Sono sempre stato propenso ai particolari: non mi occorre guardare per vedere, di questo se ne accorgono in fretta pure i miei alunni, il che serve a loro per non farsi sgamare. È che la mente registra immagini anche senza porvi la dovuta attenzione e poi ci ritorna con la memoria, sì da rinvenire qualcosa che si è trascurato in precedenza. Quando un oggetto cambia posizione non se ne accorge subito, ma nota la stonatura; a ciò aggiungo la tendenza all’essere spesso più attento alle zone periferiche del campo visivo che a quelle centrali: non è l’insieme però che resta impresso, ma il particolare o la somma di particolari.
Mi accorsi in fretta di questa mia attitudine perché mi capitava spesso di ricordare cose che chi aveva vissuto con me determinate situazioni o aveva dimenticato o, meglio, non aveva notato: con tutto che il prospetto generale sfuggiva sempre a me e non ai contingenti compagni.
E non ha nulla a che vedere con l’osservazione: ripeto, non conta il guardare, per quanto sia attento o superficiale: la chiave è il vedere. Si può osservare per ore una scena, un paesaggio, una persona… e non vederne veramente nulla: oh, beh, sapremmo descriverne i tratti, ma, dentro di noi, nessun lacerto veramente essenziale. Ed io per guardare guardo, ma so che lo sto facendo o per esigenza, o per distrazione, o per abitudine, o semplicemente perché se non lo fai magari vai a sbattere da qualche parte. Ricordo un episodio emblematico: entrai in SP un mattino qualunque di due estati fa; girai un po’ davanti al bancone con la cassa sentendomi a disagio senza sapere il perché: considerai il generale: forse il viaggio, forse l’aria di quel negozio, mai così pura… o forse c’era nel mio campo visivo qualcosa che non andava, così guardai. In alto, sopra la passerella che conduceva al reparto montagna, sulla parete, c’era l’esposizione degli zaini curata da me con obbligata attenzione qualche giorno prima: in apparenza tutto a posto, eppure… feci scorrere l’occhio lungo tutte e due le file degli zaini, dai più voluminosi ai meno, e poco dopo la metà mi si schiarì il mistero: mancava uno zaino; qualcuno, dopo la vendita, aveva coperto il buco con un esemplare già in esposizione, quindi doppio, mentre il modello giusto era ancora in magazzino. Indicai col dito la zona e dissi: -chi ha venduto lo zaino? Risero di me un po’, ma da allora si accorsero della mia attenzione ai particolari. Io noto ciò che non sembra mi abbia colpito, né a chi mi sta accanto, né spesso a me stesso: poi ci ripenso e la fotografia mi riappare alla mente e, questo è molto importante, capisco il perché l’ho memorizzata.
È un passaggio fondamentale: molti hanno questa attitudine, ma pochi la coltivano e la analizzano; perché ci colpiscono determinati particolari e non altri o, meglio ancora, perché non la visione complessiva?
Lo zaino l’avevo messo io, una occhiata generale l’ho data all’esposizione, eppure proprio in negozio ebbi modo di provarmi in tale attitudine: mica guardavo tutto, eppure mi accorgevo che qualcosa era cambiato o qualcosa d’altro stava subendo alterazioni. Ripeto: io uso molto le zone ai lati del campo visivo; quando guido guardo davanti ma vedo ai lati e, a casa, mi ricordo immancabilmente di qualche particolare registrato, oppure, in un successivo passaggio, rimarco i cambiamenti.
Questa l’introduzione: attenzione ai particolari, ma spesso non quelli guardati ma quelli notati e visti ai margini e che acquisiscono importanza successivamente.
Dunque: incontro una persona e molte volte non la vedo, almeno non generalmente; la guardo, so riconoscerla successivamente, e la saprei descrivere ma le fotografie mentali che la riguardano affioreranno al ricordo più tardi, inconsapevolmente, oppure, conoscendomi, volontariamente. Ma se mi si interrogasse nell’immediato dell’incontro sarebbe curioso: io ho guardato il viso, parlandoci del resto… o tutto l’insieme, ma subito, magari, di primo acchito, non saprei dire se tale persona, che ne so… , aveva o meno gli occhiali: ma saprei dire con certezza che scarpe, che colore per le unghie, o che sedere… aveva senza averlo guardato direttamente, ma visto perifericamente. E il particolare mi resta impresso a lungo.
Ora: sono spesso i particolari ad essere i più curati dalla maggior parte delle persone; pensate all’orologio: talvolta fa capolino una volta sola durante tutto l’incontro, ma ciascuno di noi sa che molti lo notano subito, quindi si arriva a sperperare dindi a profusione per qualcosa che passa la maggior parte del suo tempo nascosto. Su questo discorso si basa la fiducia di chi cura maniacalmente tutti gli aspetti del sua apparenza fisica.
Qui siamo al punto: anche chi non è molto dotato naturalmente… cerca di sopperire con elementi che stornino l’attenzione dal generale, magari un po’ insignificante, per focalizzare l’altrui sguardo su un particolare: ricordo un esempio lampante che, però, già trascende verso la questione precipua, comunque… : un mio ex cliente del bar era… è basso, tipo ragnetto, curvo e storto, il volto segnato dall’età e non dalla grazia… portava sempre la barba lunga come i folletti, sicché lo chiamavano Barbù e ho pur visto donne carezzargliela: -la lascia crescere e perché l’è bröt, e perché el vol fass ardà, diceva la mì mamma. Appunto: senza il barbone sarebbe stato un tipo… insignificante, con… almeno lo guardavano attirati dal particolare.
Ma parlo di cose note: è il principio del trucco, l’arte del colpire che è sempre stata l’arma delle donne e il balocco di alcuni uomini, non certo del sottoscritto, seppure io applichi le mie teorie pure a mio discapito, e sia convinto che di me si notino di più i denti storti e la pelata, deplorevoli particolari, che l’aspetto generale non certo brutto. Ma lascio perdere il discorso.
Quindi subentra Pirandello, saggio sull’umorismo, l’avvertimento del contrario: vedi una vecchia imbellettata, prima reazione il riso, poi rifletti e pensi a quanta sofferenza dietro la truccatura, quanta cura per nascondere il dolore dell’invecchiamento, allora avverti che qualcosa non torna, il contrario e non ridi più.
Il particolare parla più del generale: ci racconta chi è veramente il soggetto e, meglio ancora, quali siano le sue… peculiarità. Questo può essere provato da tutti: per dire una cagata, una donna con un push up evidentemente soffre per un seno non voluminoso, e certamente ha altre turbe, non è serena verso l’età, il decantare, vorrebbe essere guardata, giovane, ammirata per la sensualità; oppure simula una aggressività che non ha e che vorrebbe.
Io mescolo l’attitudine pirandelliana con la mia tendenza a considerare sempre la struttura e poi a smontarla: il push up mi riporta a quanto sopra e alla donna stessa davanti al suo specchio intenta a guardarsi e a ponderare ciò che vede, girandosi e voltandosi le mille volte, per dirsi almeno accettabile; ciò mi disorienta perché svela l’umana sofferenza di ognuno e le intime speranze. Un donna con il seno finto penserà di piacersi, poi piacere e arrapare magari, non disorientare con un cannone carico di tristezza: quanta sofferenza dietro la decisione di andare dal chirurgo, e quanto desiderio di migliorarsi… illudendosi. Invece non fa che rimandare al vuoto esistere, ai distorti valori e, in definitiva, alla relatività: che deve importare agli altri se lei si sente meglio così? Già, ma non ci si crede poi molto, comunque.
Incontrai Chiara una mattina in aula studio, era davanti ai computer: è sempre stata bellissima eppure era cambiata: i capelli corvini sparati come dopo una esplosione, la pelle diafana contrastava con il rosso troppo forte delle labbra, e il contorno degli occhi marcato… la salutai, e, uscito dall’aula, pensai che quegli stivali, manco guardati, mi ricordavano Guerre Stellari. Cosa era successo? Certo un cambiamento esteriore così deciso doveva legarsi ad uno interiore, eppure già non volli mai aver a che fare con la sua vita, figuriamoci con le sue turbe. Quando una donna cambia… molto, sono certo si chieda: -piaccio? E porcatroia io dovrei essere in grado di rispondere o sì o no e basta; invece comincio a pensare ai travagli mentali, alle mille questioni, ai “lo faccio, non lo faccio…” alle ore allo specchio, ai sogni, alle speranze, agli inganni, autopropinatisi, ai disinganni: ed io non voglio aver niente a che vedere con questi piccoli dolori della comune vita di ognuno.
Dietro il particolare, riguardante l’apparenza fisica delle persone, io ci vedo sempre la dolente umanità, lo spettacolo dell’uomo interiore, la sua tragedia, la vita; e non riesco a considerarlo per quello che è e basta.
Così dirmi che una ragazza viene riconosciuta per un brillante sul dente mi massacra: ci avrà pensato giorni, ore, sarà andata emozionata a sceglierlo, a metterlo, sarà tornata a casa fibrillando per la novità, avrà sperato di piacere di più o magari se ne sarà poi pentita… certo non avrà pensato di dare una mano a riconoscere il suo cadavere. O i tatuaggi, stesso discorso, povera creatura. Perché al mondo c’è chi sa vivere, chi non ci riesce perché annichilito dal suo stesso destrutturalismo, chi vede, chi no, chi ha idee e chi le spara grosse, ci sono i belli e i brutti e ci sono i mostri.