mercoledì 27 febbraio 2008

Turibio(3)

Ma ciò che più gli gustava e titillava l’animo l’era la cerimonia funebre, el funeral: al dondon cupo o tonitruante, pigliava la giacchetta e correva giù dalle scale, sorvolandone dei tratti; lasciava dietro sé la domo e smetteva di frullare le gambette solo sul sagrato. Da quando s’era guadagnato il diritto di reggere la Croce Massima durante il corteo, riusciva a stento a trattenere la soddisfazione, quasi libidine, di sfilare per il paese là davanti, solo, impettito, il sacro legno stretto nelle mani, fiero e sicuro, primo ad uscire dalla stanza delle pie sofferenze, primo a calcare l’asfalto mentre impazienti le automobili attendevano la fine della triste sfilata, primo ad infilare il ponte e a ingredire nella chiesa, traversandola longitudinalmente insino agli scalini, ove attendere il feretro. Poi, finita la celebrazione, ripigliava il simbolo cristiano e dietro la bara, si pazientava sulla sua dose di sbruffi d’aigua santa aspersa dall’amico sacerdote: si ripeteva a ritroso il corridoio tra i banchi piangenti e guidava il secondo corteo, l’ultimo, verso il camposanto, ove, proprio lui, il Turibio dava l’estremo saluto a chi avea fatto il salto. In quelle sofferenti occasioni si sentiva investito d’una grande missione, principiava a fantasticare che senza il suo prezioso contributo, l’anima del poverello non sarebbe riuscita a trovare il giusto varco, o la via illuminata da una luce che solo lui colla sua croce potea accendere: dobbiamo aver pietade d’un ragazzetto che cresceva col ritmo delle celebrazioni, enumerando gli anni in base ai natali serviti, o alle pasque? Forse sì: solo con la cotta addosso riusciva a sentirsi qualcuno, non certo tra le mura malcerte della scuola, ove tiranni in erba pasteggiavano impuniti, esercitandosi nelle nobili arti del furto, del saccheggio, della tortura e dell’estorsione; li incontrava anche all’oratorio, pronti a braveggiare innanzi ai videogiochi o nel campo a sei: ma agile ed esperto, il Navicella sapea guadagnare la sacristia da due, tre ingressi segreti e, una volta dentro le mura sante, l’era securo come sotto ‘a zottana materna, sol un po’ meno riscaldato.

A servire durante i matrimoni c’annava solo per pijar ‘a mancetta, quarche lira dda tramutà in dorci o partite ar flipper, siccome novella transustanziazione: nun je gustava mica, nun riesciva a ccapì icchè c’era d’essere felici e festeggià; dall’altare, a vorte, guatava gli sposini e li locchiava tremolare e sbiancare o arrossire ppe gnente; poi leggevano formulette vote e sceme (per le sue recchie iovini, direi) infarcendole d’errori e titubanze, siccome dislessici embriaghi. Non parliam dei costumi, dei vestiti e dei colori, dei fiori e di quella malnata abitudine di sprecare riso fiondandolo contro gli oramai congiunti: quanto spreco sine costrutto. Smontata la divisa, il Turibio attendeva sempre la fine delle matte sarabande sur sagrato, pijava un vasetto di fiori da un banco per allietare la cucina di mammà, e scivolava fuori rasente ai muri; in tasca stringeva il valsente: accadeva sempre che qualcuno legato ai festeggiati da parentela, s’intrufolasse in sacristia per cercare proprio lui, il solerte chierchetto, e compensarlo per il servizio preciso e coreografico. A volte il Navicella fantasticava sul numero di sue apparizioni nei filmini o sugli album delle sconosciute nozze: lui pallido, diafano nella doppia veste bianco-nera, chissà che figura ci faceva sulle pagine del giorno più bello, sulla pellicola ch’arebbe rimembrato ‘a felicità, o l’errore nefasto, a seconda dei casi della vita birichina.

Un qualche sodale ce l’aveva, ma l’era sempre una questione di legame colla chierchettato, o con la benevolenza e la benedizione della sciura Mari; non v’era periculo alcuno, del resto: preso dalle impellenti tattiche onde evitare i guardi bastardi dei piccoli teppisti della scola o, peggio ancora, dd’a classe sua, mica c’era il tempo di imbastire amicizie con chicchessia, id est con quarche d’uno che non servisse pur’illo alla sacra cena, o al sacrifizio dominicale. Eppure c’era da spassarsela anche così, a saper valutare ben bene le cose: come dimenticare le belle partite durante le pause delle celebrazioni maggiori, tipo ‘a notte de Natale, quanno il Turibio e il suo amichetto rientravan nella sacristia e, svotato il lungo tavolo dalle amenità sacerdotali, usavan il panno verde siccome casereccio biliardo senza sponde: armati di sfere di ferro, s’affrontavano a chi pijava chilla dell’avversario pe’primo, cozzandola e spedendola nel baratro… meglio nella mano del perdente, ratto ad afferrarla, pria che l’improvviso botto in terra tradisse il ludico passatempo. Talvolta la rendevano più difficile, la sfida, piazzando i lumini rossi, financo accesi che l’era scenografico al massimo, come ostacoli da non pijà dde sponda, pena perdita del diritto di tiro, a favore dell’altro che così potea a sua volta spedire la biglia al creatore e vincere. Oppure giuocavano colle figurine dei footballers, facendole precipitare a turno dall’alto del tavolo verso terra sì da covrire chilla precedente: chi falliva perdeva il malloppo. Scorrevano così ratte le ore, tra una mistica uscita nella chiesa per servire e partite rapide e furminanti: pure nelle sortite con i sacri attrezzi del mestiere der chierchetto, lui e il sò sodale, non perdevan occasione per pungolarsi coi gomiti, ascosi agli occhi del popolino, certo, dicendosi: -poi te la fò ppagà, -poi me vendike, -se edom dopo stronss, e altre amenità birichine. E come tralasciare li ovi cioccolatosi regalati ai chierchetti dal prete a Pasqua o il vin bruè nella Santa Notte, finita la messa, fuori, tra sagrato e ponte sur fiume Mella?

Ma non riuscirono a farlo catechista: né la mare dignitosa nella sua fede corallina, né il sacerdote direi educatore. Vinse sempre la timidezza… del Turibio; ma pure le prime letture ascose ai lumi materni, pagine altrimenti vietate, di spara-bubbole americano per inizià, e di giocatore epilettico russo, per finì, o per prizipiar il tracollo verso l’inettitudine onanistica. A diciannov’anni il Navicella avea già maneggiato libri apti a menti più mature, o più abili a divincolarsi tra reale e surreale, tra pensiero che serve, e chillo che si pensa, tra indottrinamenti saggi e nichilistici voli pindarici. Non li capiva del tutto, manco in parte, eppure sentiva che je parlavan, che je svelavan oscure trame che solletticavano la solitaria sua mente, che c’era una strana affinità: ma quanno i penzieri sforavano esageratamente dall’ortodossia etica e morale inculcatagli, il Turibio trasecolava, eppure non recedeva. Ma altro fu il dramma che pose fine alla fede tanto cara e al servizio in chiesa. L’era già un anno che non indossava più la cotta: la mamuska s’era consultata coll’amico corvetto e s’eran intesi che la fosse ‘na devianza tipica dell’adolescenza, da tollerare con benevoli sorrisi, perché la pecorella smarrita avrebbe ritrovato la retta via, e rientrato nel gregge il fijolo arebbe preso decisioni più importanti, arebbe capito che ove la c’è la carità et l’amore, ivi v’è Iddio. O cose così. Magari, disse il prete, al colmo d’estasi pissicologica, da gran pedagogo, magari el se sares decidit aa cciapà el vestit, aad’annà en semenare e diintà prett a sò olta! E la madre chilla sera pianse calde lagrime, e perdonò le calcistiche bestemmie e i rutti innanzi alla tivvù, del suo peccator marito.

Altro che vocassiù, altro che seminario, altro frullava ppè capo del Turibio: dubbi atroci avevan rotta la sottile barriera che ancor resisteva alle tarme russe e americane (che ce s’era messo pure un austriaco scampato a’autoeliminazione manu armata, e sproloquiava dde omo argilluto scorazzante per Praha, sive spirito, e di cappelli, e torri d’a Fame, ed ecs-attori dalle mille sembianze, e pinguini e bimbe rosse, e via dicendo, che lo dovreste leggere, o’minchioni!); altro avea sbracato le quattro certezze del giovine, e parte per colpa del prete stesso, parte del sò collega, ‘o curato, iovine e troppo senzibile alle coscette imberbi. Vi dirò.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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- Thomas