martedì 14 aprile 2009

III

La dicono “femmina pubblica”, sempre che uno capisca che vuole dire questa espressione. In verità, i più saccenti usano pure altri epiteti, ma questo è il più gettonato. A vederla potresti avere altre impressioni: guardare il suo elegante ancheggiare, udire il ticchettio dei suoi stivaletti sull’asfalto, notare il brillio nella chioma, annusare l’aroma di essenze esotiche, perderti nell’ondeggiare della gonna, calcolare il nitore del collo o delle braccia. Poi ti sorprenderebbe il ghigno sardonico del saccentone che annuisce, e tra berci e scaracchi, prima sbircia lei, poi fa l’occhiolino a te e ti assicura che quella è una “femmina pubblica”. Abbiamo la stessa età e quindi, almeno alle medie, siamo stati nella stessa scuola, ma la sezione era diversa. Ricordo solo un fatto: in gita, tre giorni in una sorta di monastero, durante una cena i miei presunti amici mi fecero finire al tavolo delle ragazze, così per celia. Non ho mai avuto vergogne o timori di questo tipo, semmai non sono mai riuscito ad intendere per bene l’importanza di certi riti, di certi passaggi vitali, di alcune tappe che ho poi saltato a piè pari. Comunque mi accomodai proprio davanti a lei e ridemmo per tutto il tempo dedicato al cibo: non c’eravamo mai parlati e non ci saremmo mai più parlati, ma non la vidi mai più così bella come quella sera. Sembrava baciata d’immensa Bellezza, e che potesse ottenere qualunque cosa desiderasse: gli occhi non smettevano mai di luccicare e crepitare, le labbra chiudevano e schiudevano la corolla bianca dei denti, la voce non contemplava dubbi. Ridemmo. Di cosa mica lo so. Non sono mai stato innamorato di lei, mentre ne conosco parecchi che ci persero dindi e talleri, cercando di afferrarla e, per giunta, tenerla. Credo siano stati questi tangheri a mettere in giro la voce che lei sia una donna di tutti. Ho sempre questa impressione davanti alle donne belle: giustamente inafferrabili e non circoscrivibili entro limiti umani. Bisogna aspettare che la Bellezza muoia per pigliarle: a tutti gli effetti si tratta di goderne la rosa, almeno dicono così i sapientoni. In lei la Bellezza è morta presto, ne convengo. Io resto sempre in disparte, la mia è una vita ai margini: vedo, non giudico, constato e passo oltre; il risultato è sempre lo stesso. Passa lungo la via e attira lo sguardo di tutti, ma la magia è finita e lei lo sa. C’è un tempo per tutto, e una volta passato, non torna più. L’hanno attirata, blandita, circuita e avuta: devo pur credere che qualcuno l’ha afferrata; l’ho spesso vita su una stessa macchina, entrare in una stessa casa, andare a braccetto con uno stesso paltò. E nella vita due più due, ogni tanto, fa davvero quattro. Ma nessuno l’ha tenuta. Deve essere la sostanza del Bello e del Giusto: non rattenibile. E ciò deve aver fatto saltare il senno agli incapaci, ai duri di comprendonio: se non posso avere, allora svaluto, allora sia l’inflazione. Non c’è bisogno di diminuire il valore di qualcosa: il tempo e la vita ci pensano da sé. Lei passa e non è di nessuno: una volta ci siamo incrociati e mi ha sorriso. Io no: ho visto la morte nei suoi occhi e non sono riuscito a sorridere; in un flebile ricordo l’ho vista dodicenne al tavolo con me, e ho pensato che la Bellezza è davvero troppo effimera. Una “femmina pubblica”? Un'illusione privata.

1 commento:

Anonimo ha detto...

khkhk