sabato 15 dicembre 2007

mercoledì 5 dicembre 2007

Chiara

Chiara era tutto quel che sognavo per me stesso nell’età che i sogni ancora permette. Era il principio di un nuovo senso addentro l’incipiente buio che non avrebbe trovato sbocco e, vinto per tempo da tanto raggio, altro non avrebbe che potuto ritirarsi nelle latebre che il cervello cela. Colta l’imago in quella mattina dinanzi all’ingresso del loco ove mertammo il titolo accademico, entro le segrete stanze del conscio suscitai la consapevolezza e che lei fosse la depositaria di tanta facultate e che me medesmo fossi, al contrario, già perduto. È vero, leggemmo Parini e non più avante, scorremmo la bianca pagina e il Giorno mentre la Cariatide dalla cattedra menava il can per l’aia di vuoti e ameni dissertari atti al Settecento; è vero, parlammo del più e del meno mentre s’attendeva il turno per sbracare la preparazione, io sul Novecento, lei sull’Ottocento; è vero, c’incontrammo altre e altre volte, ma non tignemmo il mondo di sanguigno. Anzi. Feci quello che mi è sempre riuscito meglio: ascosi la mia persona e il mio errabondo io. E il caracollare nella finitudine prese quell’abbrivio che più non trovò ostacoli. Chiara cambiò in meglio. Io sparii a me stesso e a lei e a chiunque.

sabato 1 dicembre 2007

Passion 2 (continuazione)

Lungo il corridoio bianco: le mattonelle grigie raramente rivelano lo strascicare di logore ciabatte. Un profondo odore di disinfettante, alla parete rotondo un orologio ticchetta la sua monotonia; tutti uguali questi corridoi, e le stanze non si distinguono altrimenti che per le diverse chiavi per serrarle e talvolta aprirle e per il numero nero sullo sfondo bianco delle porte. Se ci appoggi l’orecchio e vinci i secondi e le lancette ritmiche, puoi udire un rantolo, o un mugghio, o un sussurro, o un pianto, o una nenia senza senso, o un raglio: oltre quella porta, quella con il trentatre, ricordi?, tu venisti nel folle mondo. L’uomo-mucca presagì il momento topico e si zittì; quella che non sapeva tenere le cosce strette, da mesi era gentilmente trattenuta al letto da cinghie, più nessuno entrava sennon per levarle la merda e cambiarle gli stracci sul ventre gonfio di te: qualcuno disse alle crepe nei muri che improvviso il lume azzurro alogeno dei corridoi aveva sfrigolato come preso da emozione, poi, per una frazione di secondo, il buio e di nuovo la luce, a normalizzare. L’uomo-pecora belò con insistenza e comparve un camice bianco siringato, poi un altro, per sicurezza, poi un pianto e uno strillo acuto a lancinare l’aria: tu nelle braccia della ninfomane, placenta colava stanca di nutrire, giù per le gambe, a gocce sul pavimento. Qualcuno arrivò con indolenza e si preoccupò del cordone ombelicale e di te. Poi mesi che non puoi ricordare: l’affido al sepolcro imbiancato con moglie incapace di proliferare, oppure lui impossibilitato sia ad ammetterlo che a dirlo, pena elezione persa. Ricordi? Leggesti di Smerdiakov e piangesti. Uscendo nel mondo avevi sempre nelle nari il disinfettante.

La pila degli scarti cresceva indomita alla tua destra.

Nemmeno riflettevi più sul senso di distinguere un pezzo buono da uno inutile; lo precipitavi nei condannati senza appello e solo un tintinnio interrompeva il monotono replicarsi del ritmo produttivo. Alzare il volto verso altri vuoti come te? Quali pensieri si intrecciano al sommo di cervelli ridotti alla pura, semplice e talvolta sterile ripetizione? Davanti alla macchina del caffè ci avevi provato: due parole sul senso della vita; e uno t’aveva mostrato il frutto di una foia bastarda dopo la tracannata e nemmeno sapeva tratteggiare il volto che eppure sotto il velo doveva aver osservato: ma anche nel giorno delle fiaccole nuziali, solo il brandy gli aveva concesso lo stomaco. Vedesti negli occhi dell’infante i tuoi. E quella sirena ogni mattina: nel gelo invernale o nell’afa di agosti sempre identici, impietosa e puntuale al richiamo. Ti trascinavi fino al tuo posto: anche allora, nelle prime ore della giornata, l’indomito tuo cuore ti suggeriva di provarci, di cercare pescatori di anime, di parlare di mondi migliori e di beatitudini, ma alla trecento ventisettesima sigaretta, offerta come risposta, abbandonasti l’intenzione.

La disser pazza, sennonché, tra le maglie della presunta lucidità mentale s’annida pacifica la follia. E quando senti enfiarsi il petto ed il tempo perde coerenza, slittando il prima sull’ora, sul poi, sul sempre e si solletica da sé la mente, affine a Larsen, le porte del supposto manicomio sono aperte.

Guarda come brillano di luce propria, come parlano di ponti attraverso le acque in fiamme, come tralignano l’Assoluto: i tuoi fratelli in bianca camicia con cinghie.

Estatica pendeva dalle tue labbra, o ebete, o ebefrenica; c’era la saliva che sfuggiva agli angoli della bocca senza un fazzoletto pronto ad asciugarla. Ma lumi cerulei, flavi capelli mai rattenuti da lacci, diafana pelle e sanguigne labbra: pria che il pensiero s’arrestasse sulla follia c’era sempre il tempo di commuoversi e sentirsi inferiori alla Bellezza; poi entrava il pianto di qualcuno e la violenza di molti. Questo, sì, hai fatto di buono: sottrarre il fiore già estirpato dalle brute grinfie ché almeno non lo facessero a brandelli coi denti o colle mani. Ma la speranza no, non dovevi darla a colei che pietà avrebbe preferito morta non nata.

Parlavi d’amore, ancora, povero fesso, ancora d’amore, come se i secoli non t’avessero insegnato niente!

Parlavi d’amore davanti allo strazio di membra fanciulle sperse nell’acido fino a non essere mai state.

Parlavi d’amore innanzi alla supplica sfatta nello sciolto mascara ruinante sulle guance imbellettate con troppa cura solo per piacere, non certo per disarticolarsi nell’urlo della giovinezza forzata.

Parlavi d’amore di fronte ai passi strascicati nella neve con un ligneo appoggio tarmato, da una panca all’altra, sognando una materassa almeno, trovando invece requie eterna all’ombra del sicomoro.

Parlavi d’amore alla finestra di un volto stravolto dalla solitudine, occhi incavati e raggrinziti e piangenti e capelli sfarinati dalle sue stesse suole su pavimenti con un solo tipo di impronte sulla polvere, all’ombra di un gibetto.

Parlavi d’amore all’asfalto gommato scompostamente senza frenare l’urgenza di arrivare da qualche parte, alle lamiere contorte nel ghignare dietro alla fretta, ad un volante sghembo, a cerchioni… non certo tondi.

Parlavi d’amore a chi non torna, a chi non sa di tornare, a chi non lo sa, a chi aspetta, a chi non è aspettato da nessuno, a chi sapevi essere un illuso sempre e comunque.

Parlati d’amore adesso che cerchi coi lumi a pezzi un Longino qualunque, pietoso lanciere, oppure un Tito, o un Dimaco da intortire con quella vecchia frottola del posto nel regno del tuo paparino: e ti chiedi che ci fai lì?

Seduto su un masso a favore di Apollo, si guardava le mani sporche di olio nero: le unghie più non recuperavano l’originale trasparenza, nemmeno usando quella piccola spazzola che dal bancone del supermercato gli aveva promesso mirabilie. Considerò la camicia lisa da lavaggi senza perizia, i pantaloni senza un determinabile colore, le scarpe come barcacce incapaci di attraversare un rivo senza profondità. I capelli unti parevano fusi colle guance sbarbate, perché lui, questa volta, non aveva peluria sul volto. Alzò gli occhi e vide che la matta sedeva nel prato e lo osservava attraverso secondi lucidi; alla sua destra quel tizio che raccattava elemosina alla stazione: la chitarra scordata era ai suoi piedi, così come il meticcio spelacchiato, l’unico essere consapevole in quel gruppo. Lui si passò la lingua sulle labbra aride. Sotto di loro, a valle, per dire, si trafficava la quotidiana lotta per la sopravvivenza, e forse, proprio in quell’istante qualcuno stava morendo: a questo pensò; non all’ennesima cacciata dopo un discorso abbozzato nel piazzale della fabbrica; e dire che s’era formato un buon gruppo di ascoltatori, là al sole, dopo il frugale pasto: lui voleva parlare del rispetto da esigere e da portare, del non fare agli altri quello che non volevi subire a tua volta, ma subito s’era travisato il senso e le guardie, prese da uno zelo ignorante di tutto, avevano associato il crocchio ad una possibile cellula… eversiva… da non crederci, non ora, non col sedere sulla nuda pietra, non col sole sulla testa e l’aria libera del sabato pomeriggio, non lì, dove quella stupida presunta lotta arrivava solamente in una eco debole. Eppure pure di sabato, pure quando potevano riposare quegli schiavi laggiù subivano l’imperio genetico della presunta competizione per qualcosa in più, e per molto e molto in meno. Soffiò tra i denti: -non chi va al mulino s’infarina, ma ti infarini al mulino che vai. Chissà tra quali fronde mentali era uscito questo pensiero. La matta strabuzzò gli occhi e prese a lacrimare, il postulante corrugò la fronte. Lui ci pensò: -sì, perché è scontato che uno si infarini sempre e se si rassegna di farlo in un luogo… minore, lì gli toccherà, e non potrà mai testarsi in uno maggiore. Sibilò soddisfatto. Il cagnolino lo osservò basito. –I tempi stanno cambiando e bisogna tenersi aperti a tutte le soluzioni, se vi fare trovare infarinati, non saprete mai cosa vi siete persi. Aggiunse questo chiarimento con malcelata soddisfazione. Il tizio che vendeva quattro gracchiate per un euro, lo fissò adirato: -e che cazzo vuol dire questa cagata? Era un tipo icastico e un attimo materialista: si era interessato al cappellone solo dietro al discorso di un ipotetico regno in cui entrare e nel quale, probabilmente, potere pigliare a calci nel culo tutti quelli che sputavano nel suo piattino per le monete, o quelli che deridevano il suo cane, o quelli che insultavano lui, nobile decaduto, dal palazzo a sotto il ponte. –sei un disgraziato babbeo, e non c’è da stupirsi che ti vogliano fare le fette, a volte biascichi cose giuste ma altre dici di quelle cazzate. Lui lo guardò senza stupore, sapeva di non essere capito ma gli sfuggiva una cosa: che volevano in quest’epoca? Non gli riusciva di trovare un qualcosa che potesse dirsi in comune, condiviso, un appoggio con cui sollevare animi… morti. E lui stesso sembrava non avere più la verve di un tempo: gli uscivano frasi cui non credeva, o che nemmeno sapeva collegare tra loro e farne un discorso, come se nel suo cervello ci fosse stato un collasso di idee, circuiti in tilt. Dal momento in era giunto in quella città aveva sentito un lezzo di decomposizione, un suono disarmonico, un fluttuare di miasmi malsani. E l’emicrania era giunta repente.

Ad un passo dal baratro era bello affacciarsi ed immaginare il volo catartico e il rumore delle ossa sulla scogliera o sul semplice asfalto grigio: e il rosso vitale espandersi conquistando, centimetro dopo centimetro, lo spazio bigio, vincendo una cartaccia di patatine gettata senza pensiero e una lattina di dolce caffeinato e gasato, abbrancando amorevolmente finanche una cicca morta da giorni e calpestata, per finire tra le grate del tombino, e giù, flic, floc, nelle fogne, casa natia d’ogni compassionevole ratto. Ricordi? Quell’altra volta il bischero tentatore dalle caprine zampe, t’avea proposto il volo, -tanto, ti disse, schiere di biondi cherubini e, o, serafini, verranno preste a salvarti e a poggiarti su di un saldo terreno. E tu l’avevi guatato con sicurezza, non nelle truppe alate ma nel tuo destino di re. Invece, nei giorni della metropolitana solitudine, proprio quella certezza veniva meno: davanti ai tuoi lumi il fato t’era nebuloso, il dubbio ti rodeva dentro e le budella si contorcevano dal sospetto. L’inganno: chi ti faceva certo del salvataggio? Contare, sì, ma su chi? E se davvero il tuo corpo fosse piombato sul fondo d’un qualche baratro, chi t’avrebbe rassicurato di un impossibile splat sanguinolento? Nessuno, certo. E la cosa non ti dispiaceva del tutto. Sapevi che l’unica democrazia sta nella morte; ma questo discorso l’avevi fatto, ci avevi provato almeno, e nemmeno uno ti aveva inteso, anzi, l’impressione è che proprio da quei discorsi aveva preso inizio la fine. Le busse, le prime, erano seguite alle lodi per sorella morte: ma non eri tonto, questo ti rimprovero! L’avevi capito che nessuno più vuole morire! Che senso aveva parlare di dignità della e nella morte, a chi l’aborriva, la naturale fine? Paga, paga il prezzo dell’ardire; anche quando sei scampato alle banalità, ti sei preso la vanga in mano e hai scavato le fossa. Guardalo il sole scendere dietro la montagna, sorridi pure tra le lacrime di rubino, sentilo, il sapore salato del liquido vitale. Non c’è più nulla da fare, tutto è compiuto, come l’altra volta, ma in questa non hai combinato un cazzo.