domenica 31 maggio 2009

L'Omino e la Luce

C’era una volta un Omino magro, smunto e quasi pelato. Viveva in una Torre a pianta rotonda, quasi una gabbia di pietra, ad un solo piano, con un pertugio volto a nord, una branda, un tavolino tondo posto al centro del pavimento e una sedia. Tre libri sul piancito: i Demoni, la Divina Commedia e il Circolo Pickwick. Attorno alla Torre una landa desolata: terreno brullo, latrati di lupi e ghigni di iene, buio pesto. Talvolta nel cielo notturno, ma era pur sempre notte, passavano rapide e lancinanti veloci comete, il cui bagliore squarciava l’oscurità per brevi istanti, sebbene il tempo nella Landa Desolata non avesse misurazione: l’Omino correva fuori dalla gabbia e restava ad osservare questi fenomeni, rapito da un profondo senso di compartecipazione. Finito il tutto, rientrava un po’ più ricco e, insieme, un po’ più povero. C’era stato un tempo in cui una sorta di Stella brillava costante: l’Omino la chiamava la sua Età dell’Oro, ed aveva avuto un inizio ed una fine, anche se nemmeno lui sapeva più dire quando, visto che, come già detto, lì il tempo non valeva che un soldo di cacio. Conservava in sé una buona impressione di quell’Età, ma ormai ogni particolare che allora pareva chiaro, ora gli sembrava consistente quanto una fantasima. E c’era pure stato un tempo, diciamo così, in cui piovevano lapilli di luce come pioggia estiva, con tuoni e lampi e l’Omino si sedeva sulla soglia e sorrideva. Poi aveva scovato un puntino luminoso, laggiù, dove, chissà perché, lui si immaginava potesse esserci una grande città: quando gli pareva di stare per scomparire, lo cercava e s’immaginava che in quella urbe qualcun altro, simile a lui, potesse guardare nella sua direzione. E tutto, all’improvviso, si fece più oscuro: quasi impensabile, eppure la situazione, all’esterno, si fece peggiore. D’un tratto il cielo cominciò ad essere attraversato da suoni continui, come fischi, lamenti, scrosci: l’Omino uscì allarmato e pensò che quel buio avesse preso vita e stesse per ghermirlo e portarlo via. Scappò nella Torre e la chiuse a chiave. Quando già pensava che quella sarebbe stata la Fine, dal pertugio filtrò una Luce fortissima: l’Omino non se ne curò subito, sapendo che questi fenomeni vengono e vanno, ma quando s’accorse che tale bagliore era proprio intenso, scese e riaprì almeno un poco la porta. La Luce era veramente uno spettacolo e lui si beava nel contemplarla, come un tempo. Seppe subito che non ci sarebbe stata un’altra Età dell’Oro ma se ne fregò: eppure quella luminosità perdeva improvvisamente intensità oppure era attraversata da lampi di buio. L’Omino aguzzò la vista e s’accorse del Problema. Poteva rientrare nella Torre, ah, sì, era uscito un pochino, non l’avevo detto, ripeto, poteva tornarsene dentro e lasciar perdere, visto che quelle ferite non dipendevano da lui, eppure una vocina interiore gli sussurrò che sarebbe stata una gran cosa provare ad aiutare quella Luce a sconfiggere le strane Tenebre che la lanciavano, così che potesse tornare al fulgore originario, ed, in fondo, naturale. L’Omino brandì le sue armi: Intuito, Scritti e Parole e pugnò per la Luce. Sapeva che com’era apparsa, poi sarebbe scomparsa, eppure gli seccava proprio vederla patire ingiustamente. Ogni tanto pensava: come sarebbe bello se questa Luce fosse mia, anche solo per un minuto, un ora, cinque ore. Ma gli pareva ingiusto, impossibile e, comunque, lui si sentiva illuminato lo stesso. L’Omino sapeva che la Torre era la sua casa e che le luci venivano e andavano e le età dell’Oro o dell’Argento forse erano solo favole: eppure non voleva che quella Luce se ne andasse. E Quella guarì: almeno così sembrava. Aveva sofferto, la Luce aveva gradito l’intervento dell’Omino, pareva ora vittoriosa: e lui parve che fosse giusto che Lei se ne andasse ad illuminare le sue terre, o le terre di altri. E brancolò nel buio. Quando la Luce non c’era l’Omino pensava interdetto che fosse normale non vederla più brillare, eppure sentiva un forte senso di malinconia. Ma perché non può restare almeno ad intermittenza? Nella gabbia l’Omino pensava, come sempre, leggeva e sognava: quando dalla finestrella intuiva il barbaglio, correva fuori, ma faticava a sorridere, perché lui di luci così non ne aveva mai viste e sapeva che non l’avrebbe mai avuta, ma non sapeva rinunciare al sogno di averla anche per pochi istanti, secondi, e poi riportare nella Torre il lume del divino. L’Omino non ha mai creduto alle favole, né ai sogni oltre il possibile: eppure aveva cura anche solo del breve benessere che traeva e raccattava in sé, allorquando la Luce compariva, e penso che fosse giusto l’aspettare di Drogo, l’attesa di una splendida battaglia, sapendo, in cuore, che mai l’avrebbe combattuta.

domenica 3 maggio 2009

VIII

Il verbo partire non aveva, per noi, frequente coniugazione; e, in quelle sporadiche occasioni, s’accompagnava sempre al complemento di fine o scopo: per le ferie. Arrivava l’estate coi soliti jingle, coi calzoncini corti e le magliette colorate, e noi seduti nell’atrio della facoltà, ove almeno si pippava frescura e s’odoravano le barbelle allora splendide, leggere e agili, noialtri ci si guardava nel ghigno e ci si chiedeva che mai avremmo fatto in quel mese e mezzo di solleone e afa da stiantare. E non avevamo mai riposte: cosa facciamo in queste ferie? beh, niente; non abbiamo mai fatto niente, sennon aspettare che il Bar chiudesse, l’Università pure e i negozi anche; poi ognuno se ne rimaneva nel suo paese a menare il can per l’aia. L’assoluta assenza di passere bipedi nella nostra giornata, ci lasciava spazio per la depressa follia e per i mille intrecci di progetti fumosi; già al principio si sapeva che l’idea appena nata sarebbe morta magna cum celeritate, in un cul de sac di volo-nolo-malo. Poi ciascuno di noi, in tempi diversi, s’intende, carpì la sua laurea, e sotto il sole, insisto giaguaro, si videro grandi novità. Io che da sempre berciavo teorie culsacchiane e mediocrità da fallito esistenzialista, ho cartabollato siffatti pensieri, in opere e parole vergate sul nulla. Sapevo che non sarei mai partito, mai veramente: anche nel breve termine, m’angosciava e bloccava in dualismo partenza-ritorno. Baloccavo l’idea di salpare ma, immantinente, volavo al momento in cui sarei dovuto rientrare nella quotidiana dabbenaggine. Un weekend, one week, two weeks e via dicendo: sì, ma poi si torna. E allora perché illudere il gulliver con fiaccate del tipo relax, libertè, fraternitè, cosce all’aria e pelle bronzea? Poi tornava il momento delle catene, del masso su per la salita, e poi giù, tra lacrime e sospiri; o che me lo faceva fare di illudermi con pillole di vitalità, se poi la natura e la dozzinale quotidianità mi rassembrava più allo zombie di Romero che agli eroi iperattivi di nasonica concezione? Persino la gita nell’urbe mi carcava le spalle di un pondo insopportabile; così vedevo i miei monti e mai strillavo Addio sul barcarola né burchiello. Mi ritrovavo nella quotidiana routine lavorativa, in cui mai mi chiedevo il senso perché già sapevo la risposta e, novello Sisifo, subivo la condanna ad una forzata contingenza. Quando M partì per la prima volta, l’era l’anno del mundial nippo-coreano. Ricordo questo, ma il torneo dietro la pelota volgeva ormai al termine durante quelle due settimane che lui se ne rimase in Thai, e al buon M del calcio fregava una fava cotta. Se ne sciorinò con un suo paesano, un po’ incattivito per il fatto che né io né il barbuto N s’era deciso di accompagnarlo: in fede mia, io non volevo affrontare il cielo con le mie turbe otorinolaringoiatriche e dentali; neppure la profferta di cosce a pagamento m’avea pungolato la volontà. In quel tempo avevo ancora l’Intrallazzo. M partì e noi restammo in urbe a carpire sole e afa e sputacchiate delle marmitte, non certo dei Giganti. I giorni volarono, io feci pure un esame, non delle urine, e m’invaghii del Pickwick. Poi M tornò. Non ci si vide per altre tre settimane, finché stabilimmo per telefono un giorno all’uopo, e ci trovammo nell’urbe. Quando lo vidi scendere dal treno, capii subito che qualcosa era cambiato: sorrideva d’un sorriso troppo ampio e pieno; aveva ancora i riflessi di Apollo orientale sulla pelle; senza occhiali, quasi mi passava davanti senza vedermi: poi se li infilò. “Laggiù c’è il Paradiso” scandì per bene le parole, con calma serafica. Che fosse una questione di donne, mi parve subito cosa cristallina: s’era ritrovato nella Shangri-là della passera e manco rimembrava il tempo di sua vita mortale quando la subina l’era distante; tot bat, e via, su in camera: e le aveva amate tutte; a questo ci credo ancora oggi: so che le ha rispettate tutte ed è stato con loro come vero amante, non come occasionale fottitore. Come fosse riuscito a tornare, mi sembrava un gran mistero: il paesano l’aveva spinto nell’aereo a calci nel sedere, altrimenti mica sarebbe rientrato in Ausonia. Ma tanto solare e tronfio mi parve quel dì del nostro incontro dopo il viaggio, quanto lo ritrovai abbattuto tre mesi dopo, inverno già entrante: appassito. Questo l’aggettivo più consono. Splendido fiore apertosi al calore orientale poi aberrante cadavere sfarinato dal grigiore ausonico. Dalla loquace favella pronta a pignere le gesta erotiche di thai dalla splendida pelle, al silenzio musonico, condito di mugugni e latrati. E venne l’inverno e venne la primavera d’un altro anno. Parve ripigliare colorito: mi tampinava in continuazione: “dai che si parte… dai che pure tu ti ritrovi… dai che ti passano tutti i mali… ”. E più passavano le settimane più riprendeva vigore: lo incupivano solo i miei rifiuti. Il mio problema era, ed è, la menzogna: pagare per ricevere un pizzico di amore truffaldino, per quanto possibilmente accattivante e godereccio, non è una cosa che mi aggrada. Temo me stesso più che i Danai, pure con i doni nelle mani. Ho il sospetto che se mi trovassi sul talamo con una donna, seppure arrapaho, pagata per starci e sorridermi e dirmi che sono bello e bravo e forte e magari fingere poppismi, mi sa che farei flop. Gran parte dei miei problemi risiedono nella mente e nella distorsione continua; dovrei pagare per credere in qualcosa, pure nell’amore di una gallinella, altrimenti il trucco non funzionerebbe. Non pago per auto-prendermi per i fondelli, figurati per le palle. E gli dicevo di no, che non sarei partito per mille motivi. Poi arrivò l’estate e s’imbarcò nuovamente. Partire, dicevo all’inizio. Un conto è partire per tornare, sapendo almeno, di tornare. Un altro è partire odiando il ritorno. M sapeva, ne sono certo, che far rientro questa seconda volta, sarebbe stata una impresa titanica. Un mese dopo me lo trovai di fronte: occhi sbarrati, abbronzato, sì, ma nessuna felicità. Una settimana prima s’era ripresentato alla porta di casa sua squattrinato, senza valigia e s’era chiuso in un mutismo ostinato. La prima volta aveva sorseggiato la perdizione, la decadenza orientale, in forma di passera: questa seconda, s’era ubriacato del tutto. Aveva il biglietto di ritorno, altrimenti sull’aereo non ci sarebbe mai salito e c’erano pure due, tre doveri qui da risolvere. Ma non fu più lo stesso. Ti parlava e sorrideva forzatamente; io che lo conoscevo, intuivo il progetto latente: era tornato col corpo, ma la mente no, quella era in Thai, in un eterno massaggio. Le persone come me non partono: due catene di monti le tengono compresse in una valle, laghi e passi alpini sono meri riferimenti geografici di una ristrettezza genetica; tutti hanno radici, ma c’è chi le ha molto, molto ed inutilmente, profonde, un po’ come quelle dei miei denti, sempre calcificate alla mascella. Appena l’orizzonte s’apre, principia l’angoscia, la malinconia per quei subdoli pinnacoli dinnanzi alle finestre e per quel campanile ritto in priapesca sfida. La gente come me, resta. Non c’è prica che valga, né profferta di lauti desinari e gamberi a profusione; non sgrondate e lavacri, non melliflue forme e richiami di barbelle: il valligiano non ha valige, ma zaini, di fuffa, di merda nel cervello, di pietre. Ingobbito. Ma M non era della valle, lui campeggiava laddove non sai più di che urbe sei, sive leonessa, seu desotaodesura, e già si intravede la madunina e s’odoran i panzarotti in medio l’ano. Lui respirava aria inquinata e non riusciva a formattare il cervello dopo il secondo viaggio. Lavorò un anno siccome forzato; poi mi telefonò coniugando il verbo: io parto, indicativo presente, certezza, realtà, oggettività. Lo penso sulla spiaggia con un gambero tra le fauci, lui conte Ugolino, l’altro arancio Ruggeri; senza forbire a’capelli. Pulendosi i denti colle chele. Lo immagino con fanciulle preste molto, diverse ogni sera: s’è pigliato tutti i soldi, suoi e dei parenti, da intendersi alla latina quest’ultimi. Non c’è invidia: il suo eterno presente è il tempo della degenerazione del fanciullino sordido; il mio del vecchione anticipato; cristallizzati entrambi, consapevoli ambedue.