sabato 25 aprile 2009

VI

Il vecchio orologio in cucina ha già raggiunto per l’ennesima volta la mezzanotte; all’esterno, sopra la porta, trovano la loro falce orde di zanzare, producendo rumore e puzza tipici dell’olocausto serale. W è seduto davanti al tavolo, al buio, in canotta un tempo bianca; i piedi nudi sul pavimento nel tentativo di carpire frescura. Non pensa a nulla: finita la giornata lavorativa e il pasto, attende sempre la notte senza pensare. Il respiro regolare fa innalzare la pancia lentamente e, altrettanto piano, risiede compressa nell’inspirazione: parrebbe fermarsi per sempre, invece poi riparte e si rigonfia. Così da anni, da sempre, almeno da quando i panini e il luppolo si sono portati via il senso della magrezza. Le mani sul tavolo sfiorano un quotidiano unto: aperto agli annunci, cerchiate in rosso delle finestrelle ove qualche azienda cerca operai. Lavoro, da 30 anni il solito problema. W è sveglio, sente le zanzare crepare senza requie, le auto sciorinarsene via lungo la statale senza senso, la puzza di una stanza chiusa salirgli nelle nari e stagnare; lontana una sirena, anch’essa è un suono comune a tante notti: nella mente di W potrebbe essere sempre la stessa persona ad aver bisogno di un medico, lo stesso pericolo, la stessa morte. Quando non si conoscono i volti, tutto si confonde ed amalgama in una medesima figura: lo sconosciuto; e poi che importa sapere chi ha bisogno, chi rischia, chi se ne va? Ticchetta con l’unghia dell’indice destro: non c’è speranza di ricordare una giornata diversa da un’altra, un evento, qualcosa che abbia rotto la routine; in verità nemmeno lo sforzo di ricordare ha più un motivo. Intorno a W la casa si appresta a vivere un’altra notte, immersa nel buio, certa che domani lo stesso sole di oggi e di ieri si degnerà di scaldarla; e se sarà pioggia, sarà pure più gradita, ma nessuna previsione l’annuncia, anzi l’afa s’è pigliata l’imperio, non si scappa all’estate. W si alza, prende un bicchiere e lo riempie sotto il rubinetto, attento a non sprecare una sola goccia. A piedi sempre nudi esce dalla cucina e s’appresta a salire le scale verso le camere. Quante volte a fatto questo tragitto? Osserva lo stipite della porta: potrebbe accorgersi del tempo che è passato cercando di ricordare le diverse prospettive: c’è stata un’epoca in cui i suoi occhi erano ad altezza molto diversa e le scale erano un ostacolo non indifferente per gambe corte e prive di muscoli. Si appoggiava al muro e un piede dopo l’altro saliva sperperando fatica e tensione: non era mai stato né abile, né atletico; com’è che milioni di scalini saliti e scesi non l’hanno forgiato e reso decente? Il cuore pulsa scorrettamente, il grasso ai fianchi saltella. Su e giù dalle due rampe lungo anni, cambiando statura e mutando tratti somatici, eppure nulla ha evitato la grassezza e l’abbandono della forma. W è fermo ai piedi delle scale: potrebbe vedersi ragazzino scendere a capofitto perché si illude di trovare all’esterno la bicicletta rossa che aveva chiesto a santa Lucia. Oppure sentire il tonfo dei suoi scarponi da lavoro: in fin dei conti i ricordi della giovinezza sono così rari nella sua mente; veloce l’immagine del dovere si sovrappone e così gli pare di avere solo lavorato. Scuote la testa: vorrebbe cambiare mansione da ormai quattro, cinque stagioni, eppure è sempre in fabbrica, la stessa, da mille anni, da sempre, altro che biciclette rosse e amori perduti. Questa faccenda degli amori perduti l’assale sempre sugli scalini: si vede ancora seduto, lì, più su, sul terzultimo prima del pianerottolo, testa tra le mani, due lacrimoni e un panino enorme adagiato al suo fianco. I riccioli biondi? Volati via in una crudele risata. Ora W sorride: stasera niente porno, troppo caldo. Sale, lento, goffo col vetro in mano e l’acqua che tremola. Pianerottolo: si ferma, di sotto si sente il gocciolare del lavandino; dimenticanze, disattenzioni, anche in questo W non sa che ripetersi; gli viene da chiedersi quanti anni abbia: 40, 45, 50, 100, 1000, non cambierebbe poi molto. In effetti è probabile che davanti al tornio, decenni or sono, lui sia morto, senza funerale perché senza cadavere, morto alla vita. Guarda in alto: il soffitto è troppo scuro: a nessuno verrebbe in mente che la luce elettrica sia già stata inventata; l’oscurità è naturale, così come la muffa. Manca un rumore: il rantolo del sonno di sua madre. W sbatte le palpebre e riprende a salire: l’acqua che s’era finalmente quietata, torna a sbattere sulle pareti del bicchiere. I piedi nudi salgono, le orecchie si tendono verso nessun suono. W non s’affretta, forse mamma è ancora sveglia e fissa il soffitto della sua camera: lui arranca verso la cima, poi volta a destra, nel corridoio e si ferma davanti alla stanza che fu alcova dei suoi genitori; la porta è spalancata, il talamo è là, nelle tenebre avvolto, nessuna fiaccola nuziale. Papi è morto da secoli, all’epoca dello sciopero. Domani discuteranno della crisi, in fabbrica: i sindacati sono sul piede di guerra; i proprietari vogliono andare all’est, manodopera conveniente, tanti W come automi, costo minimo, tutto normale. W sorride, a lui poco interessa; potrebbe andare all’est, potrebbe starsene qui disoccupato, potrebbe farla finita. Entrato in fabbrica minorenne, importa poi molto sapere quando ne sarebbe uscito? Il letto matrimoniale è fermo, le coltri pure, il rigonfio che dovrebbe essere sua madre non si muove. W avanza nella camera, lento si affianca al comodino, accende la luce dell’abatjour. Niente. Nessun sussulto. Avvicina il suo volto a quello che dovrebbe essere di sua madre: non un respiro; sposta le coperte, lei è lì, immobile, eterna. Non ricorda nemmeno se le ha mai voluto bene; rimasti soli non c’è stato neppure un vero dialogo. Poi lei s’è invecchiata e infermata; viene una donna tutti i giorni ad accudirla: W manco ricorda il suo nome; la paga, ogni mese, in contanti. W guarda la sveglia: 00:45. Morta. Questo è un cambiamento, la rottura nella routine: la osserva perplesso, come se la morte di sua madre appartenesse ad un altro quando o dove. Che fare? Fare qualcosa, e perché mai? Diversamente da così, le cose, come devono andare? Si chiede, in pochi secondi pratici, se deve chiamare il medico, la polizia, l’esercito, i pompieri: sorride, ma chi mai sarebbe venuto per un’anziana morta di vecchiaia? Bisogna avvisare, sì; ma ora, o domani, che cambia? Invece di andare al lavoro, domani chiamerà il medico, poi si vedrà. Tanto sua madre mica ha fretta. W torna indietro e poi decide di andare verso l’altro lato del talamo nuziale; appoggia il bicchiere sul comodino di suo padre e poi si stende a fianco di sua madre morta. Da basso sale ancora il ritmo della goccia nell’acquaio. Domani si potrebbe chiamare l’idraulico, dopo il medico, s’intende. W chiude gli occhi: nonostante il caldo può dormire, lui ci riesce. Il corpo al suo fianco è in pace, prima o poi ci sarebbe arrivato pure lui ai pascoli del cielo. Per rispetto sarebbe meglio non russare.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi piace molto anche quando esci da te, quando decidi di smettere di far capolino nella vicenda ed entri nel cervello di un altro.
Sono proprio contenta di averti letto stasera.Domani vado sui colli piacentini a magnare lo gnocco fritto.buona domenicaaaaaaaaa

Lorena