mercoledì 22 aprile 2009

V

Si dice che abbia avuto tre mariti, due qui, in valle, uno all’estero durante un viaggio in una imprecisata località esotica. Si dice che abbia passato da un po’ la quarantina. Si dice che abbia rifiutato quattordici richieste di matrimonio, diciotto di fughe, ventitre di amanti propostisi con grandi sacrifici. Si dice abbia due figli ignoti ai più, oltre ai due ufficiali, con l’ultimo marito, quello certo. Si dice che sin da bambina mandasse in sollucchero i maestri recitando Dante a memoria, in piedi, sul banco, gli occhi chiusi e i ricci neri svolazzanti, sebbene non ci fosse un refolo d’aria. Si dice che abbia imparato a suonare il pianoforte in un anno… duro solo per l’insegnante, datosi poi alla dipendenza alcolica. Si dice che suoni il violino alla pari con Paganini e che le sia apparso il diavolo in persona per offrirle il suo regno, sdegnosamente rifiutato. Si dice che giochi a scacchi bendata e le sue Torri siano efficienti quanto Uzi irakeni. Si dice che non abbia mai chiesto nulla, ma che tutto le sia stato offerto, eppure questo non mi torna del tutto probabile, dato che si dice pure che sia follemente innamorata di uno che non è in grado di capirla. Io ebbi la ventura di avere da lei un passaggio in macchina, in una mattina di primavera, andando verso l’urbe. Non la conoscevo personalmente, non è nemmeno del mio paese, sapevo che macchina ha, ma mai, nemmeno nei miei più sfrenati sogni, avrei pensato che si sarebbe fermata a raccogliermi. In realtà manco lo facevo l’autostop: aspettavo al corriera, preso nel mio mondo, osservandolo da un oblò. La conoscevo di fama, e del resto non ci vuole molto; e sapevo, perché l’avevo vista molte volte, che era bella, ma, dio e i serafini mi perdonino, io bellezza più bella non l’ho mai vista. Forse una volta, in discoteca, vedendo una tizia, rimasi di stucco per un buon quarto d’ora. La prima cosa che pensai quando abbassò il finestrino per offrirmi un passaggio, fu che dovevo essere morto, e allora evviva la morte! I neri capelli come nuvola in tempesta, facevano cornice al bianco volto: le labbra scarlatte lasciarono fluire suoni come solo uno strumento diabolico; gli occhi erano dietro due lenti scure: non so perché ma capii che aveva pianto. Non vidi le gambe, non subito: Vostro Onore, in fede, mi creda, non le vidi e nemmeno le tette, ma qui non ho speranza di essere creduto: chi non le vedrebbe? No: sorpreso nel Gabbio intesi la profferta, e come se fosse del tutto naturale, entrai in macchina, al suo fianco. Ciò che ancora oggi mi stupisce è la spontaneità del mio atteggiamento: fu subito come se io fossi suo amico; non mi intimorì, non pensai ai sentito dire, non pensai a nulla: lei ingranò la prima e partimmo. -Dove vai? Sapevo che cantava ma non avevo mai sentito la sua voce: il tono femminile spesso mi stanca in due secondi, il suo mi ricordava il sussurro di una delle tante sedicenti dee del sesso che vanno in tivvù a ciarlare; tanto fumo… invece costei sembrava la cornucopia. Accostai subito il colore del suo collo ad un frutto da leccare avidamente: mi costrinsi così a guardare fuori dal finestrino. Mi parlava, mi raccontava fatti della sua vita, come se mi conoscesse da tempo e io l’ascoltavo avidamente, perché capivo che altra occasione non ci sarebbe stata. Non sono mai stato bravo negli approcci: ricordo che con Chiara impiegai due settimane a sedermi al suo fianco in aula per Italiano uno; leggemmo Parini e dentro di me, il cuore tuonava furioso; avremo scambiato un centinaio di parole. In verità le donne mi annoiano; per quanto trovi una bella, dopo qualche frasi di rito comincio a pensare ad una mosca che vola in una stanza vuota e mi incupisco. Quella donna invece mi attirava e nemmeno l’avevo ancora guardata: sentivo uno smodato desiderio di sapere per chi aveva pianto, perché colui mi sembrava dovesse essere quanto meno un dio greco: perché donne come lei piangono solo per degli uomini superiori. Eppure un barbaglio maligno, in me, mi pispigliava che mi stavo sbagliando. Cominciavo a volerla guardare: ho sentito ancora di donne che vanno oltre la bellezza oggettiva e pigliano a piene mani nel cesto dell’erotismo. Non rispettano i canoni del Canova, nessuno le direbbe mai Grazie: nessuno potrebbe resistere loro. Io ho sempre pensato che Moana Pozzi, Zara Whites, Emanuelle Beart, fossero di tale razza: ho visto ancora di lungi femmine così e ho pure saputo di uomini resi folli d’amore per loro. Mai ci ho parlato. Costei mi rassembrava alle donne d’antichi fasti, di virtù mareotiche, di lupanari, di orge bacchiche. Ascoltavo e guardavo: muoveva le braccia come dirigesse un’orchestra, le dita denotavano lavoro sulle corde; mi toccava le braccia e rabbrividivo di piacere; vidi le gambe: precise, affusolate, spostava i piedi e notai la caviglia sottile: in questo sono russo, karamazoviano, adoro le caviglie, mi ci soffermerei mille anni con le dita. Aveva le calze colorate, nere come fondo, con onde bianche: mio dio, pensavo al calore tra le cosce, alla follia di appoggiare le mie guance e piangere le lacrime di una vita inutile su quel morbido cuscino ebbro di piacere e perdizione. Pensavo a quanti avranno perso il sonno rincorrendo anche un solo secondo accanto a questa donna. Parlava di un uomo scorretto, che diceva di amarla e la respingeva: trasecolai; doveva essere una barzelletta o uno scherzo. Mi incuriosiva tale faccenda, così ascoltai meglio: proprio così, piangeva per un amore schiacciato da qualcuno che la fuggiva e la cercava, ma non la pigliava sebbene se la fosse presa, in senso biblico direi. Beh, chi non se la sarebbe posseduta, lei volendo: ma abbandonarla? Abbandonare questa porta per la felicità, per l’immensa autostima, per la gloria, per l’orgoglio infinito? Possibile? Contro natura, contro la mia di natura. Piangeva di nuovo: mi aveva raccolto per avere una spalla? Le parlai e lei mi ascoltava: una sorpresa ulteriore. Le parlai di mondi in cui rispetto, fiducia, amore, follia, sessualità, godimento, scambio di piacere reciproco, dialogo, verità, sincerità, esistevano, valevano, Cristo, valevano sì! Un mondo in cui qualcuno può dar tutto per avere tutto e volare verso la crescita, verso la condivisione empatica e corporale. Un mondo senza giudizio, fatto di un uomo e di una donna, sullo stesso piano. Piangeva perché questo avrebbe voluto, ma non aveva, e non sapeva comandare al cuore; nemmeno lei, bella come una dea, sapeva ordinarsi di non soffrire invano. Capivo lei, non capivo e non accettavo quel lui. Ogni notizia che avevo su questa donna svanì dalla mia memoria: subentrò la sua bellezza; poi la mente così ben accordata, poi il suono della voce, poi il corpo, immagine stessa del mio desiderio. La città era vicina, maledetta città, maledetta quotidianità mia senza gioia, senza felicità, senza una donna così che mi ami, senza pietà per me stesso, senza il gusto di morire per l’idea stessa di amare. Senza lei. Arrivammo e mi chiese dove scendevo: io mi sarei sparato pur di non scendere più, ma io nella sua vita non avevo e non avrei mai avuto nessun ruolo: le dissi che una sola lacrima per un uomo non in grado di apprezzarla, anche una sola era gettata alle ortiche. Perle ai porci; le dissi e poi si fermò e scesi. –Grazie. L’ultimo suono, in re minore, come la mia vita, in re minore. Ma per un’ora, con lei, altro che maggiore.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

sono incantata dalle tue parole...niente di più bello era mai stato scritto....grazie orsetto

Anonimo ha detto...

Una pagine magica.

Lorena