cameriere, del resto ben memore di Huysmann.
Sapeva essercene una nuova, straniera di Slavonia, con notevoli terga e crin biondo, ma all'epoca era come ripiombato nella fase orale, ove bramava poppate da gigantesche mammelle. E comunque, anche senza guardarla né sapere niente di lei, l'era certo, come che l'ovo l'è ovo, di non esserci nulla in comune né possibilità alcuna di intavolare benché minimo discorso colla callipigia. Quindi ciarlava senza costrutto.
Da qualche anno non seguiva più nemmeno il filo dei suoi discorsi, né seri, né faceti; né coi sodali, né con parenti o conoscenti: lasciava che l'estro e la contingenza mentale costruissero idee e opinioni a cui far seguire persino giustificazioni e accorate conclusioni. Senza però mai crederci: chiusa la ciarla ritornava nella sua gabbia mentale ove trastullarsi con sparuti poeti, solinghi romanzieri ed ebefreniche nereidi sul video del PC.
La realtà? La sua realtà era il continuo produrre e distruggere bolle di sapone in una stanza quadrata con una sola finestrella munita di quattro barre e una porta mal chiusa; costruita con mattoni educativi e rabberciata d'edificanti elucubrazioni, come seghe mentali. E il mondo fuori continuava il suo giro.
Se qualcuno gli avesse chiesto: -ma tu? Avrebbe replicato: -perché io? Versava frottole in un vaso buco, almeno sotto richiesta; altrimenti se ne stava lì fermo con la Comedia nella ritta. Spinto dai suoi due tre imparruccamenti di psicanalisi s'era convinto a rinovellare dell'energia volitiva, focalizzandola verso un obiettivo concreto ed arrivabile: le due-ruote. Simile alla femmina, almeno nella sua gioconda immaginazione, la moto gli avrebbe dato euforia ed ebrezza, panico e bellezza; tempo di far guide ed esame e la mente s'era ingoiata l'illusione sputando fuori brandelli di disincanto. Altro che gabbiano e pesci: in lui s'era verificato un cortocircuito e, in breve, la volontà di riuscire era finita sotto lo zerbino, fuori dalla stanza ove solingo conduceva inutili voli pindarici.
Un amico gli fece notare la gonna alquanto corta della bionda cameriera: lui si voltò e in realtà, rimase colpito dal roseo incarnato delle mani e se ne volò verso terre slave, in città nevvero mai visti, in case edificate all'istante dalla sua immaginazione: e vide le stesse dita attorno al crine di una bambola di pezza, e della stoffa cremisi. Gli capitava spesso, sin da piccolo, di osservare delle persone e costruire loro attorno dei supposti mondi e non erano mai belli né sereni. Gli bastava un guardo, una voce, in gesto e subito dava a quei sogni ad occhi aperti delle sfumature diverse.
Il bello era che poi, quelle fantasie, passavano il segno e condizionavano la realtà delle sue opinioni circa quelle persone: diventavano vere nella sua testa, quindi assolute.
Allora quella cameriera doveva essere nata povera, con padre violento e caracollata qui in carovane di sofferenza; non era felice e cercava mantenimento. Quanto ci fosse di semplici archetipi in quei pensieri, lasciamo perdere; ma una riflessione concedetemela: in effetti per ciascuno la realtà è quella che in noi è supposta tale.
Guardò l'amico e replicò che sì, quella aveva un bel posteriore, ma un po' troppo scarna innanzi. Ma, in fondo, nelle oscure latebre del desiderio, l'impressione data da quella fanciulla, l'era un bel po' più profonda.
I giorni eran passati amorfi perché senza forma si trascinava il loro protagonista, finché un pomeriggio capitò che piovesse a dirotto, con inverecondi scrosci e lui corricchiava trattenendo a stento l'ombrello, impossibilitato però ad evitare l'ammollo. Era una persona generosa, questo glielo si deve: come tutti quelli che non han precisa direzione, a volte, sapeva cavalcare idee mirabolanti e parere valoroso. S'avvide d'una donna in difficoltà: tutta schiacciata contro un muro nel vano tentativo di proteggersi dalle secchiate d'acqua, cercava con frenetiche occhiate, un riparo o almeno un'anima pia, e la trovò nel nostro eroe. L'ombrello e il suo corpo sarebbero stati un buon puntello per raggiungere un luogo coperto o la casa, o l'automobile di quella persona ancora a lui ignota. E corse in aiuto.
Dall'altra stanza non proveniva verbo comprensibile: ogni qual volta lei parlava coi suoi paesani ripiombava in un mondo a lui ignoto, nei volti e nei luoghi. Mistero assoluto, oppure mezze parole, più storie strambe che altro. Ma, volendola abbandonare, questi vuoti gli avrebbero resa la faccenda più facile: poteva persino pugnalarla con frasi di grande effetto come: io non so nulla di te; oppure: abbiamo cavalcato ma della tua vita che ne so io? E variazioni di tal tono ed argomento. Questo se lei si fosse messa a piangere davanti al gran rifiuto di trarre innanzi la loro storia principiata sotto Giove Pluvio: e, a parer di lui, le lagrime sarebber scese certamente.
La pioggia appunto. Lui era corso verso lei dicendole: -serve una mano? L'aveva protetta con l'ombrello finendo lui a favor d'acqua. Non la riconobbe subito così fradicia, ma poi ch'ebbe sorriso e ringraziato, la bocca feminina e i boccoletti bbiondi fuggiti in cerca di latebra dall'immonda goccia, gli rivelaron l'arcano. E si avviarono verso la birreria ridendo giocondi e salvandosi a vicenda dall'annegamento certo. Cominciò così.
Qualche tempo dopo il nostro ebbe a chiedersi il perché di tanta facilità di successo: dal fascino suo ascoso vieppiù, se ne piombò nel buio del sospetto che lei la fosse un pochino vanerella. Eppure ciò non gli impedì di gonfiarsi a mo' di pavone tronfio e di ingigantirsi a gran Don Giovanni. S'andava ripetendo che non gli piaceva poi così tanto, che, in fondo, lui le faceva grande onore standole assieme.
Gli pareva d'essere doppio eroe: quando la sentiva elogiare d'altri, lui si inebriava di gloria conquistatoria: chè più difficile l'è la preda, migliore l'è il cacciator che l'ha agguantata al volo o colla rete truffaldina; e quando voleva pensarsi benefattore, le trovava i mille difetti facendola sartina e lui principe o satrapo. Nella sua testa giganteggiava sempre. Eppure doveva avvedersi almeno che non faceva mai un passo verso le esigenze della fanciulla: preso dalla sua immagine, vera o supposta, e succube della tendenza a giustificare ogni suo pensiero o azione, non si chiedeva mai che cosa potesse volere lei.
A volte la poverella sgranava tanto d'occhioni dinnanzi a certi vuoti di comprensione; oppure li abbassava vereconda sperando nell'affetto di colui che le era parso comprensivo, attento, gentile e premuroso. Ma lui scambiava le mute richieste per gesti di sottomissione e grandeggiava; oppure le chiedeva di voltarsi non distinguendosi dalla ferinità comune e banale.
L'ammirazione dei sodali cresceva perché notavano i sorrisi e l'accordo da lui così benn simulato: giocava a fare il morosino ma non mutava alcunché della sua scialba quotidianità. Un raggio di sole lo illuminava e lui non sapeva che pavoneggiarsi dicendosi: -come sono bravo, bello e generoso; invece che: -come sono fortunato. E nel colmo della sua stupida teatralità s'inventò il colpo di genio, il fulmine in chiusura: l'abbandono.
Si vide assiso in trono, fulgente nell'oro e nella porpora e lei prona in abiti sdruciti; e da Zeus Tonante l'avrebbe fissata tremendo negli occhi già tremanti e: -finisce qua.
Qua, qua, qua, qua, che male fa chi se ne va?
Capite pure voi che può fare la foiosa immaginazione senza i freni della ragione?
Dicevo sopra che l'era certo delle lagrime grondanti copiose non appena lei avrebbe inteso: già la vedeva trasfigurare e scolorarsi in viso; l'avrebbe implorato di recedere nelle intenzioni ma lui si sarebbe erto col petto e con la fronde, come avesse le femmine a gran dispitto e: -ho deciso; forte, sicuro come il fulmine di sé sicuro.
S'andava ripetendo la favoletta che l'era ormai gran conquistatore e che sarebbe mutato in mostro gigantesco, almeno nelle opinioni paesane; ma poi ancora un cangiamento covava in cuore: sublime magnanimo. Questo perché avrebbe recitato per qualche settimana la parte del freddo abbandonatore ma, poi, vinto dall'altrui patire, sarebbe tornato generosamente sui suoi passi e le avrebbe concessa la seconda possibilità. E così lei non sarebbe stata certo più reticente per alcune piccole concessioni che lui da tempo le chiedeva lascivo.
Orbene, tutto questo costituiva il pastolotto ben cotto nella sua testa; ma, entrato nella casa della tapina nel giorno stabilito pel grande affronto, non era più ben convinto del discorso da farsi. Teneva molta fiducia nella sua elocuzione, ma quante volte capita che due occhi tremolanti ci mozzino il fiato e sfarinino le parole che sicure già albeggiavano dalla gola? Ecco perché quel trillo di cellulare non era poi così infausto: lui s'era impappinato.
Oh, convinto era convinto; la cosa sarebbe stata fatta; eppure non aveva ben ponderato il periodare da usarsi in simile tenzone, e la letteratura non gli veniva in aiuto. Ma ce l'avrebbe fatta. Non le lagrime, non gli occhi, non i boccoli e la seta mal certa nel nascondere la carne, non le terga, gli avrebber mutata l'intenzione: e così attendeva il ritorno della callipigia.
E lei venne. Un po' rossa in volto, doveva aver discusso, si muoveva a scatti veloci, finché gli si piantò davanti e a lui parve opportuno tossire. Attimi di silenzio. Poi la bionda cameriera parlò: -stasera arriva il mio ragazzo dalla Bulgaria. Devi sparire e non farti più vedere, sennò t'ammazza di botte.

lunedì 21 settembre 2009

Risveglio tipico

Mi sveglio alla mattina e sento che potrei dire con infallibile certezza quello che accadrà entro sera: poi rifletto che, proprio per averlo pensato, quel qualcosa non si materializzerà. Così sorrido nella consapevolezza che, anche se sapessimo prevedere il futuro, saremmo perduti comunque: come Merlino che conosceva data e causa della sua morte e, contemporaneamente, viveva nell’ineluttabile fluire degli eventi; quando incontrò la donna che avrebbe cagionato la sua fine, non oppose alcuna resistenza: non avrebbe certo potuto.

Così finisce la razionalità: giù nel sifone del water, sempre che la Casualità tiri la catenella.

Non ci sono rumori nella mia camera, almeno oggettivi, come il tic-toc di una sveglia, o cose così: c’è il fiume all’esterno, ma quello non lo sento da anni, come il suono dell’aria che dovrà pure esserci, mica appena quando si fa vento; dico, pure il refolo un suo accento deve averlo, ma non l’odo.

In camera mia regna il silenzio oggettivo: è quello soggettivo a spadroneggiare, l’orrido acufene. Non smette mai, ha un livello medio, tripartito e costante e, a seconda dello stress, della pressione atmosferica e/o sanguigna, sale in concerti di scrosci, fischi e sortite di stridii. Così sollevo le palpebre e principio a notare il rumorio interno. Levo la testa e si mette in moto il naso: pruriti e necessità di svuotare i canali, i cunicoli, sì che l’aria novella possa fluire garrula su e giù, lungo vie che immagino giungere fino al poco ossigenato cervello.

Meglio alzarsi e ciabattare al bagno e poi in cucina.

C’è indifferenza nelle case di primo mattino: gli oggetti dormono più a lungo di noi tapini. L’aria notturna ristagna sui mobili, sui quadri, sulle foglie delle ridicole piante di mia mamma: non c’è attesa di qualche cambiamento, potrebbero restarsene lì per sempre: oh, certo, le piante morirebbero, ma non se ne accorgerebbe nessuno.

Accendo la luce in cucina offendendone gli abitanti nascosti. Una mosca, convinta di spadroneggiare, si leva presta e la locchio nell’abile suo planare sul tavolo, con lieve strafottenza. Al lago imparai a pigliarle con la mano: ti avvicini sornione, attendi la distrazione del nemico e poi parti; se avviene all’unisono con la volontà dell’insetto, te lo trovi nel pugno e lo sbatti sul pavimento in esplosioni di organi vitali. Crudele: le mosche sono più vecchie di noi bislacchi bipedi, potrebbero insegnarci mille cose e poi altre mille, ma farebbero anche un bel gesto evitando di sorvolare la mia pelata in ghirigori acrobatici. Tra me e la mosca il divario genetico è enorme e, prima o poi, qualcuno splatterà il sottoscritto ma io so che inevitabile: questo è l’unico vantaggio di una mente razionale ed evoluta.

Preso da queste belle e profonde riflessioni m’ingozzo di pane e latte e caffè e fetta biscottata.

Che giorno è? Un altro giorno perfetto? Senza bere sangria nel parco? Lontana la strada risuona di marmitte e motori sbuffanti: c’è chi vive per davvero e chi, buon per lui, ignora il caso. Dovrei afferrare una bandiera e sventolarla dal balcone, nell’indifferenza delle piante, del Mella, delle trote, dei passeri e dell’airone girovago. E delle montagne, lì prima e dopo di me. La mosca ne sapeva di cose, perciò l’ho ammazzata. Vecchio inconscio.

domenica 31 maggio 2009

L'Omino e la Luce

C’era una volta un Omino magro, smunto e quasi pelato. Viveva in una Torre a pianta rotonda, quasi una gabbia di pietra, ad un solo piano, con un pertugio volto a nord, una branda, un tavolino tondo posto al centro del pavimento e una sedia. Tre libri sul piancito: i Demoni, la Divina Commedia e il Circolo Pickwick. Attorno alla Torre una landa desolata: terreno brullo, latrati di lupi e ghigni di iene, buio pesto. Talvolta nel cielo notturno, ma era pur sempre notte, passavano rapide e lancinanti veloci comete, il cui bagliore squarciava l’oscurità per brevi istanti, sebbene il tempo nella Landa Desolata non avesse misurazione: l’Omino correva fuori dalla gabbia e restava ad osservare questi fenomeni, rapito da un profondo senso di compartecipazione. Finito il tutto, rientrava un po’ più ricco e, insieme, un po’ più povero. C’era stato un tempo in cui una sorta di Stella brillava costante: l’Omino la chiamava la sua Età dell’Oro, ed aveva avuto un inizio ed una fine, anche se nemmeno lui sapeva più dire quando, visto che, come già detto, lì il tempo non valeva che un soldo di cacio. Conservava in sé una buona impressione di quell’Età, ma ormai ogni particolare che allora pareva chiaro, ora gli sembrava consistente quanto una fantasima. E c’era pure stato un tempo, diciamo così, in cui piovevano lapilli di luce come pioggia estiva, con tuoni e lampi e l’Omino si sedeva sulla soglia e sorrideva. Poi aveva scovato un puntino luminoso, laggiù, dove, chissà perché, lui si immaginava potesse esserci una grande città: quando gli pareva di stare per scomparire, lo cercava e s’immaginava che in quella urbe qualcun altro, simile a lui, potesse guardare nella sua direzione. E tutto, all’improvviso, si fece più oscuro: quasi impensabile, eppure la situazione, all’esterno, si fece peggiore. D’un tratto il cielo cominciò ad essere attraversato da suoni continui, come fischi, lamenti, scrosci: l’Omino uscì allarmato e pensò che quel buio avesse preso vita e stesse per ghermirlo e portarlo via. Scappò nella Torre e la chiuse a chiave. Quando già pensava che quella sarebbe stata la Fine, dal pertugio filtrò una Luce fortissima: l’Omino non se ne curò subito, sapendo che questi fenomeni vengono e vanno, ma quando s’accorse che tale bagliore era proprio intenso, scese e riaprì almeno un poco la porta. La Luce era veramente uno spettacolo e lui si beava nel contemplarla, come un tempo. Seppe subito che non ci sarebbe stata un’altra Età dell’Oro ma se ne fregò: eppure quella luminosità perdeva improvvisamente intensità oppure era attraversata da lampi di buio. L’Omino aguzzò la vista e s’accorse del Problema. Poteva rientrare nella Torre, ah, sì, era uscito un pochino, non l’avevo detto, ripeto, poteva tornarsene dentro e lasciar perdere, visto che quelle ferite non dipendevano da lui, eppure una vocina interiore gli sussurrò che sarebbe stata una gran cosa provare ad aiutare quella Luce a sconfiggere le strane Tenebre che la lanciavano, così che potesse tornare al fulgore originario, ed, in fondo, naturale. L’Omino brandì le sue armi: Intuito, Scritti e Parole e pugnò per la Luce. Sapeva che com’era apparsa, poi sarebbe scomparsa, eppure gli seccava proprio vederla patire ingiustamente. Ogni tanto pensava: come sarebbe bello se questa Luce fosse mia, anche solo per un minuto, un ora, cinque ore. Ma gli pareva ingiusto, impossibile e, comunque, lui si sentiva illuminato lo stesso. L’Omino sapeva che la Torre era la sua casa e che le luci venivano e andavano e le età dell’Oro o dell’Argento forse erano solo favole: eppure non voleva che quella Luce se ne andasse. E Quella guarì: almeno così sembrava. Aveva sofferto, la Luce aveva gradito l’intervento dell’Omino, pareva ora vittoriosa: e lui parve che fosse giusto che Lei se ne andasse ad illuminare le sue terre, o le terre di altri. E brancolò nel buio. Quando la Luce non c’era l’Omino pensava interdetto che fosse normale non vederla più brillare, eppure sentiva un forte senso di malinconia. Ma perché non può restare almeno ad intermittenza? Nella gabbia l’Omino pensava, come sempre, leggeva e sognava: quando dalla finestrella intuiva il barbaglio, correva fuori, ma faticava a sorridere, perché lui di luci così non ne aveva mai viste e sapeva che non l’avrebbe mai avuta, ma non sapeva rinunciare al sogno di averla anche per pochi istanti, secondi, e poi riportare nella Torre il lume del divino. L’Omino non ha mai creduto alle favole, né ai sogni oltre il possibile: eppure aveva cura anche solo del breve benessere che traeva e raccattava in sé, allorquando la Luce compariva, e penso che fosse giusto l’aspettare di Drogo, l’attesa di una splendida battaglia, sapendo, in cuore, che mai l’avrebbe combattuta.

domenica 3 maggio 2009

VIII

Il verbo partire non aveva, per noi, frequente coniugazione; e, in quelle sporadiche occasioni, s’accompagnava sempre al complemento di fine o scopo: per le ferie. Arrivava l’estate coi soliti jingle, coi calzoncini corti e le magliette colorate, e noi seduti nell’atrio della facoltà, ove almeno si pippava frescura e s’odoravano le barbelle allora splendide, leggere e agili, noialtri ci si guardava nel ghigno e ci si chiedeva che mai avremmo fatto in quel mese e mezzo di solleone e afa da stiantare. E non avevamo mai riposte: cosa facciamo in queste ferie? beh, niente; non abbiamo mai fatto niente, sennon aspettare che il Bar chiudesse, l’Università pure e i negozi anche; poi ognuno se ne rimaneva nel suo paese a menare il can per l’aia. L’assoluta assenza di passere bipedi nella nostra giornata, ci lasciava spazio per la depressa follia e per i mille intrecci di progetti fumosi; già al principio si sapeva che l’idea appena nata sarebbe morta magna cum celeritate, in un cul de sac di volo-nolo-malo. Poi ciascuno di noi, in tempi diversi, s’intende, carpì la sua laurea, e sotto il sole, insisto giaguaro, si videro grandi novità. Io che da sempre berciavo teorie culsacchiane e mediocrità da fallito esistenzialista, ho cartabollato siffatti pensieri, in opere e parole vergate sul nulla. Sapevo che non sarei mai partito, mai veramente: anche nel breve termine, m’angosciava e bloccava in dualismo partenza-ritorno. Baloccavo l’idea di salpare ma, immantinente, volavo al momento in cui sarei dovuto rientrare nella quotidiana dabbenaggine. Un weekend, one week, two weeks e via dicendo: sì, ma poi si torna. E allora perché illudere il gulliver con fiaccate del tipo relax, libertè, fraternitè, cosce all’aria e pelle bronzea? Poi tornava il momento delle catene, del masso su per la salita, e poi giù, tra lacrime e sospiri; o che me lo faceva fare di illudermi con pillole di vitalità, se poi la natura e la dozzinale quotidianità mi rassembrava più allo zombie di Romero che agli eroi iperattivi di nasonica concezione? Persino la gita nell’urbe mi carcava le spalle di un pondo insopportabile; così vedevo i miei monti e mai strillavo Addio sul barcarola né burchiello. Mi ritrovavo nella quotidiana routine lavorativa, in cui mai mi chiedevo il senso perché già sapevo la risposta e, novello Sisifo, subivo la condanna ad una forzata contingenza. Quando M partì per la prima volta, l’era l’anno del mundial nippo-coreano. Ricordo questo, ma il torneo dietro la pelota volgeva ormai al termine durante quelle due settimane che lui se ne rimase in Thai, e al buon M del calcio fregava una fava cotta. Se ne sciorinò con un suo paesano, un po’ incattivito per il fatto che né io né il barbuto N s’era deciso di accompagnarlo: in fede mia, io non volevo affrontare il cielo con le mie turbe otorinolaringoiatriche e dentali; neppure la profferta di cosce a pagamento m’avea pungolato la volontà. In quel tempo avevo ancora l’Intrallazzo. M partì e noi restammo in urbe a carpire sole e afa e sputacchiate delle marmitte, non certo dei Giganti. I giorni volarono, io feci pure un esame, non delle urine, e m’invaghii del Pickwick. Poi M tornò. Non ci si vide per altre tre settimane, finché stabilimmo per telefono un giorno all’uopo, e ci trovammo nell’urbe. Quando lo vidi scendere dal treno, capii subito che qualcosa era cambiato: sorrideva d’un sorriso troppo ampio e pieno; aveva ancora i riflessi di Apollo orientale sulla pelle; senza occhiali, quasi mi passava davanti senza vedermi: poi se li infilò. “Laggiù c’è il Paradiso” scandì per bene le parole, con calma serafica. Che fosse una questione di donne, mi parve subito cosa cristallina: s’era ritrovato nella Shangri-là della passera e manco rimembrava il tempo di sua vita mortale quando la subina l’era distante; tot bat, e via, su in camera: e le aveva amate tutte; a questo ci credo ancora oggi: so che le ha rispettate tutte ed è stato con loro come vero amante, non come occasionale fottitore. Come fosse riuscito a tornare, mi sembrava un gran mistero: il paesano l’aveva spinto nell’aereo a calci nel sedere, altrimenti mica sarebbe rientrato in Ausonia. Ma tanto solare e tronfio mi parve quel dì del nostro incontro dopo il viaggio, quanto lo ritrovai abbattuto tre mesi dopo, inverno già entrante: appassito. Questo l’aggettivo più consono. Splendido fiore apertosi al calore orientale poi aberrante cadavere sfarinato dal grigiore ausonico. Dalla loquace favella pronta a pignere le gesta erotiche di thai dalla splendida pelle, al silenzio musonico, condito di mugugni e latrati. E venne l’inverno e venne la primavera d’un altro anno. Parve ripigliare colorito: mi tampinava in continuazione: “dai che si parte… dai che pure tu ti ritrovi… dai che ti passano tutti i mali… ”. E più passavano le settimane più riprendeva vigore: lo incupivano solo i miei rifiuti. Il mio problema era, ed è, la menzogna: pagare per ricevere un pizzico di amore truffaldino, per quanto possibilmente accattivante e godereccio, non è una cosa che mi aggrada. Temo me stesso più che i Danai, pure con i doni nelle mani. Ho il sospetto che se mi trovassi sul talamo con una donna, seppure arrapaho, pagata per starci e sorridermi e dirmi che sono bello e bravo e forte e magari fingere poppismi, mi sa che farei flop. Gran parte dei miei problemi risiedono nella mente e nella distorsione continua; dovrei pagare per credere in qualcosa, pure nell’amore di una gallinella, altrimenti il trucco non funzionerebbe. Non pago per auto-prendermi per i fondelli, figurati per le palle. E gli dicevo di no, che non sarei partito per mille motivi. Poi arrivò l’estate e s’imbarcò nuovamente. Partire, dicevo all’inizio. Un conto è partire per tornare, sapendo almeno, di tornare. Un altro è partire odiando il ritorno. M sapeva, ne sono certo, che far rientro questa seconda volta, sarebbe stata una impresa titanica. Un mese dopo me lo trovai di fronte: occhi sbarrati, abbronzato, sì, ma nessuna felicità. Una settimana prima s’era ripresentato alla porta di casa sua squattrinato, senza valigia e s’era chiuso in un mutismo ostinato. La prima volta aveva sorseggiato la perdizione, la decadenza orientale, in forma di passera: questa seconda, s’era ubriacato del tutto. Aveva il biglietto di ritorno, altrimenti sull’aereo non ci sarebbe mai salito e c’erano pure due, tre doveri qui da risolvere. Ma non fu più lo stesso. Ti parlava e sorrideva forzatamente; io che lo conoscevo, intuivo il progetto latente: era tornato col corpo, ma la mente no, quella era in Thai, in un eterno massaggio. Le persone come me non partono: due catene di monti le tengono compresse in una valle, laghi e passi alpini sono meri riferimenti geografici di una ristrettezza genetica; tutti hanno radici, ma c’è chi le ha molto, molto ed inutilmente, profonde, un po’ come quelle dei miei denti, sempre calcificate alla mascella. Appena l’orizzonte s’apre, principia l’angoscia, la malinconia per quei subdoli pinnacoli dinnanzi alle finestre e per quel campanile ritto in priapesca sfida. La gente come me, resta. Non c’è prica che valga, né profferta di lauti desinari e gamberi a profusione; non sgrondate e lavacri, non melliflue forme e richiami di barbelle: il valligiano non ha valige, ma zaini, di fuffa, di merda nel cervello, di pietre. Ingobbito. Ma M non era della valle, lui campeggiava laddove non sai più di che urbe sei, sive leonessa, seu desotaodesura, e già si intravede la madunina e s’odoran i panzarotti in medio l’ano. Lui respirava aria inquinata e non riusciva a formattare il cervello dopo il secondo viaggio. Lavorò un anno siccome forzato; poi mi telefonò coniugando il verbo: io parto, indicativo presente, certezza, realtà, oggettività. Lo penso sulla spiaggia con un gambero tra le fauci, lui conte Ugolino, l’altro arancio Ruggeri; senza forbire a’capelli. Pulendosi i denti colle chele. Lo immagino con fanciulle preste molto, diverse ogni sera: s’è pigliato tutti i soldi, suoi e dei parenti, da intendersi alla latina quest’ultimi. Non c’è invidia: il suo eterno presente è il tempo della degenerazione del fanciullino sordido; il mio del vecchione anticipato; cristallizzati entrambi, consapevoli ambedue.

mercoledì 29 aprile 2009

VII

La Dottoressa le mette davanti agli occhi una fotografia in bianconero: una porta chiusa, di legno scuro, la maniglia sembra di ottone, un po’ sporca. Uno scalino bianco. “ La osservi attentamente.” Curiosa la psicanalisi: L scannerizza nella mente l’immagine; la terapia le serve, sembra, almeno, servirle; non come dice quel tizio, dedito a abbassare ogni cosa a livello umano, troppo umano e a svuotarla del suo senso. Da quando le sedute sono iniziate lei sente di poter controllare meglio se stessa, di dominare le pulsioni, le sensazioni, persino la paura; sente tra le dita le briglie della vita, ma non è ancora corsa veloce e inebriante, c’è ancora latente il dubbio. Una porta. Un simbolo? Facile. Disagio: qualcosa comincia a sussurrarle dentro; sembra venire dall’interno, dietro quel legno. “Ora chiuda gli occhi!” l’ordine perentorio del medico la coglie di sorpresa e si scopre a fare un balzo sulla sedia; non le pareva d’essersi così concentrata. “Chiuda gli occhi e focalizzi la porta”. L obbedisce. Buio, non totale, ci sono i riverberi di là dalle palpebre; si concentra sulla figurazione della porta. Che voglia farle sentire i Doors? Sembra una battuta e lei sorride. Si inumidisce le labbra e gli occhi iniziano a muoversi da soli cercando di forgiare una immagine. Ora potrebbe vederla, una porta. “La vede?” Lei fa un cenno d’assenso con la testa. “Che porta è?” Già, che porta è? bella domanda. La guarda, con il cervello fissa questa sua porta: le ricorda quella del bagno di casa, non di quella in cui vive ora, ma della abitazione natale. Sì, le sembra quella: quante volte l’ha aperta e ha varcato la soglia? Ma ora è chiusa; nell’immagine forzata è chiusa. Ciò è fastidioso. Le è sempre scocciato il fatto che qualcuno possa chiudersi in bagno, con la chiave. In fondo che c’è da nascondere ad un membro stretto della propria famiglia? La porta è chiusa. Ed ora? “Riapra gli occhi, osservi l’immagine che le mostro e poi li richiuda.” Apre: la porta nella fotografia ora è aperta. Interno di una casa, luci, sembra un albero di Natale in lontananza, giocattoli, una palla, parquet. Richiude. La sua porta è ancora chiusa. Sconcerto. Poi come sempre le accade, la sente arrivare. Sale come acqua dal petto verso la gola; si sente le braccia bloccate, il respiro vietato dall’invisibile forza che stringe in bronchi, inizia a sudare, le palpebre sono incollate, la porta è chiusa, vorrebbe annaspare, muoversi, perDio, muoversi, respirare… il cuore è nella gola e pulsa in un ritmo insensato, l’aorta è nella carotide, vorrebbe vomitare… una mano le si appoggia sulla testa, una mano fredda, dita inanellate, l’orologio le batte sui capelli ramati. Sente la calma ritornare, le braccia farsi molli, gocce di sudore rotolare dalle ascelle giù per i fianchi in barba all’elastico del reggiseno; una prende la via della pancia, la sente fredda verso l’ombelico: strane congetture salate. La porta è schiusa, gli occhi sono ancora serrati. “Apra le palpebre”. L spalanca quegli occhi che hanno pugnalato tre uomini e guarda in basso: il seno si gonfia verso il volto, non sembra di respirare in maniera così profonda, almeno non dall’interno. “Ansia. Cosa c’è dietro la sua porta?” Non riesce a ricordarlo, era solo uno spiraglio. Ancora la Dottoressa: “Dietro la porta di casa mia… i giocattoli dei miei bambini, niente di speciale, sono così disordinati. Ci sono porte in ogni occasione, da aprire, anche se vorremmo lasciarle chiuse. Ci pensi. Alla prossima.” L si alza, indossa in suo cappotto ed esce; la segretaria sorride il suo commiato per nulla speciale. Fuori Aprile rompe ancora le palle con l’inutile freddo. L si tocca la pancia, cerca la goccia malandrina; lì ancora il vuoto. Le si ripresenta davanti agli occhi d’improvviso la porta, la sua, quella della camera da letto nella casa in cui è cresciuta: chiusa, in mezzo alla strada, sul marciapiede, la porta di vent’anni di vita, come uno sberleffo di fantasma, è lì, serrata in una sfida. Perché non è aperta? Perché quella fottutissima porta non si apre? L allunga la mano e sente un crampo in pancia: porta e viscere, sono connessi? Tende le dita della destra ad afferrare la maniglia: bastarda, lasciati prendere! La fitta, ma che è il duodeno?, si infittisce… poi cede, lei cede, abbassa il braccio. Perché aprirla? E se quello che c’è oltre, pensa, e se non mi andasse di vederlo? Se non mi piacesse? Se non ne fossi degna? Ansia. L la conosce, quella paura di non farcela, di non essere capace, di non essere degna. La porta è lì. Poi svanisce: è solo il solito marciapiedi, i soliti passanti con le loro vite, i loro affari, le loro ansie, le loro porte. Si tratta di allungare la mano e non sentirsi più strozzare. In fondo oggi ha alzato il braccio, ha afferrato la maniglia: domani forse l’abbasserà; dopodomani l’aprirà. L sorride; il sudore, bisogna lavarlo via; lei sa che connessione c’è tra la porta e la pancia; aprirà quella porta in culo all’ansia. Il sorriso si distende in un gesto d’amore: M è vicino, stasera si riprova, non si è soli in certi tentativi; forse può chiedergli di aiutarla ad aprire la porta di casa loro: di là, un giorno, giochi per infanti.

A Lori, con tutto il bene che le voglio, e lei lo sa.

sabato 25 aprile 2009

VI

Il vecchio orologio in cucina ha già raggiunto per l’ennesima volta la mezzanotte; all’esterno, sopra la porta, trovano la loro falce orde di zanzare, producendo rumore e puzza tipici dell’olocausto serale. W è seduto davanti al tavolo, al buio, in canotta un tempo bianca; i piedi nudi sul pavimento nel tentativo di carpire frescura. Non pensa a nulla: finita la giornata lavorativa e il pasto, attende sempre la notte senza pensare. Il respiro regolare fa innalzare la pancia lentamente e, altrettanto piano, risiede compressa nell’inspirazione: parrebbe fermarsi per sempre, invece poi riparte e si rigonfia. Così da anni, da sempre, almeno da quando i panini e il luppolo si sono portati via il senso della magrezza. Le mani sul tavolo sfiorano un quotidiano unto: aperto agli annunci, cerchiate in rosso delle finestrelle ove qualche azienda cerca operai. Lavoro, da 30 anni il solito problema. W è sveglio, sente le zanzare crepare senza requie, le auto sciorinarsene via lungo la statale senza senso, la puzza di una stanza chiusa salirgli nelle nari e stagnare; lontana una sirena, anch’essa è un suono comune a tante notti: nella mente di W potrebbe essere sempre la stessa persona ad aver bisogno di un medico, lo stesso pericolo, la stessa morte. Quando non si conoscono i volti, tutto si confonde ed amalgama in una medesima figura: lo sconosciuto; e poi che importa sapere chi ha bisogno, chi rischia, chi se ne va? Ticchetta con l’unghia dell’indice destro: non c’è speranza di ricordare una giornata diversa da un’altra, un evento, qualcosa che abbia rotto la routine; in verità nemmeno lo sforzo di ricordare ha più un motivo. Intorno a W la casa si appresta a vivere un’altra notte, immersa nel buio, certa che domani lo stesso sole di oggi e di ieri si degnerà di scaldarla; e se sarà pioggia, sarà pure più gradita, ma nessuna previsione l’annuncia, anzi l’afa s’è pigliata l’imperio, non si scappa all’estate. W si alza, prende un bicchiere e lo riempie sotto il rubinetto, attento a non sprecare una sola goccia. A piedi sempre nudi esce dalla cucina e s’appresta a salire le scale verso le camere. Quante volte a fatto questo tragitto? Osserva lo stipite della porta: potrebbe accorgersi del tempo che è passato cercando di ricordare le diverse prospettive: c’è stata un’epoca in cui i suoi occhi erano ad altezza molto diversa e le scale erano un ostacolo non indifferente per gambe corte e prive di muscoli. Si appoggiava al muro e un piede dopo l’altro saliva sperperando fatica e tensione: non era mai stato né abile, né atletico; com’è che milioni di scalini saliti e scesi non l’hanno forgiato e reso decente? Il cuore pulsa scorrettamente, il grasso ai fianchi saltella. Su e giù dalle due rampe lungo anni, cambiando statura e mutando tratti somatici, eppure nulla ha evitato la grassezza e l’abbandono della forma. W è fermo ai piedi delle scale: potrebbe vedersi ragazzino scendere a capofitto perché si illude di trovare all’esterno la bicicletta rossa che aveva chiesto a santa Lucia. Oppure sentire il tonfo dei suoi scarponi da lavoro: in fin dei conti i ricordi della giovinezza sono così rari nella sua mente; veloce l’immagine del dovere si sovrappone e così gli pare di avere solo lavorato. Scuote la testa: vorrebbe cambiare mansione da ormai quattro, cinque stagioni, eppure è sempre in fabbrica, la stessa, da mille anni, da sempre, altro che biciclette rosse e amori perduti. Questa faccenda degli amori perduti l’assale sempre sugli scalini: si vede ancora seduto, lì, più su, sul terzultimo prima del pianerottolo, testa tra le mani, due lacrimoni e un panino enorme adagiato al suo fianco. I riccioli biondi? Volati via in una crudele risata. Ora W sorride: stasera niente porno, troppo caldo. Sale, lento, goffo col vetro in mano e l’acqua che tremola. Pianerottolo: si ferma, di sotto si sente il gocciolare del lavandino; dimenticanze, disattenzioni, anche in questo W non sa che ripetersi; gli viene da chiedersi quanti anni abbia: 40, 45, 50, 100, 1000, non cambierebbe poi molto. In effetti è probabile che davanti al tornio, decenni or sono, lui sia morto, senza funerale perché senza cadavere, morto alla vita. Guarda in alto: il soffitto è troppo scuro: a nessuno verrebbe in mente che la luce elettrica sia già stata inventata; l’oscurità è naturale, così come la muffa. Manca un rumore: il rantolo del sonno di sua madre. W sbatte le palpebre e riprende a salire: l’acqua che s’era finalmente quietata, torna a sbattere sulle pareti del bicchiere. I piedi nudi salgono, le orecchie si tendono verso nessun suono. W non s’affretta, forse mamma è ancora sveglia e fissa il soffitto della sua camera: lui arranca verso la cima, poi volta a destra, nel corridoio e si ferma davanti alla stanza che fu alcova dei suoi genitori; la porta è spalancata, il talamo è là, nelle tenebre avvolto, nessuna fiaccola nuziale. Papi è morto da secoli, all’epoca dello sciopero. Domani discuteranno della crisi, in fabbrica: i sindacati sono sul piede di guerra; i proprietari vogliono andare all’est, manodopera conveniente, tanti W come automi, costo minimo, tutto normale. W sorride, a lui poco interessa; potrebbe andare all’est, potrebbe starsene qui disoccupato, potrebbe farla finita. Entrato in fabbrica minorenne, importa poi molto sapere quando ne sarebbe uscito? Il letto matrimoniale è fermo, le coltri pure, il rigonfio che dovrebbe essere sua madre non si muove. W avanza nella camera, lento si affianca al comodino, accende la luce dell’abatjour. Niente. Nessun sussulto. Avvicina il suo volto a quello che dovrebbe essere di sua madre: non un respiro; sposta le coperte, lei è lì, immobile, eterna. Non ricorda nemmeno se le ha mai voluto bene; rimasti soli non c’è stato neppure un vero dialogo. Poi lei s’è invecchiata e infermata; viene una donna tutti i giorni ad accudirla: W manco ricorda il suo nome; la paga, ogni mese, in contanti. W guarda la sveglia: 00:45. Morta. Questo è un cambiamento, la rottura nella routine: la osserva perplesso, come se la morte di sua madre appartenesse ad un altro quando o dove. Che fare? Fare qualcosa, e perché mai? Diversamente da così, le cose, come devono andare? Si chiede, in pochi secondi pratici, se deve chiamare il medico, la polizia, l’esercito, i pompieri: sorride, ma chi mai sarebbe venuto per un’anziana morta di vecchiaia? Bisogna avvisare, sì; ma ora, o domani, che cambia? Invece di andare al lavoro, domani chiamerà il medico, poi si vedrà. Tanto sua madre mica ha fretta. W torna indietro e poi decide di andare verso l’altro lato del talamo nuziale; appoggia il bicchiere sul comodino di suo padre e poi si stende a fianco di sua madre morta. Da basso sale ancora il ritmo della goccia nell’acquaio. Domani si potrebbe chiamare l’idraulico, dopo il medico, s’intende. W chiude gli occhi: nonostante il caldo può dormire, lui ci riesce. Il corpo al suo fianco è in pace, prima o poi ci sarebbe arrivato pure lui ai pascoli del cielo. Per rispetto sarebbe meglio non russare.

mercoledì 22 aprile 2009

V

Si dice che abbia avuto tre mariti, due qui, in valle, uno all’estero durante un viaggio in una imprecisata località esotica. Si dice che abbia passato da un po’ la quarantina. Si dice che abbia rifiutato quattordici richieste di matrimonio, diciotto di fughe, ventitre di amanti propostisi con grandi sacrifici. Si dice abbia due figli ignoti ai più, oltre ai due ufficiali, con l’ultimo marito, quello certo. Si dice che sin da bambina mandasse in sollucchero i maestri recitando Dante a memoria, in piedi, sul banco, gli occhi chiusi e i ricci neri svolazzanti, sebbene non ci fosse un refolo d’aria. Si dice che abbia imparato a suonare il pianoforte in un anno… duro solo per l’insegnante, datosi poi alla dipendenza alcolica. Si dice che suoni il violino alla pari con Paganini e che le sia apparso il diavolo in persona per offrirle il suo regno, sdegnosamente rifiutato. Si dice che giochi a scacchi bendata e le sue Torri siano efficienti quanto Uzi irakeni. Si dice che non abbia mai chiesto nulla, ma che tutto le sia stato offerto, eppure questo non mi torna del tutto probabile, dato che si dice pure che sia follemente innamorata di uno che non è in grado di capirla. Io ebbi la ventura di avere da lei un passaggio in macchina, in una mattina di primavera, andando verso l’urbe. Non la conoscevo personalmente, non è nemmeno del mio paese, sapevo che macchina ha, ma mai, nemmeno nei miei più sfrenati sogni, avrei pensato che si sarebbe fermata a raccogliermi. In realtà manco lo facevo l’autostop: aspettavo al corriera, preso nel mio mondo, osservandolo da un oblò. La conoscevo di fama, e del resto non ci vuole molto; e sapevo, perché l’avevo vista molte volte, che era bella, ma, dio e i serafini mi perdonino, io bellezza più bella non l’ho mai vista. Forse una volta, in discoteca, vedendo una tizia, rimasi di stucco per un buon quarto d’ora. La prima cosa che pensai quando abbassò il finestrino per offrirmi un passaggio, fu che dovevo essere morto, e allora evviva la morte! I neri capelli come nuvola in tempesta, facevano cornice al bianco volto: le labbra scarlatte lasciarono fluire suoni come solo uno strumento diabolico; gli occhi erano dietro due lenti scure: non so perché ma capii che aveva pianto. Non vidi le gambe, non subito: Vostro Onore, in fede, mi creda, non le vidi e nemmeno le tette, ma qui non ho speranza di essere creduto: chi non le vedrebbe? No: sorpreso nel Gabbio intesi la profferta, e come se fosse del tutto naturale, entrai in macchina, al suo fianco. Ciò che ancora oggi mi stupisce è la spontaneità del mio atteggiamento: fu subito come se io fossi suo amico; non mi intimorì, non pensai ai sentito dire, non pensai a nulla: lei ingranò la prima e partimmo. -Dove vai? Sapevo che cantava ma non avevo mai sentito la sua voce: il tono femminile spesso mi stanca in due secondi, il suo mi ricordava il sussurro di una delle tante sedicenti dee del sesso che vanno in tivvù a ciarlare; tanto fumo… invece costei sembrava la cornucopia. Accostai subito il colore del suo collo ad un frutto da leccare avidamente: mi costrinsi così a guardare fuori dal finestrino. Mi parlava, mi raccontava fatti della sua vita, come se mi conoscesse da tempo e io l’ascoltavo avidamente, perché capivo che altra occasione non ci sarebbe stata. Non sono mai stato bravo negli approcci: ricordo che con Chiara impiegai due settimane a sedermi al suo fianco in aula per Italiano uno; leggemmo Parini e dentro di me, il cuore tuonava furioso; avremo scambiato un centinaio di parole. In verità le donne mi annoiano; per quanto trovi una bella, dopo qualche frasi di rito comincio a pensare ad una mosca che vola in una stanza vuota e mi incupisco. Quella donna invece mi attirava e nemmeno l’avevo ancora guardata: sentivo uno smodato desiderio di sapere per chi aveva pianto, perché colui mi sembrava dovesse essere quanto meno un dio greco: perché donne come lei piangono solo per degli uomini superiori. Eppure un barbaglio maligno, in me, mi pispigliava che mi stavo sbagliando. Cominciavo a volerla guardare: ho sentito ancora di donne che vanno oltre la bellezza oggettiva e pigliano a piene mani nel cesto dell’erotismo. Non rispettano i canoni del Canova, nessuno le direbbe mai Grazie: nessuno potrebbe resistere loro. Io ho sempre pensato che Moana Pozzi, Zara Whites, Emanuelle Beart, fossero di tale razza: ho visto ancora di lungi femmine così e ho pure saputo di uomini resi folli d’amore per loro. Mai ci ho parlato. Costei mi rassembrava alle donne d’antichi fasti, di virtù mareotiche, di lupanari, di orge bacchiche. Ascoltavo e guardavo: muoveva le braccia come dirigesse un’orchestra, le dita denotavano lavoro sulle corde; mi toccava le braccia e rabbrividivo di piacere; vidi le gambe: precise, affusolate, spostava i piedi e notai la caviglia sottile: in questo sono russo, karamazoviano, adoro le caviglie, mi ci soffermerei mille anni con le dita. Aveva le calze colorate, nere come fondo, con onde bianche: mio dio, pensavo al calore tra le cosce, alla follia di appoggiare le mie guance e piangere le lacrime di una vita inutile su quel morbido cuscino ebbro di piacere e perdizione. Pensavo a quanti avranno perso il sonno rincorrendo anche un solo secondo accanto a questa donna. Parlava di un uomo scorretto, che diceva di amarla e la respingeva: trasecolai; doveva essere una barzelletta o uno scherzo. Mi incuriosiva tale faccenda, così ascoltai meglio: proprio così, piangeva per un amore schiacciato da qualcuno che la fuggiva e la cercava, ma non la pigliava sebbene se la fosse presa, in senso biblico direi. Beh, chi non se la sarebbe posseduta, lei volendo: ma abbandonarla? Abbandonare questa porta per la felicità, per l’immensa autostima, per la gloria, per l’orgoglio infinito? Possibile? Contro natura, contro la mia di natura. Piangeva di nuovo: mi aveva raccolto per avere una spalla? Le parlai e lei mi ascoltava: una sorpresa ulteriore. Le parlai di mondi in cui rispetto, fiducia, amore, follia, sessualità, godimento, scambio di piacere reciproco, dialogo, verità, sincerità, esistevano, valevano, Cristo, valevano sì! Un mondo in cui qualcuno può dar tutto per avere tutto e volare verso la crescita, verso la condivisione empatica e corporale. Un mondo senza giudizio, fatto di un uomo e di una donna, sullo stesso piano. Piangeva perché questo avrebbe voluto, ma non aveva, e non sapeva comandare al cuore; nemmeno lei, bella come una dea, sapeva ordinarsi di non soffrire invano. Capivo lei, non capivo e non accettavo quel lui. Ogni notizia che avevo su questa donna svanì dalla mia memoria: subentrò la sua bellezza; poi la mente così ben accordata, poi il suono della voce, poi il corpo, immagine stessa del mio desiderio. La città era vicina, maledetta città, maledetta quotidianità mia senza gioia, senza felicità, senza una donna così che mi ami, senza pietà per me stesso, senza il gusto di morire per l’idea stessa di amare. Senza lei. Arrivammo e mi chiese dove scendevo: io mi sarei sparato pur di non scendere più, ma io nella sua vita non avevo e non avrei mai avuto nessun ruolo: le dissi che una sola lacrima per un uomo non in grado di apprezzarla, anche una sola era gettata alle ortiche. Perle ai porci; le dissi e poi si fermò e scesi. –Grazie. L’ultimo suono, in re minore, come la mia vita, in re minore. Ma per un’ora, con lei, altro che maggiore.

venerdì 17 aprile 2009

IV

Ero salito a S in cerca di frescura; nel bar, l’unico dell’antica frazione, quattro avventori attorno alle carte: briscola, ori. Scende il fante di coppe, lo sfracassa il tre del medesimo seme; carico, bum! Ghigni tirati, colpi di tosse, s’è scoperto un gioco. Piglio un ghiacciolo alla menta e la vedo: appesa alla parete dietro il freezer, stona così azzurra sul fondo giallo epatite. Fotografia di tre uomini in barca (senza cane, Jerome, senza cane!), location: Thai. Sorridono, due; cristallizzato in un bercio lui, T. Me lo ricordo bene: la natura arpia lo volle piccolo e storto e bitorzoluto, in difficoltà elocutiva perenne, timido fino alla radice dei radi capelli; se ne arrivò ai quaranta senza conoscere femmina. Poi gli eroi che osarono le mille volte varcare le Simplegadi azzurre delle Speculazioni edilizie, per dirne uno, di contesto, eh!, i baldi superuomini dalle giberne carche di dindi, lo portarono appresso lungo i loro ameni peregrinari esotici e, durante uno di questi, T fu illuminato d’immenso. Me lo vedo rannicchiato, tremante sulle madide lenzuola, ratti i molari a tartagliare brividi salivati, quando, siccome madonna nelle grotte franzesi, lei gli apparve in tutto il suo splendore di-vino (e forse T l’era pure ebbro di Bacco). Lenta e precisa, sinfonica e melliflua, la Pennica veniva innanzi e più s’avanzava, più il senno del tapino s’arretrava. La lieve peluria, tumida al peccato, gli si posò graziosa al fianco, ma, forse, pens’io, furono i turgidi capezzoli (sempre come cerbiatti) a sbaluginare il semplice ordine mentale paesano e a ridurlo ad un ammasso di disarmonici e disorganici conati. Forse la prima volta gli esplose la voglia, mal veicolata, in una bolla di seme biancastro; di certo non certificò penetrazione. Tornato al paese si manifestò nel mio bar camiciato in stile hawaiano, in ciabatte e calzoni corti per nulla in tinta, e come si potrebbe amalgamare siffatte mareotiche fantasie, mi consenta, Giudice Eterno?, che s’era pure d’autunno, come testimoniavano le foglie in vena di suicidi… e appena ingredito urlò: W LA FIGA! Non ci ho mai trovato nulla da ridere. Ritornò in Thai e ne riportò mazzi di fotografie, nelle quali sempre ghignava attorniato da ninfe orientali. invero molto belle. Mi puzzavano alquanto i sodali panzuti, ma zittisco la sferza scottante nelle mani, ché mi preme la continuazione di questo mio caracollare quotidiano. Non sproloquiava: mia mamma ha torto; aveva visto e provato tutto in un colpo ciò che spetterebbe a chiunque in quarant’anni e, certo, l’era una faccenda pesante da digerire ed assimilare, figuratevi cacarla fuori. Ovvio che la malattia fottuta lo colse. Forse venne a lui come Prica di nero vestita, senza falce ma con ventaglio orientale e sonagli alle caviglie perfette benché ossute; forse lo abbracciò e se lo pigliò con la lingua in bocca in un ultimo osculo d’amore. Di certo il Bene và e il Male resta; i sodali panzuti si cacarono nelle brache per qualche anno, eppure ancora calcano questo ed altri suoli; non c’è mai verso che la ruota cambi modo di girare; eppure, quel ghigno, cristallizzato nella fotografia, è teste di onorato piacere e forse fu pure lui, T, per un giorno almeno, Marcio Alessandrino.

martedì 14 aprile 2009

III

La dicono “femmina pubblica”, sempre che uno capisca che vuole dire questa espressione. In verità, i più saccenti usano pure altri epiteti, ma questo è il più gettonato. A vederla potresti avere altre impressioni: guardare il suo elegante ancheggiare, udire il ticchettio dei suoi stivaletti sull’asfalto, notare il brillio nella chioma, annusare l’aroma di essenze esotiche, perderti nell’ondeggiare della gonna, calcolare il nitore del collo o delle braccia. Poi ti sorprenderebbe il ghigno sardonico del saccentone che annuisce, e tra berci e scaracchi, prima sbircia lei, poi fa l’occhiolino a te e ti assicura che quella è una “femmina pubblica”. Abbiamo la stessa età e quindi, almeno alle medie, siamo stati nella stessa scuola, ma la sezione era diversa. Ricordo solo un fatto: in gita, tre giorni in una sorta di monastero, durante una cena i miei presunti amici mi fecero finire al tavolo delle ragazze, così per celia. Non ho mai avuto vergogne o timori di questo tipo, semmai non sono mai riuscito ad intendere per bene l’importanza di certi riti, di certi passaggi vitali, di alcune tappe che ho poi saltato a piè pari. Comunque mi accomodai proprio davanti a lei e ridemmo per tutto il tempo dedicato al cibo: non c’eravamo mai parlati e non ci saremmo mai più parlati, ma non la vidi mai più così bella come quella sera. Sembrava baciata d’immensa Bellezza, e che potesse ottenere qualunque cosa desiderasse: gli occhi non smettevano mai di luccicare e crepitare, le labbra chiudevano e schiudevano la corolla bianca dei denti, la voce non contemplava dubbi. Ridemmo. Di cosa mica lo so. Non sono mai stato innamorato di lei, mentre ne conosco parecchi che ci persero dindi e talleri, cercando di afferrarla e, per giunta, tenerla. Credo siano stati questi tangheri a mettere in giro la voce che lei sia una donna di tutti. Ho sempre questa impressione davanti alle donne belle: giustamente inafferrabili e non circoscrivibili entro limiti umani. Bisogna aspettare che la Bellezza muoia per pigliarle: a tutti gli effetti si tratta di goderne la rosa, almeno dicono così i sapientoni. In lei la Bellezza è morta presto, ne convengo. Io resto sempre in disparte, la mia è una vita ai margini: vedo, non giudico, constato e passo oltre; il risultato è sempre lo stesso. Passa lungo la via e attira lo sguardo di tutti, ma la magia è finita e lei lo sa. C’è un tempo per tutto, e una volta passato, non torna più. L’hanno attirata, blandita, circuita e avuta: devo pur credere che qualcuno l’ha afferrata; l’ho spesso vita su una stessa macchina, entrare in una stessa casa, andare a braccetto con uno stesso paltò. E nella vita due più due, ogni tanto, fa davvero quattro. Ma nessuno l’ha tenuta. Deve essere la sostanza del Bello e del Giusto: non rattenibile. E ciò deve aver fatto saltare il senno agli incapaci, ai duri di comprendonio: se non posso avere, allora svaluto, allora sia l’inflazione. Non c’è bisogno di diminuire il valore di qualcosa: il tempo e la vita ci pensano da sé. Lei passa e non è di nessuno: una volta ci siamo incrociati e mi ha sorriso. Io no: ho visto la morte nei suoi occhi e non sono riuscito a sorridere; in un flebile ricordo l’ho vista dodicenne al tavolo con me, e ho pensato che la Bellezza è davvero troppo effimera. Una “femmina pubblica”? Un'illusione privata.

lunedì 13 aprile 2009

II

È di nuovo il giorno dello spurgo. Madonnina mia, di nuovo. Me ne accorgo solo ora, guardando il calendario, la data cerchiata e il mio disegnino: lo schizzo di un cestino dello sporco e la puzza che sale in ghirigori. Il camion sarà qui alle 16-16:30 al massimo. Penso subito alla scala a chiocciola, già di per sé perigliosa e nauseabonda: mi troverò il tubo risucchiatore tra i piedi, dovrò afferrare il corrimano per non rischiare il collo, dovrò scendere senza respirare, la merda comunque mi trapanerà il cervello. Non è proprio cacca, eh, sono i rimasugli limacciosi delle vasche dove gli operai immergono i calci per essere rivestiti dalla pellicola colorata; l’intruglio si mesce collo scarto delle verniciature, con liquami di dubbia entità. Non è merda, è peggio. Alzo gli occhi verso la vetrata che separa gli uffici (il mio ufficio) dal primo reparto-verniciature: gli african-boys sparacchiano tintura bianca fischiettando; ho cercato spesso di convincerli ad usare le mascherine, pure avvisandoli della possibile loro futura sterilità, ma non capiscono, forse non sanno preoccuparsi; bisognosi di denaro, fanno quello che gli si chiede ignari della giustezza o meno delle condizioni. G mi guardava sempre perplesso, incapace di accettare la mia distanza dal sesso: -ma come cazzo fai quando ti tira? Spalancava gli occhioni e la sigaretta rimaneva a mezz’aria. –beh, uso la mano; rispondevo sempre così, sorridendo. Lui no, non sorrideva: -no, non puoi, non puoi, cazzo, non puoi, non è mica lo stesso, no, no. E voleva prestarmene una delle sue. Questi ragazzi approdati dal continente nero: ho imparato alcune cose dal loro non misurare il tempo; ma non posso metterle in pratica, costretto dal dover fare, essere, sembrare. Il capo bestemmia da basso, lo sento fin qui, come il ghignare delle ragazze al collaudo. Quando sono entrato qui per la prima volta, avevo il sorriso di chi pensa di restarci per poco, giusto il tempo di gonfiare un po’ le giberne. Avrei dovuto contare quel che arriva e quel che parte, tener d’occhio il materiale necessario per tutte le lavorazioni e parlare e parlare… con i clienti privati e con le aziende schioppo-produttrici. Travolto dalla novità e dall’imparare, non ti accorgi dei giorni che passano; finché ti sorprendi a controllare senza ragionare, ad agire senza riflettere e allora il cervello torna a mordersi la coda. Le ragazze mi avevano accolto dubbiose: abituate a femmine incapaci in ufficio, diffidavano dell’improvviso maschio. J non mi guardava nemmeno. Entro in reparto, mi accolgono battute e ansie lavorative: -cosa dobbiamo fare, cosa non dobbiamo; -ma L sa, non sa, che fa? Un orda di banali questioni mi assale. In fondo si tratta di non farle smettere mai, di dar loro il pane quotidiano, il lavoro, i numeri da realizzare, le tabelle di marcia. Io, a volte, spengo tutto: resto sospeso nel vuoto; non voglio nulla, non penso a nulla; poi rientro piano, piano. Potrei gestire attese di secoli, perché, in fondo, il secolo è una serie di minuti. E se sai aspettare un minuto, puoi farlo per cent’anni. Invece questa gente brama l’attività seppure stolida, ma purché non si stia con le mani in tasca… , non importa come, si deve fare; inutile mostrar loro che si può pure pensare, riflettere, sognare, contemplare. Devo scendere a pigliare una latta di acetone: potrei uscire, prendere il Fiorino verde, fare il giro lungo, entrare nella fabbrica dalla discesa per i camion, caricare l’acetone e tornare qui. Ma non mi và. Necessito di distruggere un po’ i muscoli delle braccia e scaricare la mente: affronto la scala a chiocciola in discesa vuoto e in salita carche le mani della latta. Questa mia fissazione all’inizio era guardata come si osserva un folle ubriaco; ora sorridono tutti, dandomi del matto completo. Pensavo: ci resterò qualche mese, poi volerò via, ho le ali io, mica come questi qui, pesanti, zavorrati dalla mente ristretta. Infilavo la Ford nel vialetto alla mattina e ne uscivo alla sera e il sole se ne stava in cielo sempre meno tempo: le maniche corte s’allungavano e spuntavano le giacche pesanti; e fioccava ed io ero ancora qui. Finché una mattina ho camminato nel prato accanto all’ingresso per i camion e ci ho trovato novelli fiori e ho finalmente inteso che un anno era passato e non ricordavo più dove volevo andarmene. Risalgo dalla scala a chiocciola col bidone levato in alto; se mi sbilanciassi farei un bel tonfo, giù in basso, ai piedi della cisterna: ah, sì, oggi verranno a vuotarla; in fin dei conti sono sempre azioni, gesti che si ripetono ciclicamente e oggi i protagonisti hanno il volto liscio, domani la preoccupazione avrà reso la pelle un canyon di rughe. Le ragazze mi ringraziano e hanno nuovi problemi, vecchie questioni. Spesso mi fermo a reggiare i bancali: le mani mi scottano facendo ruotare il rocchetto del cellophane e la testa gira; eppure, quando ho finito sono passati ben 10-15 minuti e l’ora della sirena è ben più vicina. Posso andare alla scrivania a conteggiare un po’ di calci e aste: a riflettere sul meccanismo che ci attanaglia alla realtà. Quando sono entrato qui per la prima volta pensavo che ci sarei rimasto per poco tempo; le ragazze non mi guardavano e sbocconcellavano parole verso la mia persona. Poi tutto cambia piano piano, l’abitudine erode e sgretola lentamente i muri divisori. La sera esco sotto lo stesso cielo di qualche anno fa: ancora mi chiedo quale influenza potrò mai avere sul cosmo, o nel mio continente, o nella lungimirante attesa del Mella. In fondo lo so.

domenica 12 aprile 2009

I

Graffi con il temperino il banco, nascosta la lama tra i gomiti. Siamo uno di fianco all’altro e sento il tuo respiro. Non è ancora il nostro turno: è lento il confessore. Una secca suora rondeggia tossendo con finta delicatezza, stai attenta che non ti sgami: nessuno di noi due avrebbe dindi bastevoli a risarcire il danno. Non riesco a fissarmi su una preghiera: dimentico le parole o le mescolo. Ci riprovo più volte, ma nemmeno sono creativo nella mia fede: chiedo scusa e subito non capisco di che cosa mi si potrebbe realmente accusare. Formulo richieste e mi chiedo perché mai dovrebbero essere esaudite, stanti problemi maggiori sotto il sole, pur sempre giaguaro. Ridi. Sei la solita buffona, le caviglie sottili, ma pure una buffona. La sorella di Misericordia ti locchia grifagna. Pizzico il tuo gomito e mi colpisci. Metti via la lama: assurdamente penso alle lamie, faccio sempre di questi giochi mentali, una parola tira l’altra, come le noccioline. Tocca a te: ti alzi civettuola carezzandoti la gonna perché aderisca ai fianchi. Non ti si può guardare senza intorbidare il senno: io resto ginocchioni e nemmeno provo a chiudere gli occhi per non desiderare la donna d’altri, per giunta invano. O la ragazzina d’altri, perché, per quanto t’atteggi e parli e berci e scodinzoli, come una donna, sei ancora una pupa. Ma quei fianchi sono pericolosi come aspidi. Volti repente nei banchi e sicura ti genufletti innanzi al prete. Maledico la mia mente: la stessa mossa t’ho vista fare dietro al cimitero: mi avevi chiamato piangente, che lui non ti voleva più; io avevo lasciate le carte sperse sulla scrivania e m’ero fiondato con la bici pure contromano. Mi avevi detto che eri sola, che lui se ne era andato e che ti rotolavano gocce amare sulle guance, beh, con altre parole… , mi avevi detto che eri dietro il muro del cimitero: e c’ero arrivato sudato. Di lungi: quella stessa lenta precisione delle ginocchia, quegli stessi sbuffi di capelli, ma avanti e indietro; lui era ancora lì con te, e le sue dita arruffavano la nuvola di rubini. Mi serve una preghiera, una all’uopo, una serie di scuse da presentare all’eterno, perché non so guardarti sennon per desideri. Parli. Ridi. Le tue carole pure col prete. Uomo pure lui. Mi volto per cercare il tuo graffito da teppista: un cuore e due lettere dentro con un più in mezzo. Tutto così banale. Dopo che ti avrà avuta sul serio ti lascerà in frantumi di sogni; ed io me ne starò zitto a pigliarmi i pugni diretti ad altra spalla. Mi siedo. La suora vi osserva: lei sa. Queste sorelle sanno sempre tutto e lo peggiorano dipingendo con tinte forti e nere; o rosse, in bagliori sanguigni. Penso che un giorno ti siederai su una Mercedes e ti lascerai intortire con poche promesse. Osservo i tuoi capelli come cascata di rame e spuma d’oro: so che il tuo occhio crepita, e so che il prete sente odor di zolfo ma non gliene importa granché. A dir la verità, non è che importa mai granché neppure a me, la mia, dico, di perdizione: il non sapere mai afferrare il senso. Mi alzo. Sommare bugie a bugie… una torta di strati di bugie? Esco. Il sole è alto e sbuffa calore. Mi volto: le montagne sono sempre lì, e lì erano e pure saranno, tra un milione di anni, se tutto questo avrà ancora una importanza. Mi accuccio sugli scalini. Non ho paura, non ho mai paura: qualcuno parte, tu partirai. Io resto, io resto sempre, perché non ho le ali, e comunque sarebbe un folle volo.