domenica 27 luglio 2008

Bozza (continuazione)

Un pio passatempo, un po’ come ingannare la morte, o parlarle: sopra la mia testa un’enorme specchio appeso ed inclinato verso il pavimento, a reggerlo due catenelle dorate: riesco a vedere i giocatori alle mie spalle. Ho sempre avuto un mistico rispetto per gli specchi, pensando che l’immagine proposta sia tanto più veritiera di quella diretta; questo perché l’ipocrisia delle maschere si occupa solo di questa, mentre se ne frega di ciò che appare in un contingente riflesso. L’individuo si aspetta di essere guardato direttamente e per questa eventualità prende le sue precauzioni; non riesce a curarsi pure di uno specchio; la realtà viene così stanata per via obliqua. Io stesso stento a riconoscere la persona che mi si para innanzi tutte le mattine sopra il lavabo in bagno; eppure sono più che io, per questo quel tizio ride assai poco e ha occhiaie profonde; molto più democratica l’acqua quando ti riflette: basta un piccolo tremolar della superficie per censurare il disvelamento di sé.

Ma chi sono questi tipi che stanno chini sul video e pigiano ebefrenici i tasti? Quando e quanto si conosce una persona? Si conoscono le maschere, ciò che vogliono che sia visto; ognuno di noi è così, si offre a spizzichi e solo se pensa ne valga la pena, mentre di balle se ne elargiscono a caterve. Ma quando non si è visti, quando si pensa di non essere visti, allora sì che il vero affiora e piglia il sopravvento: c’è consapevolezza? Credo proprio di no, altrimenti gli psico non avrebbero più pane da mangiare; il problema è che spesso viene reputata per vera la persona per come si manifesta nel novantotto per cento del suo tempo e non nell’impulso degli attimi nel restante due per cento, quando invece proprio in questa miseria di occasioni esce il vero io, scansando a pedate nel culo il super-io. La verità sta nel minuto di pseudo-follia, nell’orgia del secondo, nella breccia minima nel muro, in quell’istante senza freni inibitori. Colui che si riflette sopra la mia testa non è lo stesso che qualche ora fa portava il suo pupo nel passeggino vicino al parco del carabiniere morto; ne porta i vestiti e pure la corporatura è la medesima, ma quella era la maschera del buon padre di famigghia, del lavoratore instancabile che regge, come Atlante sul groppone, il suo mondo: questa, mentre imbratta di bava il video della slot, è la vera persona, quella che evade il fisco, che agguanterebbe le chiappette della Lolita allo stesso parco di cui sopra, che farebbe a brandelli coi denti e colle mani i compagni di traffico, che spedirebbe la moglie in un Gulag per dimenticarcela, che, infine, fotterebbe la morte per un secondo di divinità. Ma non lo sa: stolido continua a pigiare i tasti, però sente di essere mosso da impulsi diversi, non li sa calibrare, e meno male. C’è da non pensar bene quando un imbianchino sale sul trono del Mondo, o d’Europa, almeno. Eppure il profumo di una potenziale soddisfazione lo sentono, e schiappettano dietro i finti Nirvana dei nights, dei calicioni di vino per gragarizzar giù dal truglio i mille spiedi, dei concili massonici con imberbi mutandine come medium, delle piste bianche che varrebbero i libri scolastici della prole, delle imbonitrici maghe o dei corvacci tonacati: dietro alla pelota sul prato verde, al culo dei cavalli drogati per arrivar primi a nessun valsente, alla finta vita della Borsa che sale, scende, vomita e non si cale di loro e dei dindi bruciacchiati. Palliativi, prima di riedere alla domo di sera, Apollo calante, e guatare il volto rugato dalla natura della mogliera, e sentire i lai e i guaiti dei procreati dal preserva bucato. Non è che gliel’ha ordinato il dottore, ma l’istinto che fa qualcuno speculativo, e qualcun altro minchione, fa i vincitori e i perdenti e così via.

La macchinetta li svela, fa calar giù le braghe, e quelli che credono di giocare non sono gli attori, ma Loro, gli Individui e come tali andrebbero considerati dal consorzio umano o presunto tale: solo che di umanità non si parlerebbe più, qualora ciascuno di noi fosse preso per quello che realmente è e raggruppato, ma di ferinità, di bestialità. con rispetto per le bestie che tali sono in famigghia, quali da sole, in cerca di cibo, compagni e vittime. L’animale è quel che è sempre, e non all’uopo: quello è l’uomo, colui che il teorico Iddio ha fatto a sua imago, quello che bestemmia per una combinazione di frutti diversi, e che mangerebbe il suo cuore per una chiavata in più o per uno zero finale aggiunto nel conto in banca.

lunedì 21 luglio 2008

Bozza

Le macchinette non chiedevano mai s’eravamo felici; in effetti non ti chiedevano proprio niente, sennon di foraggiarle di vile, mica poi tanto, danaro. Poi pigiavi sapiente dei bottoni rossi e, sullo schermo, ruotavano vorticosamente caselle di slot machines virtuali, fino a fermarsi fingendo pure il rallentamento; combinazioni di frutta dichiaravano vincite minime o, il più delle volte, perdite definitive, il tutto corredato da simpatici jingle, tanto funesti nella sconfitta quanto non uditi qualora ci fosse una fortunata congiuntura; naturalmente di buoni consumazione, altrettanto naturalmente convertibili in altri dindi pronti a ritornare nella macchinetta medesima per nuove sarabande e gighe.

È che c’eravamo rotti della solita partitina a chiusure e nessuno mai ci metteva più di un euro al punto, quindi spaccarsi il melone per scartare più jolly aveva il valsente molto scarso, e il sugo ci perdeva; mai uno che volesse scaricare sul piatto la casa, la macchina, la putela, l’orologio pataccone, mai un brivido surrenale. Solito tavolo, solite sedie con calco anale, solito mazzo unto e bisunto, che le poteva riconoscere un cieco le carte in mano all’avversario, tant’è l’avarizia dei baristi; soliti calici lungo il limen, solite macchie, solite parole e riti, scongiuri, minacce: per puntare ad una uscita in un intorno dello zero. Nessuno di noi era un vero giocatore, dostoevskijanamente parlando: la sconfitta spaventava come l’orrido su cui affacciarsi per provarsi eroe e scoprirsi cagasotto; tutti cercavano solo il danno minore e, per forza, la vincita minima. Just passing time, direbbero in Albione. Fino ad esagerazioni esacerbanti: una sera il Causs, che però non partecipava al consesso degli ottimi buoni iovani, chiuse una semplice con tre Jolly; quello fu il segnale, il faro anche per ciechi naviganti: s’era oltrepassato il limite della degenerazione. Ricordo che l’unico con un po’ di animo battagliero aveva in mano pure lui una semplice già da qualche passaggio e puntava almeno ad una tripla: quando vide le carte dell’avversario adagiarsi sul tavolo e un sette di picche finire sul mazzo onde avvisare della chiusura a più uno, non disse nulla: con l’indice destro contò toccandoli i joker, poi si alzò e uscì dal bar. Non si poteva più giocare in quelle misere condizioni.

Le macchinette ci sorpresero in pieno trapasso: la birra stava lasciando il posto al rosso e al declino del fegato, oltre che dei capelli già radi. Rimanemmo sconcertati allorquando un tizio in salopette trascinò nella sala del bar la prima di tre esemplari, quella che scelsi per cavarmi la verginità ludica; le scambiammo per videogiochi ghignando all’ottusità del commerciante paesano che non conosce l’avanzare della modernità delle console; ma i berci si quietarono all’accendersi delle mille luci delle tre finte LasVegas per sfigati della valle: ci avvicinammo come i pupi ai presenti nella mattina di Santa Lucia, le accarezzammo implorando una distrazione, un appiglio per non calarci nel rosso e scivolare nella senectute. Qualunque novità sarebbe stata ben accetta e non ricordo più chi volle per primo divenir esperto, inserendo i dindi e iniziando a pigiare tasti o sensualmente o da fabbro ferraio, a seconda delle teorie e delle speranze. Ci fu spiegato il meccanismo della conversione della vittorie in buoni consumazione, con un sorriso italo-furbo che tradì la gabola. E la frase-condanna si generò: prima o poi si deve per forza vincere. L’abbrivio verso la rovina economica: sono molti i poi che si ammucchiarono e il prima divenne miraggio, eppure le notti si fecer giorni e viceversa e qualcuno sempre sorvegliava le mefistofeliche macchinette, in attesa di una mutazione impercettibile ma definitiva: il segnale che la prossima è la giocata fortunata. Poi si iniziò a vincere: nessun prodromo, solo così, ex abrupto si infilarono combinazioni e la fiducia salì verso l’empireo: tutti vincemmo qualcosa, ma nessuno centrava il massimo, la combinazione di diamanti, intrusi nel marasma tutti-frutti. Ma la vincita definitiva incombeva e, per quel che ne so io, incombe tutt’ora. Quelle mogli che nessuno osava giocarsi a carte cominciarono a fuire dalla varie domo proprio dopo l’avvento delle macchinette: non certo le nostre, dico, miei e dei miei sodali, visto che le fiaccole nuziali mai s’erano accese per noialtri. Le banche chiamarono, i piccoli commercianti videro diventare lunghe le liste di pagherò, i bimbi non avevano ricambi di vestiti e l’automobile urgeva benza: particolari della nuova indigenza, e la vincita corposa mica usciva. Io c’avevo già rinunciato, ribolle in me sangue da manica stretta e le perdite mi schifano come la peste: mi sedevo col pirlo e manco mi serviva guatare, bastava l’udito per i jingle e l’olfatto per lo stantio sudore dei tapini. Ci fu un tempo in cui a rovinarsi con le slot, con il black Jack, con i cavalli ci pensavano in due-tre paisani e basta: le macchinette portarono la ruina democratica e globale, abbassando il quoziente intellettivo necessario al giuoco; ed in fondo il segreto era proprio questo: bastava un testa di vitello per pigiare i tasti e perdere diottrie dietro ai pixel rutilanti, oltre che i soliti soldi.

Ci si rompeva le palle osservando il correr verso la rovina, sempre più rattamente, di questi fessi: alle volte non sapevo se eran più cupe le occhiaie della vittima ludica o le mie, che finivo per contare i denti dei francobolli.

Nell’età dei flipper ero oltremodo bimbo e guatavo invidioso i grandi dagli di anche e spinte aggrappati al mastodontico, per me, gioco: sullo schermo c’eran pure donnine discinte e questo accattivava e io, dal mio basso, mi figuravo che nel pazzo viaggiare della biglia ferrea, si generassero reazioni proibite; nel nostro bar ne arrivò uno con le astronavi e ad ogni punteggio elevato, lasciava partire un frastuono simile ad uno shuttle in rampa di lancio coi motori accesi; c’eran pure dei verdi alieni i cui occhi sfavillavano siccome dopati ad ogni mille raggiunto. Fu un vero orgasmo, ma quando ebbi l’altezza, i flipper già avevano ceduto i passo ai videgames e io divenni discipulo loro. A pensarci ora… ci volevano duecento lire a partita, una miseria, oggi. Ma questi ludi non rovinavano nessuno e muovevano poco l’economia: adatti a menti agili e dita pronte, richiedevano persino perizia. Come pensare che attraessero i minchioni? Ricordo con malcelato orrore i giochini tipo puzzle cinogiapponese o i poker, con bimbe pronte a levarsi mutandine tra mugolii incomprensibili: cercavan di carpirti il denaro con lo spogliarello virtuale; ma anche qui, ripeto, si necessitava di abilità; usavamo persino sei-otto occhi per farcela. La rivoluzione era vicina: non ci voleva un genio per portare un mignon di casinò in ogni bar; eppure io ci avrei visto bene il black Jack, il poker, un qualche gioco stimolante. Devono aver osservato i fessi nei veri Casinò: dove vanno a finire? Ma alle slot. Tiri giù la manetta e dlin, dlin, dlin… un cacchio di sforzo.

Seduto, scazzato e sconsolato li osservo: dita nervose perché ora non possono più stringere le paine, sbofonchiano piccole bestemmie, muovono i piedi come se temessero di bloccare la circolazione, scuotono il capoccione e tiran fuori banconote: se stanno zitti, vincono, come se non volessero rendere certi gli altri del momento favorevole, e ambissero ad essere i soli a sfruttarlo. Peccato che quelli fossero solo attimi.

mercoledì 9 luglio 2008

Particolari

Sono sempre stato propenso ai particolari: non mi occorre guardare per vedere, di questo se ne accorgono in fretta pure i miei alunni, il che serve a loro per non farsi sgamare. È che la mente registra immagini anche senza porvi la dovuta attenzione e poi ci ritorna con la memoria, sì da rinvenire qualcosa che si è trascurato in precedenza. Quando un oggetto cambia posizione non se ne accorge subito, ma nota la stonatura; a ciò aggiungo la tendenza all’essere spesso più attento alle zone periferiche del campo visivo che a quelle centrali: non è l’insieme però che resta impresso, ma il particolare o la somma di particolari.

Mi accorsi in fretta di questa mia attitudine perché mi capitava spesso di ricordare cose che chi aveva vissuto con me determinate situazioni o aveva dimenticato o, meglio, non aveva notato: con tutto che il prospetto generale sfuggiva sempre a me e non ai contingenti compagni.

E non ha nulla a che vedere con l’osservazione: ripeto, non conta il guardare, per quanto sia attento o superficiale: la chiave è il vedere. Si può osservare per ore una scena, un paesaggio, una persona… e non vederne veramente nulla: oh, beh, sapremmo descriverne i tratti, ma, dentro di noi, nessun lacerto veramente essenziale. Ed io per guardare guardo, ma so che lo sto facendo o per esigenza, o per distrazione, o per abitudine, o semplicemente perché se non lo fai magari vai a sbattere da qualche parte. Ricordo un episodio emblematico: entrai in SP un mattino qualunque di due estati fa; girai un po’ davanti al bancone con la cassa sentendomi a disagio senza sapere il perché: considerai il generale: forse il viaggio, forse l’aria di quel negozio, mai così pura… o forse c’era nel mio campo visivo qualcosa che non andava, così guardai. In alto, sopra la passerella che conduceva al reparto montagna, sulla parete, c’era l’esposizione degli zaini curata da me con obbligata attenzione qualche giorno prima: in apparenza tutto a posto, eppure… feci scorrere l’occhio lungo tutte e due le file degli zaini, dai più voluminosi ai meno, e poco dopo la metà mi si schiarì il mistero: mancava uno zaino; qualcuno, dopo la vendita, aveva coperto il buco con un esemplare già in esposizione, quindi doppio, mentre il modello giusto era ancora in magazzino. Indicai col dito la zona e dissi: -chi ha venduto lo zaino? Risero di me un po’, ma da allora si accorsero della mia attenzione ai particolari. Io noto ciò che non sembra mi abbia colpito, né a chi mi sta accanto, né spesso a me stesso: poi ci ripenso e la fotografia mi riappare alla mente e, questo è molto importante, capisco il perché l’ho memorizzata.

È un passaggio fondamentale: molti hanno questa attitudine, ma pochi la coltivano e la analizzano; perché ci colpiscono determinati particolari e non altri o, meglio ancora, perché non la visione complessiva?

Lo zaino l’avevo messo io, una occhiata generale l’ho data all’esposizione, eppure proprio in negozio ebbi modo di provarmi in tale attitudine: mica guardavo tutto, eppure mi accorgevo che qualcosa era cambiato o qualcosa d’altro stava subendo alterazioni. Ripeto: io uso molto le zone ai lati del campo visivo; quando guido guardo davanti ma vedo ai lati e, a casa, mi ricordo immancabilmente di qualche particolare registrato, oppure, in un successivo passaggio, rimarco i cambiamenti.

Questa l’introduzione: attenzione ai particolari, ma spesso non quelli guardati ma quelli notati e visti ai margini e che acquisiscono importanza successivamente.

Dunque: incontro una persona e molte volte non la vedo, almeno non generalmente; la guardo, so riconoscerla successivamente, e la saprei descrivere ma le fotografie mentali che la riguardano affioreranno al ricordo più tardi, inconsapevolmente, oppure, conoscendomi, volontariamente. Ma se mi si interrogasse nell’immediato dell’incontro sarebbe curioso: io ho guardato il viso, parlandoci del resto… o tutto l’insieme, ma subito, magari, di primo acchito, non saprei dire se tale persona, che ne so… , aveva o meno gli occhiali: ma saprei dire con certezza che scarpe, che colore per le unghie, o che sedere… aveva senza averlo guardato direttamente, ma visto perifericamente. E il particolare mi resta impresso a lungo.

Ora: sono spesso i particolari ad essere i più curati dalla maggior parte delle persone; pensate all’orologio: talvolta fa capolino una volta sola durante tutto l’incontro, ma ciascuno di noi sa che molti lo notano subito, quindi si arriva a sperperare dindi a profusione per qualcosa che passa la maggior parte del suo tempo nascosto. Su questo discorso si basa la fiducia di chi cura maniacalmente tutti gli aspetti del sua apparenza fisica.

Qui siamo al punto: anche chi non è molto dotato naturalmente… cerca di sopperire con elementi che stornino l’attenzione dal generale, magari un po’ insignificante, per focalizzare l’altrui sguardo su un particolare: ricordo un esempio lampante che, però, già trascende verso la questione precipua, comunque… : un mio ex cliente del bar era… è basso, tipo ragnetto, curvo e storto, il volto segnato dall’età e non dalla grazia… portava sempre la barba lunga come i folletti, sicché lo chiamavano Barbù e ho pur visto donne carezzargliela: -la lascia crescere e perché l’è bröt, e perché el vol fass ardà, diceva la mì mamma. Appunto: senza il barbone sarebbe stato un tipo… insignificante, con… almeno lo guardavano attirati dal particolare.

Ma parlo di cose note: è il principio del trucco, l’arte del colpire che è sempre stata l’arma delle donne e il balocco di alcuni uomini, non certo del sottoscritto, seppure io applichi le mie teorie pure a mio discapito, e sia convinto che di me si notino di più i denti storti e la pelata, deplorevoli particolari, che l’aspetto generale non certo brutto. Ma lascio perdere il discorso.

Quindi subentra Pirandello, saggio sull’umorismo, l’avvertimento del contrario: vedi una vecchia imbellettata, prima reazione il riso, poi rifletti e pensi a quanta sofferenza dietro la truccatura, quanta cura per nascondere il dolore dell’invecchiamento, allora avverti che qualcosa non torna, il contrario e non ridi più.

Il particolare parla più del generale: ci racconta chi è veramente il soggetto e, meglio ancora, quali siano le sue… peculiarità. Questo può essere provato da tutti: per dire una cagata, una donna con un push up evidentemente soffre per un seno non voluminoso, e certamente ha altre turbe, non è serena verso l’età, il decantare, vorrebbe essere guardata, giovane, ammirata per la sensualità; oppure simula una aggressività che non ha e che vorrebbe.

Io mescolo l’attitudine pirandelliana con la mia tendenza a considerare sempre la struttura e poi a smontarla: il push up mi riporta a quanto sopra e alla donna stessa davanti al suo specchio intenta a guardarsi e a ponderare ciò che vede, girandosi e voltandosi le mille volte, per dirsi almeno accettabile; ciò mi disorienta perché svela l’umana sofferenza di ognuno e le intime speranze. Un donna con il seno finto penserà di piacersi, poi piacere e arrapare magari, non disorientare con un cannone carico di tristezza: quanta sofferenza dietro la decisione di andare dal chirurgo, e quanto desiderio di migliorarsi… illudendosi. Invece non fa che rimandare al vuoto esistere, ai distorti valori e, in definitiva, alla relatività: che deve importare agli altri se lei si sente meglio così? Già, ma non ci si crede poi molto, comunque.

Incontrai Chiara una mattina in aula studio, era davanti ai computer: è sempre stata bellissima eppure era cambiata: i capelli corvini sparati come dopo una esplosione, la pelle diafana contrastava con il rosso troppo forte delle labbra, e il contorno degli occhi marcato… la salutai, e, uscito dall’aula, pensai che quegli stivali, manco guardati, mi ricordavano Guerre Stellari. Cosa era successo? Certo un cambiamento esteriore così deciso doveva legarsi ad uno interiore, eppure già non volli mai aver a che fare con la sua vita, figuriamoci con le sue turbe. Quando una donna cambia… molto, sono certo si chieda: -piaccio? E porcatroia io dovrei essere in grado di rispondere o sì o no e basta; invece comincio a pensare ai travagli mentali, alle mille questioni, ai “lo faccio, non lo faccio…” alle ore allo specchio, ai sogni, alle speranze, agli inganni, autopropinatisi, ai disinganni: ed io non voglio aver niente a che vedere con questi piccoli dolori della comune vita di ognuno.

Dietro il particolare, riguardante l’apparenza fisica delle persone, io ci vedo sempre la dolente umanità, lo spettacolo dell’uomo interiore, la sua tragedia, la vita; e non riesco a considerarlo per quello che è e basta.

Così dirmi che una ragazza viene riconosciuta per un brillante sul dente mi massacra: ci avrà pensato giorni, ore, sarà andata emozionata a sceglierlo, a metterlo, sarà tornata a casa fibrillando per la novità, avrà sperato di piacere di più o magari se ne sarà poi pentita… certo non avrà pensato di dare una mano a riconoscere il suo cadavere. O i tatuaggi, stesso discorso, povera creatura. Perché al mondo c’è chi sa vivere, chi non ci riesce perché annichilito dal suo stesso destrutturalismo, chi vede, chi no, chi ha idee e chi le spara grosse, ci sono i belli e i brutti e ci sono i mostri.

sabato 5 luglio 2008

Perno

Non sono certo gli euri sparsi e sperperati a fare di ogni martellata un colpo al cuore: non sono mai stato così legato al danaro da piagnucolarne la perdita e lo spreco; conosco il valore ma non l’affetto morboso che attanaglia le banconote ai portafogli persino oltre il bisogno. Seduto, o meglio incollato, alla poltrona (termine che dovrebbe riallacciarsi alla serena comodità mica alle spine nazarene) del dentista vivo il materializzarsi dell’incubo che spesso bussa nelle mie solitarie notti da ormai trentatre anni: pigliare orribili botte nei denti.

Bisogna levare un perno: una qualche trapanatina e il punteruolo che fa leva; poi le martellate che pure sono precise, una, due, tante. Non c’è dolore, del resto il perno è un estraneo che s’è dovuto accettare a suo tempo con gran dispendio di bava; ma oramai è parte della famiglia e la sua forzatura si ripercuote e nella bocca tutta e nel cranio onnicomprensivo. Ripenso al fatto che pure mi è servito… che mi serve, anzi, dico, almeno per mangiare… : s’è faticato per inserirlo, ora, causa granuloma, lo si leva e non tanto facilmente! Resiste indomito in una stoica pugna che non gli si richiede: un’altra botta… non sono un muro: sogno spesso di perdere i denti e mi risveglio in un lago (meglio valdell) di sudore; m’è capitato ancora di battere fortuitamente la bocca in qualche malnato ostacolo… e la paura mi ha roso il pensiero e i muscoli anali han fatto il loro dovere contenitivo. Ora si picchia volontariamente: cambia la mano; cedi, per favore, cedi… è così che deve andare, c’è una frattura ovunque.

Mi ricordo quando mi tamponarono una serena mattina, andando al lavoro: la macchina non si fece niente, io nemmeno, tanto scarsa era la velocità del distratto: eppure il rumore fu secco ed eccessivo, dati i danni… e mi è rimasto nelle orecchie per giorni, tanto che, appresso ad ogni seppur minima frenata, io mi aspettavo di riudirlo. Così questo sordo battere, questo botto che si espande nel cervello ormai in stand by, in attesa del crollo; poi l’abile chirurgo sfila il perno e tutto prende strade conosciute, canali da ripulire, fino al lampo che segnala il termine raggiunto. Ma è solo il primo corpo estraneo da levare: sono tre.