martedì 13 dicembre 2011

New

Raggiungo la Valle che è già immersa nel buio: probabilmente, vista dall’alto, la Statale avrebbe pure un suo fascino, interamente addobbata da mille fari ad intermittenza frenetica. Dal basso non è che l’eterno traffico: passarci troppo presto o troppo tardi è l’unico esorcismo alle code.
Mi sorpassa e mi stringe senza affetto una Panamera grigio topo: locchio di sfuggita il profilo lampadato del pilota; mi figuro i suoi totem: denaro, macchina, borsa che sale e che scende, lui che sale e che scende da barbelle sempre più imberbi; volontà di potenza. Adler non mi ha mai fatto diventar matto, così come Freud, cocciutamente ossessivo nel fissare il pene.
La Porsche se ne va dritta in terza fila, sbravacchiando la sua urgenza di ostender le fedine. Risalgo la Valletronfia; da anni non la osservo più: la mutano, la lordano in corpo e spirito per inseguire chimere industriali ma, poi, è sempre la stessa: la percorri e si stringe, fa gibbetto a sé delle sue case; lassù si apre a ventaglio.
Chi la guarda dal basso, la Statale? Attenti agli stop, alla fregola della destinazione, chi si prende la briga di guardarla con attenzione? Il buio è la Pietas divina che scende a celare gli errori, le rughe, i segni che la vita lascia, in barba alla Natura. Apollo m’è sfuggito nel parcheggio: se n’è sciorinato via dietro monti che non conosco; ricordo cieli attraversati da stormi guidati dall’armonia dell’istinto. Vanno e tornano in anse di piume, rincorrono traiettorie dipinte nel loro inconscio dalla volontà divina, dall’istinto, che poi è la stessa cosa.
Un pennuto psicopompo s’aggira furfante, del resto birbaccione lo era pure Mercurio, tra le auto ferme in cerca di cibo: non perdono mai l’eleganza, che li guidi la fame, l’istinto di sopravvivenza, il sogno, questi volatili, loro sì, sono sempre in armonia. Lassù l’eterno ciclo della vita; io, in basso, ad infilare analogie una dietro l’altra, per trattenere il tempo, sempre mariuolo quando si sta bene. Ricordo quei gabbiani in St.Kilda: seduto, solo, sulla sabbia, di notte, li osservavo giocare la loro logica vita: la mia, in parte, finiva allora.

Gli occhi di M. sono della sua terra: si nasce e ci si porta appresso le radici natie, vero Williams Carlos? Penso che la primavera increspi il colore delle sue iridi e che lei se le conservi come cartoline di un mondo lontano: che ne so io della Calabria? Mi pare così distante, ma non fisicamente. Io sono nato in un imbuto stretto, solcato da un fiume che non fa che trascinare in basso i miasmi della libidine imprenditoriale, che sia scarno o tumultuoso; ho il pallore cereo dell’aria ammorbata dalle fabbriche e se non vedo le barriere dei monti limitarmi a ritta e a manca, non so nemmeno dove sono.
Lei si apre in sorrisi solari: del sole caldo sulle piagge della Calabria e credo che, ad esempio, anche a me piacerebbe il sud; nei volti c’è l’origine, la Terra, la Dea Madre, Cibele: il suo arrossire è il tramonto calabrese o l’alba? Eppure nell’inizio c’è la fine, il senso è lo stesso: non c’è vita senza la morte, la dialettica hegeliana non perde mai occasione di imporsi con la logica fanciulla della morte e della rigenerazione.
Io parlo e si addensano nubi di analogie: non vivo mai nel presente; le immagini dell’attimo si fondono subito con quelle passate ed è sempre il tempo misto in cui volti e situazioni entrano nel gorgo e ne escono in sature di figure: sullo sfondo un arcobaleno d’argento.
Di fronte ad un sole che scende, alle bizzarre, per me ignorante, teorie dei volatili e al buio che sale, gli occhi e il colore di M. avvolti di spuma corvina, mi portano al mare, alla sabbia che scivola tra le dita e alla salsedine sulle gambe, a giochi mai giocati e a passioni mai vissute.
Che cosa cerco in mondi lontani?

Nessun commento: